La nuova disciplina del trasferimento in Italia

Giovanni Formica
12 Ottobre 2015

La recentissima approvazione del D.Lgs. n. 147 del 2015 si propone di colmare la previgente lacuna in materia di trattamento fiscale del trasferimento di sede in Italia. La novella normativa, ancorché espressamente dichiarata applicabile ai soli trasferimenti intervenuti dal periodo d'imposta di entrata in vigore, sembra possa costituire un utile criterio interpretativo anche in relazione al passato.
Premessa

Prima della recente emanazione, in attuazione della delega fiscale, del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (cd. “decreto internazionalizzazione), la questione del corretto trattamento fiscale del trasferimento in Italia della sede legale di società estere è stata a lungo al centro di acceso dibattito.
In effetti, l'ordinamento fiscale - al pari di quello civilistico (art. 2369 c.c.) - si limitava a disciplinare, all'art. 166 del TUIR, unicamente il caso opposto - ma speculare - del trasferimento in altro Paese di soggetti già residenti in Italia. Ciò, per ragioni prevalentemente di ordine politico-finanziario, più che giuridico. Questo vulnus ha, infatti, trovato, negli anni, la sua giustificazione nella tendenza di ogni Paese a disciplinare la sola fuoriuscita di materia imponibile, vista la preoccupazione di veder pregiudicata la possibilità di assoggettare a tassazione plusvalori latenti maturati entro i propri confini.

La dottrina (pre-decreto internazionalizzazione)

In assenza di una normativa espressa, ci si è a lungo interrogati su quale dovesse essere il valore fiscale d'ingresso degli assets delle società trasferitesi nel nostro Paese. In particolare, in dottrina, la questione ha fatto rintracciare essenzialmente tre tesi contrapposte.

Secondo la prima di esse, i beni in entrata” avrebbero dovuto essere valorizzati al loro costo storico, in ragione della mancanza di eventi traslativi nell'ambito di un'operazione (i.e., il trasferimento di sede) che tipicamente interviene in continuità giuridica.

Si tratta, però, di una posizione non immune da critiche. Oltre a celare una logica fortemente ispirata da esigenze di gettito, essa non trovava, secondo molti, alcun ancoraggio normativo, né nell'art. 65, comma 3-bis, del TUIR, relativo all'immissione nel regime del reddito d'impresa di beni provenienti dal patrimonio personale dell'imprenditore, né nell'art. 110 del TUIR: quest'ultima disposizione, a fronte del riferimento generico ai “costi dei beni”, senza distinguerne la provenienza, omette di regolare la fattispecie de qua. Ben diversamente, in altre ipotesi il legislatore ha espressamente disciplinato l'immissione giuridica dei beni di una società estera nel reddito di impresa, come nel caso dell'art. 2, comma 2, del D.M. n. 429 del 2001, riferito ai valori fiscali di partenza ai fini della CFC.

La seconda tesi richiedeva, invece, di valorizzare, in ingresso, i beni della società trasferitasi in Italia in base al loro valore normale. Si tratta, come diremo, della soluzione accolta, con talune deroghe, nel decreto internazionalizzazione.
Sotto il profilo sistematico, tale impostazione consente, in primo luogo, di tenere distinti i plusvalori maturati nello Stato da quelli generatisi all'estero, rispondendo con coerenza al più generale principio del reddito d'impresa, secondo il quale sono suscettibili di essere assoggettati a tassazione soltanto i plusvalori maturati nel nostro regime impositivo e non anche quelli generatisi in altri ordinamenti. Inoltre, il riconoscimento dei valori correnti scongiura il rischio di doppia imposizione da parte dei due Stati interessati dal trasferimento, garantendo un corretto riparto della potestà impositiva, di pertinenza del primo Paese di provenienza fino a concorrenza del valore dei beni alla data del trasferimento.

Infine, tale metodo di valorizzazione risulta, altresì, coerente con l'art. 166 del TUIR, il quale dispone il realizzo a valore normale dei beni “in uscita” nell'operazione inversa a quella in commento (i.e., trasferimento all'estero della sede di società nostrane). Sarebbe, dunque, contrario ai principi di simmetria e coerenza che informano il nostro sistema impositivo, prevedere criteri di tassazione diversi e incoerenti a seconda che si abbia riguardo a beni “in uscita” ovvero “in entrata”.

Infine, l'ultima tesi faceva dipendere la valorizzazione dei beni dalla circostanza che nello Stato di provenienza fosse stata applicata o meno un'imposta all'uscita (i.e., exit tax), mediante concessione, nel primo caso, del valore corrente (cd. step-up in value) e, in mancanza, del costo storico. Se, da un lato, tale impostazione custodisce il pregio di rispondere a esigenze di ordine sistematico, dall'altro mostra anch'essa evidenti segni di fragilità. Nello specifico, essa appare finalizzata all'eliminazione ab origine di fenomeni distorsivi sia di doppia imposizione internazionale, che di doppia non-imposizione, anche recependo gli indirizzi della Commissione Europea dettati agli Stati Membri nella comunicazione COM (2006) 825 del 19 dicembre 2006.
Per altro verso e sotto un profilo sistematico, non va, altresì, taciuto che un affidamento agli eventi impositivi eventualmente intervenuti nel Paese di provenienza rischierebbe di sacrificare il già richiamato principio secondo il quale devono essere assoggettati a tassazione i soli “valori” prodotti nello Stato e non anche quelli maturati all'estero (Documento OCSE n. 6 del 2014 “Deliverable, preventing the granting of Treaty benefits in inappropriate circumstances”).

La prassi dell'Amministrazione finanziaria

Anche l'Amministrazione finanziaria ha fornito rilevanti chiarimenti, affermando, in via generale, il principio in base al quale i beniin ingresso” debbono essere considerati, fiscalmente, al loro valore corrente al momento del trasferimento in Italia in tutti i casi in cui detto trasferimento abbia prodotto discontinuità giuridica e, comunque, qualora abbia determinato, nel Paese di provenienza, il pagamento di imposte sulle plusvalenze latenti al momento del trasferimento (exit tax).

In particolare, nella Risoluzione n. 67/E del 2007, l'Agenzia delle Entrate ha affermato che “il costo fiscale attribuibile alla partecipazione di chi trasferisce la propria residenza (…) in Italia possa comunque essere determinato in base al valore “teorico”, così come stimato dall'Erario tedesco al fine di assoggettare a tassazione il socio in occasione della sua partenza (…) il ricorso a tale criterio appare (…) non solo il più idoneo a salvaguardare il diritto al prelievo dello Stato nel quale si è avuto l'effettivo incremento di valore della partecipazione, ma anche il più efficace al fine di evitare sia fenomeni di doppia imposizione che salti d'imposta”. Inoltre, in maniera analoga, nella Risoluzione del 5 agosto 2008, n. 345/E è stata confermata tale impostazione volta a considerare il criterio del valore corrente “in ingresso” (in luogo del costo storico) quello più idoneo a “evitare fenomeni di doppia imposizione nel caso in cui nello Stato estero fosse prevista la tassazione dei plusvalori latenti fino al momento del trasferimento (c.d. exit taxation)”.

In definitiva, l'Agenzia delle Entrate, sostanzialmente accogliendo la terza tesi dottrinale sopra esposta, ha assunto la seguente posizione sui valori “in ingresso” in ipotesi di trasferimento in Italia:

  1. il valore iniziale deve coincidere con il costo originario laddove vi sia continuità giuridica ai fini civilistici;
  2. la presa in carico dei beni deve avvenire al valore normale qualora il trasferimento di sede realizzi una discontinuità giuridica e, comunque, allorché, nello Stato estero di provenienza, sia intervenuta l'applicazione di exit taxes.
Il caso delle partecipazioni PEX

Nel vigore del sistema ante-decreto internazionalizzazione, in dottrina erano stati avanzati taluni dubbi sul trattamento “in ingresso” dei beni dell'impresa trasferitasi consistenti in partecipazioni societarie soggette al regime della partecipation exemption (PEX), ai fini della determinazione del carico impositivo “in uscita” nel Paese di provenienza.

Al ricorrere di un regime di esenzione, come quello in parola, ci si è interrogati sul reale assolvimento di un'exit tax, quale condizione per il riconoscimento dei valori correnti in base ai documenti di prassi anzi citati. Sul punto, la dottrina tende a propendere per il riconoscimento del valore corrente, sulla base delle seguenti considerazioni.
In primis, lo Stato estero d'origine prevede sempre una qualche tassazione delle plusvalenze PEX, nella forma di una parziale imposizione del capital gain (e.g., 5 per cento, in Italia) o mediante ripresa a tassazione di costi inerenti alle partecipazioni stesse (recapture value). In tal senso, il mancato riconoscimento “in ingresso” del valore corrente delle partecipazioni implicherebbe pur sempre un fenomeno di duplicazione impositiva, la quale oltre ad essere incompatibile con l'ordinamento tributario, sembrerebbe poter violare, in caso di trasferimenti intra-UE, il principio comunitario della libertà di stabilimento, laddove si risolve in un effetto di disincentivo al trasferimento tra Stati Membri, comportando, di fatto, una imposizione diversa e superiore a quella conseguente a un trasferimento interno a un singolo Stato Membro.

In secondo luogo, l'applicazione della PEX costituisce un'agevolazione compatibile con il diritto comunitario, notoriamente dettata allo scopo di evitare fenomeni di doppia imposizione (i.e., sulla plusvalenza e sugli utili, anche solo attesi, da cui la plusvalenza deriva).

In evidenza:
Secondo la dottrina prevalente, la sua applicazione presuppone l'assoggettamento a tassazione delle partecipazioni e non il contrario: chi ne fruisce viene sempre considerato soggetto ad imposta sul reddito, sebbene in forma limitata, in relazione ai beni che soddisfano i requisiti d'accesso a detto regime.

Nello stesso senso, è stato, altresì, osservato, a commento della sopracitata Risoluzione n. 345/E del 2008, che laddove tale documento di prassi fa riferimento all'applicazione di exit taxes nello Stato di origine, ciò che rileva è l'assoggettamento a imposizione del trasferimento di residenza e non anche l'effettivo assolvimento dell'imposta, che potrebbe non esserci per effetto dell'applicazione nel Paese di origine di regimi di esenzione o non imponibilità.

La posizione sul riconoscimento “in ingresso” del valore corrente delle partecipazioni PEX è autorevolmente condivisa anche da ASSONIME nella Circolare n. 67 del 2007 (par. 5.5.1), nel contesto dell'analisi delle norme in materia di “esterovestizione”.

Le novità normative

Come anticipato, il decreto internazionalizzazione, in attuazione dell'art. 12 della legge delega n. 23 del 2014, ha introdotto, nel corpus del TUIR, il nuovo art. 166-bis, rubricato “trasferimento della residenza nel territorio dello Stato”. È stata così risolta una problematica mai espressamente affrontata dal nostro legislatore fiscale e, dunque, lasciata al lavoro interpretativo sopra descritto di dottrina e prassi.
Nel dettaglio, il provvedimento in rassegna accoglie, meritevolmente, in linea generale, la seconda delle tre tesi dottrinali emerse nel contesto (di vuoto legislativo) antecedente alla sua emanazione. Il nuovo art. 166-bis del TUIR prevede, infatti, il riconoscimento “in ingresso” del valore normale alla data di spostamento in Italia delle attività e passività del soggetto ivi trasferitosi. Ciò, a prescindere dall'intervenuto prelievo in uscita nello Stato estero di origine e alla sola condizione che il trasferimento della residenza fiscale, ai fini delle imposte sui redditi, avvenga da Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni ai sensi dell'art. 11, comma 4 , lett. c), del D.lgs. n. 239 del 1996. In altri termini, per le società che trasferiscano la propria sede da un contesto white list all'Italia, tutti i beni (incluse le partecipazioni, dotate o meno dei requisiti PEX) e le passività acquisiscono, in ingresso nel nostro Paese, un valore fiscale pari a quello corrente, determinato ex art. 9 del TUIR, alla data del trasferimento stesso.

Al contrario, se tale trasferimento interviene da Paesi “non collaborativi” (dal punto di vista informativo), il predetto criterio del valore normale potrà trovare applicazione alla sola condizione che sia stato preventivamente raggiunto uno specifico accordo con l'Amministrazione finanziaria, ai sensi del nuovo art. 31-ter del d.P.R. n. 600 del 1973 (cd. procedura di ruling internazionale), come introdotto dall'art. 1 del medesimo decreto internazionalizzazione. In mancanza di un simile accordo, la disciplina applicabile risulta ben più penalizzante, prevedendosi, per le attività, il riconoscimento del minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore normale e, per le passività, il maggiore tra detti valori.

Nell'analizzare le nuove disposizioni, i primi commentatori non hanno mancato di osservare come il rinvio alla procedura di cui all'art. 31-ter cit. celi una logica poco comprensibile, in primo luogo per ragioni sistematiche. Se la ratio della scelta legislativa è quella di tenere distinti i plusvalori maturati nello Stato da quelli generatisi all'estero (assoggettando a tassazione i soli valori maturati nel nostro regime impositivo e non anche quelli generatisi in altri ordinamenti), la speciale normazione del trasferimento da Paesi non white list si pone in contraddizione con tale logica. Del resto, un analogo accordo con il Fisco non è previsto dall'art. 5, comma 1, lett. a), del decreto in commento, ai fini della deduzione del valore normale delle spese derivanti da operazioni con Paesi “non collaborativi”. Inoltre, l'attivazione di una simile procedura di ruling sembrerebbe costituire un onere contrario alla finalità di incoraggiare gli investimenti nel nostro Paese, peraltro potenzialmente aggirabile tramite un “passaggio intermedio” in uno Stato “collaborativo”.

In vero, tale previsione pare spiegarsi con una finalità anti-elusiva: si vuol evitare il rischio di mancato controllo sui valori “in ingresso” nel nostro Paese, qualora essi provengano da uno Stato che assicura eccessiva opacità.

Le lacune della novella normativa

Formalmente, la nuova norma dovrebbe applicarsi ai soli spostamenti in Italia della sede di società o altri enti soggetti all'IRES. Non è, invece, espressamente chiarito se le medesime regole si rendano applicabili anche nella diversa ipotesi di trasferimento di rami d'azienda, nonché allo spostamento in Italia all'esito di operazioni straordinarie (fusione, scissione o conferimento).
In effetti, il medesimo decreto internazionalizzazione ha novellato la disciplina dell'operazione opposta, ma speculare, del trasferimento all'estero, estendendo il regime del differimento della tassazione in uscita (exit tax) dall'Italia in altro Paese UE (cd. tax deferral) anche alle ipotesi sopra indicate (i.e., trasferimento di meri rami d'azienda e trasferimento mediante operazione straordinaria). Pur in assenza di un'analoga estensione nel commentato nuovo art. 166-bis cit., la sua negazione, per mancanza di un preciso ancoraggio normativo, introdurrebbe una soluzione che si ritiene eccessivamente asistematica.
Benvenuta è, invece, l'estensione delle nuove norme ai casi di estero-vestizione, espressamente chiarita nella relazione illustrativa in accoglimento dell'autorevole monito di Assonime. In sede di accertamento della fittizia localizzazione all'estero della residenza fiscale di una società, l'Ufficio dovrà considerare, ai fini della determinazione delle imposte evase, i valori delle attività/passività determinati secondo i nuovi criteri di valorizzazione indicati nel precedente paragrafo (i.e., differenziati a seconda del Paese di formale residenza della società estero-vestita).

Infine, un'ultima precisazione attiene alla decorrenza delle nuove norme sin qui commentate. Il decreto internazionalizzazione ne prevede espressamente l'applicazione ai soli trasferimenti intervenuti dal periodo d'imposta di entrata in vigore della nuova norma. Tale soluzione lascia, però, insoddisfatti. È evidente, infatti, che, laddove le disposizioni in commento sanano un rilevante vuoto normativo, sembrerebbe coerente un loro utilizzo lato sensu interpretativo, ad esempio in relazione alle questioni dubbie, mai chiarite neppure dall'Agenzia delle Entrate. Si pensi al tema delle partecipazioni PEX meglio descritto supra, in relazione al quale la novella normativa sembrerebbe aggiungere un ulteriore argomento a favore della tesi del valore normale.

In conclusione

In conclusione, il decreto internazionalizzazione, nell'introdurre (finalmente) una disciplina positiva del trasferimento di sede in Italia, ha meritevolmente colmato una vistosa lacuna legislativa, idonea a scoraggiare non poco l'investimento estero nel nostro Paese. D'altro canto, abbandonando la mera logica del gettito, il legislatore sembra aver adottato una soluzione (i.e., riconoscimento del valore normale quale criterio generale per la valutazione dei beni “in entrata”) certamente condivisibile sul piano sistematico.
Non mancano, peraltro, alcuni aspetti critici, a partire dalla mancata normazione delle non infrequenti ipotesi di spostamento in Italia nell'ambito di operazioni straordinarie (fusione, scissione, conferimento) ovvero di trasferimento dall'estero di meri rami d'azienda. Più di tutto sarebbe auspicabile che, nei futuri chiarimenti di prassi, oltre a prevedere un'estensione delle nuove norme a tali ultime fattispecie, l'Agenzia delle Entrate riconosca l'utilità delle stesse per dirimere questioni applicative sorte nel previgente vuoto di legge.

Riferimenti

Normativi:

D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147

Art. 2, comma 2, D.M. 21 novembre 2001, n. 429

D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917

Prassi:

Agenzia delle Entrate, Risoluzione 5 agosto 2008, n. 345/E

Agenzia delle Entrate, Risoluzione 30 marzo 2007, n.67/E

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