Ne bis in idem e il progressivo superamento del doppio binario sanzionatorio

Pietro Rossomando
04 Aprile 2016

Il sempre più consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia, ferme, da un lato, nel riconoscere la cogenza del principio del ne bis in idem e, dall'altro, nel ribadire la natura afflittiva delle sanzioni amministrative, ha ingenerato una vera e propria crisi del c.d. “doppio binario”, offrendo interessanti (e doverosi) spunti di riflessione sulla tenuta del nostro sistema sanzionatorio tributario, penale ed amministrativo che neanche con l'ultimo intervento di riforma (recte di revisione) ha trovato una pronta risposta.
Il principio del ne bis in idem

Quella del ne bis idem è un'espressione che rinvia ad un principio ormai risalente, secondo il quale un soggetto non può essere sottoposto ad un doppio giudizio per l'eadem re, sulla quale si sia già definitivamente statuito (Cicerone, Laelius de amicitia, cap. 22, § 85).

Si tratta di un principio che, diversamente dal panorama normativo internazionale e comunitario, non trova espresso riconoscimento nella nostra Carta costituzionale (tale individuazione si è resa possibile solo grazie agli sforzi della dottrina che, individuando gli interessi tutelati dal principio in parola, ha percepito un simile divieto nelle disposizioni di cui agli artt. 13, comma 2 e 3 Cost.; 14, comma 2, Cost. e 15, comma 2, nella parte in cui si permette una compressione di alcuni diritti fondamentali per consentire la repressione dei reati e all'art. 25, comma 2, Cost., nella misura in cui si limitano tali compressioni ad un arco temporale ben preciso).

Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico il divieto di un secondo giudizio trova una specifica previsione nel corpo dell'art. 649 c.p.p. (il quale dispone che “L'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345”) che, sostanzialmente, si preoccupa di enucleare l'effetto preclusivo del giudicato penale (cfr. CHIAVARIO M., Diritto Processuale penale, Torino 2007. L'Autore ricorda altresì la disposizione di cui all'art. 14 § 7 PIDCP a mente della quale “Nessuno può essere sottoposto a nuovo giudizio o a nuova pena, per un reato per il quale sia stato assolto o condannato con sentenza definitiva in conformità al diritto e alla procedura penale di ciascun Paese”).

A livello comunitario i parametri normativi di riferimento sono rappresentati dagli artt. 4 Prot. n. 7 CEDU (l'art. 4 Prot. 7 della CEDU dispone che “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un'infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato”) e 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE) (l'art. 50 della CDFUE dispone che “nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”).

Ad una prima lettura delle citate disposizioni appaiono subito chiare le diverse ratio ispiratrici. Mentre, da un lato, la formula dell'art. 649 c.p.p. fa semplicemente riferimento al divieto di un secondo processo, quale conseguenza della irrevocabilità della sentenza che opera, dunque, con riferimento esclusivo ai processi penali, le norme comunitarie, dall'altro, sembrano custodire una portata ben più ampia, superando il divieto di un secondo processo e spingendosi verso una tutela volta a scongiurare il rischio di una doppia punizione per il medesimo fatto-reato.

Nel senso appena descritto, le norme comunitarie, in un'ottica maggiormente garantista, sembrano quindi preoccuparsi di offrire una tutela, per così dire, “anticipata” in quanto orientata ad evitare non la semplice duplicazione di procedimenti e di decisioni, ma la duplice condanna dell'accusato o una condanna sul medesimo fatto sul quale, quindi, sia già intervenuta un'assoluzione definitiva.


Può quindi affermarsi che le citate disposizioni, prediligendo una forma di tutela a più ampio raggio, si spingono fino a prescindere dalla qualificazione formale dell'illecito oggetto di giudizio (ma come osservato anche nella recente pronuncia della Suprema Corte 30 ottobre 2015, n. 43809 (§ 13.3), Dolce & Gabbana, l'art. 4 della Convenzione, diversamente dall'art. 50 della Carta, ha una portata più limitata perché non esclude che una stessa persona possa essere processata o condannata per lo stesso fatto da due diversi Stati aderenti alla Convenzione. L'art. 50 della Carta di Nizza, non si applica solo all'interno della giurisdizione di uno stesso Stato, ma anche tra giurisdizioni di Stai membri).

La formula di queste norme, in sostanza, supera l' ”etichetta” attribuita dal legislatore nazionale al tipo di illecito disciplinato per dare doverosa rilevanza alla sua reale natura, in quanto il ne bis in idem europeo abbraccia ogni infrazione rispondente ai criteri enunciati a partire dalla sentenza Engel (Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi. In dottrina cfr. CARACCIOLI I., La progressiva assimilazione tra sanzioni penali e amministrative e l'inevitabile approdo al principio del ne bis in idem, in Il Fisco, n. 24/2014).


Tale storica pronuncia, da cui derivano i cc.dd. “Engels criteria”, fonda sostanzialmente la qualificazione giuridica dell'illecito nel diritto nazionale (in realtà, il parametro della classificazione dell'illecito dell'ordinamento di uno Stato rappresenta solo il punto di partenza dell'analisi condotta dalla Corte. Sul punto, per approfondimenti, cfr. PERRONE L., Diritto tributario e Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Rass. Trib., 2007), i principi per la valutazione penale di una sanzione, considerando rilevanti, a tale fine, tre criteri:

  • la qualificazione giuridica dell'illecito nel diritto nazionale;
  • la natura dell'illecito (che a sua volta si riferisce ad altri sotto-indici quali:

- i potenziali destinatari del precetto;

- la finalità della sanzione comminata dalla norma incriminatrice;

- il collegamento della sanzione con l'accertamento di una infrazione);

  • il grado di severità della sanzione.


Partendo da questi precisi parametri, può quindi assumersi che, caratterizzante ai fini dell'analisi sulla medesimezza del fatto, è la identità della condotta o del comportamento, non incidendo alcun altro elemento che il legislatore nazionale abbia eventualmente fissato per la distinzione tra il fatto suscettibile di sanzione penale e amministrativa (sul punto cfr. SACCHETTO C., 'Sanzioni tributarie e CEDU', in Rass. Trib., 2015. Cfr., altresì, MAZZA O., Ne bis in idem europeo e doppio binario sanzionatorio, in Rass. Trib., 2015).

L'evoluzione giurisprudenziale del Principio e la sua ricezione come fonte di diritto

Quanto fin qui anticipato rende di agevole intuizione che la questione vede coinvolto anche il nostro Paese, ora per la vigenza di un sistema “binario”, ora per la “consistenza” delle sue sanzioni tributarie che, come si vedrà, paragonate a quelle vigenti in altri ordinamenti dell'Unione già oggetto di giudizio, appaiono senz'altro meritevoli di censura (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia).

A partire dalla pronuncia Zolotoukhine, infatti, comincia a svilupparsi nella Corte quel convincimento orientato nel ritenere esteso al fatto storico (i.e. il fatto nella sua interezza) il concetto di infrazione evocato dall'art. 4 CEDU, in modo tale da riconoscere l'applicazione del ne bis in idem a tutti i casi in cui il medesimo fatto venga nuovamente sottoposto a giudizio (Corte EDU, Grande Camera, 10 febbraio 2009, Serguei Zolotoukhine c. Russia). Può dirsi, quindi, che il principio in parola vive nella dimensione interpretativa offerta dalla Corte EDU nei propri orientamenti (rilevante in proposito è anche il contributo della Corte di Giustizia nella pronuncia 26 febbraio 2013, Aklagaren c. Hans Akelberg Fransson, causa C-617/10, laddove si è astrattamente ammessa la combinazione di sanzioni amministrative e penali per medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA con il principio del ne bis in idem fatta eccezione per il caso in cui la sanzione amministrativa non debba essere considerata “penale” sulla base di una valutazione rimessa al giudice nazionale).


Ma, ciò che appare altrettanto rilevante in questa sede, corrisponde all'esigenza di stabilire se l'orientamento della giurisprudenza comunitaria espresso a partire dalla pronuncia Grande Stevens (Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia. In tema FLICK G.M., 'Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem variazioni italiane su un tema europeo', in Rass. Trib., 2014. A seguire, tale orientamento ha trovato continuità con le pronunce del 27 novembre 2014, Lucky Dev. C. Svezia e, da ultimo, del 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia) possa ritenersi, sulla base delle indicazioni dettate dal Giudice delle leggi (cfr., Corte Cost., 26 marzo 2015, n. 49), un indirizzo ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo (a ben vedere, il consolidarsi di questo orientamento giurisprudenziale è senz'altro segno di una evidente insufficienza dei singoli ordinamenti nazionali di risolvere autonomamente la questione).

La Corte costituzionale, infatti, depone nel senso di ritenere che il giudice nazionale sia tenuto ad uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente (cfr. Corte Cost., 26 novembre 2009 e 22 luglio 2011) in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza (cfr. Corte Cost., 16 novembre 2011, n. 303), fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro (cfr. Corte Cost., 1° febbraio 2012 e 9 dicembre 2009).


Pertanto, nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo.


In questa direzione, sebbene l'atteggiamento inizialmente diffidente e avverso della nostra giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., ss.uu., 28 marzo 2013, n. 37425, Favellato e n. 37424, Romano. Da ultimo Cass., sez. III, 15 maggio 2015, n. 20260 nella quale è stato ribadito che “la fattispecie penale essendo più grave di quella amministrativa e pur contenendo questa ultima, l'arricchisce di elementi essenziali” (c.d. “teoria della progressione”), non va da ultimo trascurato un recentissimo tentativo della giurisprudenza di merito, seppur ancor timido, di riconoscere l'esigenza di una simile tutela per violazioni dovute alla scarsa tenuta del nostro tessuto normativo all'incidere di un principio di natura sovranazionale (cfr. CTP Reggio Emilia, 13 ottobre 2015, n. 406). I Giudici emiliani, infatti, in un caso (principalmente) afferente fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, riconosciuta la medesimezza della condotta, hanno concluso per la non applicabilità delle sanzioni ivi irrogate.

I possibili rimedi

Per come delineata, la questione, grazie soprattutto agli sforzi della dottrina (si vedano altresì BONTEMPELLI M., Il doppio binario sanzionatorio in materia tributaria e le garanzie europee (fra ne bis in idem processuale e ne bis in idem sostanziale, in Arch. Pen., 2015.; VIGANO' F., Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell'art. 50 della Carta?, in Dir. Pen. Cont., 2014), ha conosciuto nel tempo varie proposte interpretative.

Tra esse possono annoverarsi quella dell'interpretazione convenzionalmente orientata del citato art. 649 c.p.p. che, però, appare, in prima analisi, una evidente forzatura poiché non può chiedersi a tale norma di regolare i rapporti del processo penale con altro tipo di processo (la soluzione è stata avanzata da CAIANIELLO M., Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento dell'IVA: il rinvio della questione alla Corte costituzionale, in Dir. Pen. Cont., 2015); il sollevamento di una questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p. ex art. 117 Cost., che, per vero, sconta forti dubbi circa la sua ammissibilità; la diretta applicazione dell'art. 50 CDFUE, anche sotto forma di disapplicazione dell'art. 13 del D.lgs. n. 471/1997, ritenuta insufficiente in quanto limitata al campo di applicazione del diritto dell'Unione; la diretta applicazione dell'art. 4 Prot. n. 7 CEDU, soluzione declinata ab origine dalla stessa giurisprudenza costituzionale e non consentita ai giudici di merito in una materia, peraltro, già regolata dalla legislazione interna (in tal senso è sufficiente il richiamo alla pronuncia della Corte Cost., 26 novembre 2009, n. 311).

Conclusioni

Sulla base delle considerazioni dianzi riportate emerge evidente un quadro complesso e di non facile composizione sistematica.

A ben vedere, sembra che una valida soluzione, ma il discorso può solo essere accennato in questa sede, possa rintracciarsi solo nell'ambito di una virtuosa valorizzazione del principio di specialità (ma vi è anche chi come GIOVANNINI A., Il ne bis in idem per la Corte EDU e il sistema sanzionatorio tributario domestico, in Rass. Trib., 2014, sostiene di risolvere le situazioni di contrasto in parola valorizzando l'art. 649 c.p.p., in modo da provocare l'estinzione del parallelo processo tributario per improcedibilità nel caso in cui intervenga una sentenza definitiva da parte del giudice penale). Non può negarsi, infatti, che i dubbi sulla tenuta del nostro modello sanzionatorio di fronte al principio del ne bis in idem siano principalmente imputabili ad una perdita di identità logica ed applicativa di tale principio.


Come già autorevolmente osservato, peraltro, “se l'illecito tributario non penale viene modellato sullo stampo dell'illecito penale, applicare cumulativamente allo stesso fatto le due sanzioni significa, in certo qual modo, duplicare assurdamente la stessa sanzione”(CARACCIOLI I. - FALSITTA G., Il principio di non cumulabilità fra sanzioni penali e sanzioni tributarie e la sua aberrante mutilazione col decreto delegato n. 74/2000, in Il Fisco, n. 31/2000). Occorre dare, insomma, pieno impulso e garantire un concreto funzionamento alla specialità. Era in questa direzione, a dispetto della generica lettera dell'art. 8 della legge delega n. 23/2014, che si è espressa in termini di “attenuazione” più che di “alternatività”, che si sperava si dirigesse l'intervento del legislatore che, allo stato, è ormai rimesso alle valutazioni, seppur garantiste, delle Corti giudiziali, lasciando aperto il rischio di condanna per il nostro Paese (ne dà un (timido) cenno anche la recente relazione n. III/05/2015 della Corte di Cassazione sulla revisione del sistema sanzionatorio tributario. Nel senso di qualificare l'intervento del legislatore come di semplice “restyling” si veda DI SIENA M., Ma la riforma dei reati tributari è un'occasione persa, in lavoce.info, 15 gennaio 2016'; Id. 'La prossima riforma dei delitti tributari: fra istinto di conservazione e pulsioni innovative', in Corr. Trib., n. 34/2015).

Sotto questo specifico aspetto, dunque, il (non) intervento del legislatore desta fondate preoccupazioni, senz'altro originate anche da quel conflitto concettuale della legalità penale, ora di tipo “formale-nominalistico”, tipico del nostro sistema, ora di tipo “sostanzialistico”, tipico dell'orientamento maturato fin ora dalla Corte europea (non è un caso che, come recentemente evidenziato dalla già citata pronuncia n. 43809/2015 (§ 13.4), caso Dolce&Gabbana, il nostro Paese ha posto una specifica riserva all'atto della firma del Protocollo, secondo la quale la Repubblica italiana avrebbe applicato l'art. 4 alle sole infrazioni, procedure e decisioni espressamente qualificate come “penali” dalla legge italiana).


Si è dunque vanificata una valida opportunità per dar fine, nel solco dell'orientamento sostanzialistico tracciato anche dalla Corte EDU (gli orientamenti della Corte EDU, IV sezione, 20 maggio 2014, Nykànen c. Finlandia, Glantz c. Finlandia e Hakka c. Finlandia, pongono le basi per l'applicazione del ne bis in idem europeo), a quell'ingiustificato processo di parificazione (poi degenerato in assimilazione) dell'illecito amministrativo a quello penale.


In ragione di quanto fin qui premesso, allora, è solo facendo ricorso ad un pieno funzionamento del meccanismo della specialità (del tutto disatteso dalla giurisprudenza interna. Su punto cfr. anche CARINCI A., Il principio di specialità nelle sanzioni tributarie: tra crisi del principio e crisi del sistema, in Rass. Trib., 2015) che potrà scongiurarsi il radicamento di questo fenomeno e permettere che l'illecito amministrativo (una volta confrontati gli elementi costitutivi del fatto con i caratteri delle due disposizioni e appurato che la sanzione amministrativa non assolva, nel caso sottoposto, ad una funzione meramente disciplinare o risarcitoria) sia completamente assorbito dalla reazione sanzionatoria penale (nel caso dell'omesso versamento dell'IVA, ad esempio, una singolo comportamento illecito censurabile sulla base dell'art. 13 del D.lgs. 471/1997, potrebbe anche non costituire reato; di contro, un omesso versamento su base annuale implica necessariamente l'integrazione tanto del reato quanto quello dell'illecito amministrativo).

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