La nuova disciplina del trasferimento in Italia
12 Ottobre 2015
Premessa
Prima della recente emanazione, in attuazione della delega fiscale, del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (cd. “decreto internazionalizzazione), la questione del corretto trattamento fiscale del trasferimento in Italia della sede legale di società estere è stata a lungo al centro di acceso dibattito. In assenza di una normativa espressa, ci si è a lungo interrogati su quale dovesse essere il valore fiscale d'ingresso degli assets delle società trasferitesi nel nostro Paese. In particolare, in dottrina, la questione ha fatto rintracciare essenzialmente tre tesi contrapposte. Secondo la prima di esse, i beni “in entrata” avrebbero dovuto essere valorizzati al loro costo storico, in ragione della mancanza di eventi traslativi nell'ambito di un'operazione (i.e., il trasferimento di sede) che tipicamente interviene in continuità giuridica. Si tratta, però, di una posizione non immune da critiche. Oltre a celare una logica fortemente ispirata da esigenze di gettito, essa non trovava, secondo molti, alcun ancoraggio normativo, né nell'art. 65, comma 3-bis, del TUIR, relativo all'immissione nel regime del reddito d'impresa di beni provenienti dal patrimonio personale dell'imprenditore, né nell'art. 110 del TUIR: quest'ultima disposizione, a fronte del riferimento generico ai “costi dei beni”, senza distinguerne la provenienza, omette di regolare la fattispecie de qua. Ben diversamente, in altre ipotesi il legislatore ha espressamente disciplinato l'immissione giuridica dei beni di una società estera nel reddito di impresa, come nel caso dell'art. 2, comma 2, del D.M. n. 429 del 2001, riferito ai valori fiscali di partenza ai fini della CFC.
La seconda tesi richiedeva, invece, di valorizzare, in ingresso, i beni della società trasferitasi in Italia in base al loro valore normale. Si tratta, come diremo, della soluzione accolta, con talune deroghe, nel decreto internazionalizzazione. Infine, tale metodo di valorizzazione risulta, altresì, coerente con l'art. 166 del TUIR, il quale dispone il realizzo a valore normale dei beni “in uscita” nell'operazione inversa a quella in commento (i.e., trasferimento all'estero della sede di società nostrane). Sarebbe, dunque, contrario ai principi di simmetria e coerenza che informano il nostro sistema impositivo, prevedere criteri di tassazione diversi e incoerenti a seconda che si abbia riguardo a beni “in uscita” ovvero “in entrata”.
Infine, l'ultima tesi faceva dipendere la valorizzazione dei beni dalla circostanza che nello Stato di provenienza fosse stata applicata o meno un'imposta all'uscita (i.e., exit tax), mediante concessione, nel primo caso, del valore corrente (cd. step-up in value) e, in mancanza, del costo storico. Se, da un lato, tale impostazione custodisce il pregio di rispondere a esigenze di ordine sistematico, dall'altro mostra anch'essa evidenti segni di fragilità. Nello specifico, essa appare finalizzata all'eliminazione ab origine di fenomeni distorsivi sia di doppia imposizione internazionale, che di doppia non-imposizione, anche recependo gli indirizzi della Commissione Europea dettati agli Stati Membri nella comunicazione COM (2006) 825 del 19 dicembre 2006.
Anche l'Amministrazione finanziaria ha fornito rilevanti chiarimenti, affermando, in via generale, il principio in base al quale i beni “in ingresso” debbono essere considerati, fiscalmente, al loro valore corrente al momento del trasferimento in Italia in tutti i casi in cui detto trasferimento abbia prodotto discontinuità giuridica e, comunque, qualora abbia determinato, nel Paese di provenienza, il pagamento di imposte sulle plusvalenze latenti al momento del trasferimento (exit tax).
In particolare, nella Risoluzione n. 67/E del 2007, l'Agenzia delle Entrate ha affermato che “il costo fiscale attribuibile alla partecipazione di chi trasferisce la propria residenza (…) in Italia possa comunque essere determinato in base al valore “teorico”, così come stimato dall'Erario tedesco al fine di assoggettare a tassazione il socio in occasione della sua partenza (…) il ricorso a tale criterio appare (…) non solo il più idoneo a salvaguardare il diritto al prelievo dello Stato nel quale si è avuto l'effettivo incremento di valore della partecipazione, ma anche il più efficace al fine di evitare sia fenomeni di doppia imposizione che salti d'imposta”. Inoltre, in maniera analoga, nella Risoluzione del 5 agosto 2008, n. 345/E è stata confermata tale impostazione volta a considerare il criterio del valore corrente “in ingresso” (in luogo del costo storico) quello più idoneo a “evitare fenomeni di doppia imposizione nel caso in cui nello Stato estero fosse prevista la tassazione dei plusvalori latenti fino al momento del trasferimento (c.d. exit taxation)”. In definitiva, l'Agenzia delle Entrate, sostanzialmente accogliendo la terza tesi dottrinale sopra esposta, ha assunto la seguente posizione sui valori “in ingresso” in ipotesi di trasferimento in Italia:
Il caso delle partecipazioni PEX
Nel vigore del sistema ante-decreto internazionalizzazione, in dottrina erano stati avanzati taluni dubbi sul trattamento “in ingresso” dei beni dell'impresa trasferitasi consistenti in partecipazioni societarie soggette al regime della partecipation exemption (PEX), ai fini della determinazione del carico impositivo “in uscita” nel Paese di provenienza. Al ricorrere di un regime di esenzione, come quello in parola, ci si è interrogati sul reale assolvimento di un'exit tax, quale condizione per il riconoscimento dei valori correnti in base ai documenti di prassi anzi citati. Sul punto, la dottrina tende a propendere per il riconoscimento del valore corrente, sulla base delle seguenti considerazioni.
In secondo luogo, l'applicazione della PEX costituisce un'agevolazione compatibile con il diritto comunitario, notoriamente dettata allo scopo di evitare fenomeni di doppia imposizione (i.e., sulla plusvalenza e sugli utili, anche solo attesi, da cui la plusvalenza deriva).
Nello stesso senso, è stato, altresì, osservato, a commento della sopracitata Risoluzione n. 345/E del 2008, che laddove tale documento di prassi fa riferimento all'applicazione di exit taxes nello Stato di origine, ciò che rileva è l'assoggettamento a imposizione del trasferimento di residenza e non anche l'effettivo assolvimento dell'imposta, che potrebbe non esserci per effetto dell'applicazione nel Paese di origine di regimi di esenzione o non imponibilità. La posizione sul riconoscimento “in ingresso” del valore corrente delle partecipazioni PEX è autorevolmente condivisa anche da ASSONIME nella Circolare n. 67 del 2007 (par. 5.5.1), nel contesto dell'analisi delle norme in materia di “esterovestizione”. Come anticipato, il decreto internazionalizzazione, in attuazione dell'art. 12 della legge delega n. 23 del 2014, ha introdotto, nel corpus del TUIR, il nuovo art. 166-bis, rubricato “trasferimento della residenza nel territorio dello Stato”. È stata così risolta una problematica mai espressamente affrontata dal nostro legislatore fiscale e, dunque, lasciata al lavoro interpretativo sopra descritto di dottrina e prassi.
Al contrario, se tale trasferimento interviene da Paesi “non collaborativi” (dal punto di vista informativo), il predetto criterio del valore normale potrà trovare applicazione alla sola condizione che sia stato preventivamente raggiunto uno specifico accordo con l'Amministrazione finanziaria, ai sensi del nuovo art. 31-ter del d.P.R. n. 600 del 1973 (cd. procedura di ruling internazionale), come introdotto dall'art. 1 del medesimo decreto internazionalizzazione. In mancanza di un simile accordo, la disciplina applicabile risulta ben più penalizzante, prevedendosi, per le attività, il riconoscimento del minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore normale e, per le passività, il maggiore tra detti valori. Nell'analizzare le nuove disposizioni, i primi commentatori non hanno mancato di osservare come il rinvio alla procedura di cui all'art. 31-ter cit. celi una logica poco comprensibile, in primo luogo per ragioni sistematiche. Se la ratio della scelta legislativa è quella di tenere distinti i plusvalori maturati nello Stato da quelli generatisi all'estero (assoggettando a tassazione i soli valori maturati nel nostro regime impositivo e non anche quelli generatisi in altri ordinamenti), la speciale normazione del trasferimento da Paesi non white list si pone in contraddizione con tale logica. Del resto, un analogo accordo con il Fisco non è previsto dall'art. 5, comma 1, lett. a), del decreto in commento, ai fini della deduzione del valore normale delle spese derivanti da operazioni con Paesi “non collaborativi”. Inoltre, l'attivazione di una simile procedura di ruling sembrerebbe costituire un onere contrario alla finalità di incoraggiare gli investimenti nel nostro Paese, peraltro potenzialmente aggirabile tramite un “passaggio intermedio” in uno Stato “collaborativo”. In vero, tale previsione pare spiegarsi con una finalità anti-elusiva: si vuol evitare il rischio di mancato controllo sui valori “in ingresso” nel nostro Paese, qualora essi provengano da uno Stato che assicura eccessiva opacità. Le lacune della novella normativa
Formalmente, la nuova norma dovrebbe applicarsi ai soli spostamenti in Italia della sede di società o altri enti soggetti all'IRES. Non è, invece, espressamente chiarito se le medesime regole si rendano applicabili anche nella diversa ipotesi di trasferimento di rami d'azienda, nonché allo spostamento in Italia all'esito di operazioni straordinarie (fusione, scissione o conferimento).
Infine, un'ultima precisazione attiene alla decorrenza delle nuove norme sin qui commentate. Il decreto internazionalizzazione ne prevede espressamente l'applicazione ai soli trasferimenti intervenuti dal periodo d'imposta di entrata in vigore della nuova norma. Tale soluzione lascia, però, insoddisfatti. È evidente, infatti, che, laddove le disposizioni in commento sanano un rilevante vuoto normativo, sembrerebbe coerente un loro utilizzo lato sensu interpretativo, ad esempio in relazione alle questioni dubbie, mai chiarite neppure dall'Agenzia delle Entrate. Si pensi al tema delle partecipazioni PEX meglio descritto supra, in relazione al quale la novella normativa sembrerebbe aggiungere un ulteriore argomento a favore della tesi del valore normale. In conclusione
In conclusione, il decreto internazionalizzazione, nell'introdurre (finalmente) una disciplina positiva del trasferimento di sede in Italia, ha meritevolmente colmato una vistosa lacuna legislativa, idonea a scoraggiare non poco l'investimento estero nel nostro Paese. D'altro canto, abbandonando la mera logica del gettito, il legislatore sembra aver adottato una soluzione (i.e., riconoscimento del valore normale quale criterio generale per la valutazione dei beni “in entrata”) certamente condivisibile sul piano sistematico. Riferimenti
Normativi: D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 Art. 2, comma 2, D.M. 21 novembre 2001, n. 429 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917
Prassi: Agenzia delle Entrate, Risoluzione 5 agosto 2008, n. 345/E Agenzia delle Entrate, Risoluzione 30 marzo 2007, n.67/E |