Alcuni rilievi critici sulla nuova tutela cautelare
26 Gennaio 2016
L'art. 9, co. 1, lett. r), del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, ha apportato delle modifiche all'art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992, le quali, prima facie, risultano essere di scarso impatto e, per qualche verso, forse non in linea con quanto previsto dalla richiamata legge delega; ci si riferisce, in particolare, alla disposizione contenuta nel nuovo comma 8-bis, ove si prevede che "durante il periodo di sospensione cautelare si applicano gli interessi al tasso previsto per la sospensione amministrativa"; trova, pertanto, applicazione la disposizione prevista dall'art. 39, co. 2, D.P.R. n. 602/1973, la quale testualmente prevede che: “Sulle somme il cui pagamento è stato sospeso ai sensi del comma 1 e che risultano dovute dal debitore a seguito della sentenza della commissione tributaria provinciale si applicano gli interessi al tasso del 4,5 per cento annuo”.
Ebbene, è di tutta evidenza come la norma da ultimo citata, ovvero l'art. 39, co. 2, del D.P.R. n. 602/1973 non ha nessuna rilevanza dal punto di vista processuale e nulla ha a che vedere con "l'uniformazione e generalizzazione della tutela cautelare nel processo tributario", che risulta essere tra i principali obiettivi indicati nella legge delega; invero, trattasi di norma di carattere sostanziale.
Tralasciando la modifica di cui al co. 3 dell'art. 47 – il quale oggi risulta essere del seguente tenore letterale, "in caso di eccezionale urgenza il Presidente, previa delibazione del merito, può disporre con decreto motivato la provvisoria sospensione dell'esecuzione fino alla pronuncia del collegio" – dove l'unico rilievo di natura giuridica ipotizzabile è da ricercarsi nel far sì che il provvedimento cautelare non sia una misura “accessoria” del decreto che fissa l'udienza collegiale, bensì il contrario, ovverosia è il provvedimento cautelare che assurge ad atto principale mentre la fissazione dell'udienza collegiale non è altro che una logica conseguenza della provvisorietà del provvedimento emesso dal Presidente ai sensi del comma 3, dell'art. 47 in commento. L'obbligo del giudice di comunicare il dispositivo dell'ordinanza in udienza, previsto dal nuovo inciso aggiunto al comma 4, dell'articolo da ultimo citato risulta pertanto poco comprensibile. In proposito, va innanzitutto osservato che non vi è traccia di una tale disposizione (rectius: obbligo) sia nel processo civile che in quello amministrativo; inoltre, i tempi di comunicazione del dispositivo dell'ordinanza cautelare a mezzo PEC non risultano essere lunghi (spesso la comunicazione a mezzo PEC è inviata dalla segreteria addirittura in giornata), ed, oltre a ciò, va precisato che il contenuto ossia la motivazione dell'ordinanza, al più, si sostanzia in poche righe ove il giudice accoglie o rigetta l'istanza cautelare e fissa la successiva udienza, senza poi considerare che l'ordinanza non è impugnabile né reclamabile. In altri termini, comunicare il dispositivo, nel caso in esame, equivale a comunicare l'ordinanza; dunque, non si comprende il perché di questa netta distinzione tra dispositivo e contenuto dell'ordinanza e di conseguenza della necessità circa l'immediata comunicazione del dispositivo, addirittura al termine della stessa udienza di trattazione dell'istanza di sospensione.
Dalla modifica del comma 5, dell'art. 47 cit., il quale prevede ora che "la sospensione può anche essere parziale e subordinata alla prestazione di idonea garanzia mediante cauzione o fideiussione bancaria o assicurativa, nei modi e termini indicati nel provvedimento della garanzia di cui all'art. 69, comma 2", consegue esclusivamente l'eliminazione dell'ampia discrezionalità di cui godeva il giudice nel sospendere l'efficacia dell'atto impugnato subordinando la sospensione stessa alla prestazione di una garanzia. Il nuovo co. 5, infatti, prevede che la sospensione può essere subordinata alla prestazione della garanzia prevista dal nuovo art. 69, co. 2, relativo all'esecuzione delle sentenze di condanna in favore del contribuente, il quale, a seguito della modifica apportata dall'art. 9, co. 1, lett. gg), del D. Lgs. n. 156/2015, prevede che "con decreto del Ministro dell'Economia e delle finanze emesso ai sensi dell'art. 17 co. 3 Legge 23 agosto 1988, n. 400, sono disciplinati il contenuto della garanzia sulla base di quanto previsto dall'art. 38-bis co. 5, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, la sua durata nonché il termine entro il quale può essere escussa, a seguito dell'inerzia del contribuente in ordine alla restituzione delle somme garantite protrattasi per un periodo di tre mesi.
Nel complesso, il “nuovo” art. 47, così come delineato dal legislatore delegato, non sembra, dunque, apportare nessuna rilevante novità alla disciplina previgente; difficile dunque scorgere tracce quel rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente che è espresso obiettivo della Legge delega n. 23/2014. L'art. 9, co. 1, lett. v) dell'emanato D.Lgs. n. 156/2015 ha sostituito integralmente l'art. 52 del D.Lgs. n. 546/1992, dando attuazione a quanto previsto dalla Legge delega in tema di "generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare nel processo tributario" ovvero ha disciplinato la fase cautelare nel corso del successivo giudizio di appello.
Dalla lettura del nuovo art. 52, è facile arguire come il legislatore si sia, di fatto, limitato a “ricalcare” le norme procedimentali che disciplinano la sospensione dell'atto impugnato nel giudizio di primo grado innanzi alla CTP. Ciò implica che è applicabile alla fase cautelare in grado di appello la norma relativa agli interessi previsti dal nuovo comma 8-bis dell'art. 47, espressamente richiamato dall'ultimo inciso del comma 6 del nuovo art. 52.
Non trovano invece applicazione, nella fase cautelare innanzi alla CTR, sia quanto prescritto dal co. 6 dell'art. 47 in merito ai termini di 90 giorni per la fissazione dell'udienza di trattazione del merito, sia la possibilità di proporre istanza tendente alla revoca o modifica dell'ordinanza cautelare in caso di un mutamento delle circostanze, previsto dal comma 8, dell'art. 47. Ebbene, soprattutto tale ultima limitazione sembra alquanto incomprensibile sia perché la dottrina è concorde nel consentire la possibilità di una riproposizione dell'istanza cautelare in caso di rigetto della stessa vista la natura interinale dell'ordinanza cautelare, sia perché "l'uniformazione e generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare nel processo tributario", prevista dall'art. 10, co. 1 lett. b), n. 9) della legge delega, avrebbe imposto una “naturale” applicazione della possibilità di riproporre l'istanza cautelare in caso di mutamento delle circostanze, anche in secondo grado, nonché successivamente, atteso che medesima possibilità è prevista sia nel processo civile ordinario (v. art. 669-decies, c.p.c.) che nel processo amministrativo (v. art. 58, D.Lgs. n. 104/2010). Non sembra, inoltre, che l'applicazione del comma 8 dell'art. 47 possa realizzarsi in ragione di quanto previsto dall'art. 61, D.Lgs. n. 546/1992 il quale prevede che "nel procedimento d'appello si osservano in quanto compatibili le norme dettate per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili con le disposizioni della presente sezione"; ciò in quanto potrebbe eccepirsi la chiara volontà del legislatore di non voler applicare alla fase cautelare innanzi alla CTR la disposizione in questione in ragione della sua non riproposizione nel nuovo art. 52. Ad ogni modo, va osservato che l'Amministrazione finanziaria ha ritenuto possibile la revoca o la modifica dell'ordinanza cautelare, nel corso del giudizio di appello, in caso di mutamento delle circostanze. (cfr. Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Affari Legali, Contenzioso e Riscossione – Circolare n. 38 del 29 dicembre 2015).
La norma principale del nuovo art. 52, ovvero quella a mezzo della quale il legislatore ha inteso estendere la tutela cautelare al giudizio di secondo grado è contenuta nel secondo comma dove appunto è previsto che "l'appellante può chiedere alla commissione regionale di sospendere in tutto o in parte l'esecutività della sentenza impugnata, se sussistono gravi e fondati motivi. Il contribuente può comunque chiedere la sospensione dell'esecuzione dell'atto se da questa può derivargli un danno grave e irreparabile". Tale disposizione sembrerebbe ad una prima analisi poco coerente, in quanto nella prima parte, prevede – per entrambe e/o tutte le parti del giudizio – la possibilità di chiedere la sospensione dell'esecutività della sentenza emessa dalla CTP in presenza di gravi e fondati motivi; successivamente, prevede la possibilità – per il solo contribuente – di chiedere la sospensione dell'esecuzione dell'atto sulla base dei presupposti previsti dall'art. 47 (danno grave e irreparabile). Invero, la norma pone subito un interrogativo circa la doppia forma di tutela nei riguardi della sentenza e dell'atto, e precisamente: se la sentenza emessa dalla CTP ha natura sostitutiva dell'atto impugnato – volendo aderire a quanto affermato dalla dottrina maggioritaria (in senso contrario, però, nell'accezione in virtù della quale la sentenza abbia natura costitutiva limitandosi ad annullare o confermare, in tutto o in parte, l'atto impugnato, v. RUSSO P., Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2013; TESAURO F., Manuale del processo tributario, Torino, 2013; FANTOZZI A., Il contenzioso, in Diritto tributario, Torino, 2003; GLENDI C., L'oggetto del processo tributario, Padova, 1984) nonché in giurisprudenza (cfr. Cass. civ., 9 giugno 2010, n. 13868; Cass. civ., 24 luglio 2012, n. 13034; Cass. 28 novembre 2014, n. 25317) – perché e come il contribuente dovrebbe chiedere la sospensione dell'atto impugnato nel precedente grado di giudizio, atteso che lo stesso sarebbe stato sostituito dalla emanata sentenza oggetto del giudizio di secondo grado?
Ebbene, se qualche dubbio resta nel caso di integrale rigetto del ricorso (sia per motivi di rito che di merito) con conseguente possibilità dell'Amministrazione finanziaria di richiedere la riscossione in base all'atto impugnato; di converso, è indubbio la sostituzione della sentenza all'atto sia nel caso di accoglimento parziale del ricorso che nell'ipotesi di integrale accoglimento dell'impugnazione avverso l'atto emesso dall'ufficio. Va osservato, come in dette ultime ipotesi, resta comunque qualche dubbio con riferimento alle disposizioni relative alla riscossione frazionata in pendenza di giudizio; ci si riferisce all'art. 15 del D.P.R. n. 602/1973, il quale prescrive che "le imposte, i contributi ed i premi corrispondenti agli importi accertati dall'ufficio ma non ancora definitivi, nonché i relativi interessi, sono iscritti a titolo provvisorio nei ruoli, dopo la notifica dell'atto di accertamento, per un terzo degli ammontari corrispondenti agli imponibili o ai maggiori imponibili accertati". Ebbene, ci si chiede: quali sono gli effetti sull'intervenuta iscrizione a ruolo eseguita ai sensi dell'art. 15 del D.P.R. n. 602/1973 dell'ordinanza di sospensione dell'esecutività della sentenza richiesta ed ottenuta dall'Ufficio nel corso del giudizio di secondo grado, nell'ipotesi in cui venga integralmente o parzialmente annullato un avviso di accertamento? Vi è il concreto rischio di una ripresa della riscossione di quanto appunto iscritto a ruolo ai sensi del citato art. 1?
In ragione di ciò, sembra corretto ritenere che la prevista possibilità di sospendere gli effetti dell'atto in secondo grado sia da correlare con la necessità, per il contribuente, di ottenere una tutela cautelare “piena” ossia non limitata alla sospensione dell'esecutività della sentenza che produrrebbe la sola impossibilità, per l'Ufficio, di iscrivere a ruolo quanto previsto dall'art. 68 del D.Lgs. 546/1992 (si noti, in proposito, che la norma contenuta nell'art. 68 fa espresso riferimento alla “sentenza”, ragion per cui se la CTR, su istanza del contribuente, sospende l'esecutività della sentenza impugnata, l'Amministrazione finanziaria non potrà richiedere il pagamento così come previsto appunto dall'art. 68; diversamente, si verificherebbe per l'ammontare iscritto a ruolo ai sensi dell'art. 15 del D.P.R. n. 602/1973 atteso che la norma fa espresso riferimento all'atto).
Sul tema, l'Amministrazione finanziaria sembrerebbe orientata a sospendere ogni attività esecutiva relativa all'atto impugnato, sino alla conclusione del giudizio, in caso di sospensione della sentenza sfavorevole al contribuente; nell'ipotesi, invece, di sospensione della sentenza sfavorevole all'ufficio, dunque, su richiesta di quest'ultimo, l'Amministrazione finanziaria, si limita a rilevare la non operatività delle nuove norme che disciplinano l'immediata esecutività delle sentenze, precisando che l'ufficio è legittimato a non effettuare lo sgravio o il rimborso delle somme riconosciute non dovute in forza della stessa sentenza; nulla riferisce circa l'eventuale possibilità per l'Amministrazione di riscuotere le somme iscritte ex art. 15 (cfr., Agenzia delle Entrate, Circolare n. 38 del 29 dicembre 2015). Attesa la poco chiara formulazione del comma in esame, al contribuente non resta che richiedere, nel corso del giudizio di appello, la sospensione dell'esecutività della sentenza (in caso di soccombenza parziale o totale nel giudizio di primo grado) ed in ogni caso la sospensione degli effetti dell'atto connessi alla riscossione frazionata contemplata dal citato art. 15 del D.P.R. n. 602/1973.
Nessun rafforzamento, quindi, della posizione del contribuente, anzi un'evidente difficoltà della stessa.
Tale difficoltà risulta in modo ancor più palese se si tiene conto della difformità circa i presupposti posti a fondamento della sospensione degli effetti della sentenza e dell'atto; è palese la rigorosità del presupposto richiesto dal legislatore per la sospensione dell'atto, ovvero il danno grave e irreparabile rispetto ai gravi e fondati motivi chiesti per la sospensione dell'esecutività della sentenza. Ragionevole, sarebbe pertanto equiparare i presupposti per la sospensione sia della sentenza che dell'atto in grado di appello, modificando il requisito della “irreparabilità” del danno con la “fondatezza” dello stesso. Ciò comporterebbe, senza ombra di dubbio, anche un modifica di quanto previsto dall'art. 47 in tema di inibitoria cautelare nel giudizio di primo grado, ove, in modo più appropriato, ai fini sistematici della tutela cautelare nel processo tributario, sarebbe opportuno richiedere, per la sospensione dell'esecutività dell'atto, la sussistenza di un “danno grave e fondato”. Il regime delle spese della fase cautelare
Un'importante novità, ma al contempo rilevante punto di criticità del “nuovo” sistema della tutela cautelare è connessa alla previsione contenuta nell'art. 9, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 156/2015, in tema di spese di giudizio. Il predetto articolo integra l'art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992 con il nuovo comma 2-quater prevedendo che "con l'ordinanza che decide sulle istanze cautelari la commissione provvede sulle spese della relativa fase. La pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito".
Va da subito rilevato come l'art. 10, comma 1, lett. b), n. 11) della legge delega n. 23/2014 prevede "l'individuazione di criteri di maggior rigore nell'applicazione del principio della soccombenza ai fini del carico delle spese del giudizio, con conseguente limitazione del potere discrezionale del giudice di disporre la compensazione delle spese in casi diversi dalla soccombenza reciproca"; dunque, non si comprende l'introduzione del nuovo comma 2-quater all'art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992 che, afferendo a fattispecie totalmente diversa da quella indicata nella legge delega, ben potrebbe dar luogo ad una violazione per eccesso di delega.
Al di là dell'esplicito intento del legislatore espresso chiaramente nella relazione illustrativa dove si legge: “trattasi di una disposizione che [...] mira ad evitare un abuso delle richieste di tutela cautelare”, la norma in questione è tesa patentemente solo a scoraggiare istanze cautelari temerarie, sia in primo grado che nel successivo grado di giudizio; infatti, la collocazione sistematica della norma non induce ad avere nessun dubbio circa l'applicazione del nuovo regime delle spese alla fase cautelare svolta, sia innanzi alla CTP (ai sensi del'art. 47) che innanzi alla CTR (ai sensi degli artt. 52, 62-bis e 65).
L'inciso conclusivo del nuovo comma 2-quater, ovvero "salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito" oltre a rendere possibile una duplice condanna alle spese, in caso di rigetto dell'istanza cautelare prima, e del ricorso, fa poi ritenere probabile la non esecutività della condanna alle spese contenuta appunto nell'ordinanza cautelare; il tutto, in assenza di un'esplicita previsione di legge (in proposito, si veda quanto disposto dall'art. 669-septies, co. 3, c.p.c. nonché dall'art. 57 del D. Lgs n. 104/2010). Si potrebbe, pertanto, assistere alla condanna al pagamento a titolo di spese contenute nell'ordinanza (di rigetto) cautelare, anche in caso di accoglimento del ricorso proposto ad esempio dal contribuente che si è visto appunto rigettare l'istanza cautelare. Il comma 2-quater in esame dispone, infatti, che "la pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il giudizio" e sempreché il giudice nulla abbia riferito in tal senso nella sentenza che definisce il giudizio di merito, ovvero non abbia statuito diversamente circa le spese liquidate a conclusione della fase cautelare. Tale ultima circostanza è confermata, altresì, dall'Amministrazione finanziaria che a pag. 21 della circolare sopra richiamata afferma testualmente che: "ove il giudice non provveda in sentenza sulle spese di lite della fase cautelare, l'ordinanza adottata in detta fase sarà assorbita dalla sentenza solo nella parte che ha deciso sull'istanza di sospensione, mentre conserverà la propria efficacia nel capo che dispone sulle spese del giudizio cautelare. La parte che intenda dolersi della condanna alla rifusione delle spese del giudizio cautelare – contenuta nella relativa ordinanza – potrà dunque, in tal caso, impugnare la sentenza in quanto ha omesso di disporre diversamente in merito alle spese della fase cautelare".
Ebbene, in proposito, ci si chiede: la parte condannata alle spese della fase cautelare deve, dunque, sollecitare il giudice affinché lo stesso modifichi la predetta statuizione contenuta nell'ordinanza cautelare? Ed in caso di risposta affermativa, come la parte condannata con l'ordinanza cautelare può “tecnicamente” porre in essere la sopra citata sollecitazione?
Non si tratta, ictu oculi, di un motivo aggiunto di cui all'art. 24 del D.Lgs. n. 546/1992 (si precisa che la proposizione di motivi aggiunti, ai sensi dell'art. 24, D.Lgs. n. 546/1992 è rigorosamente circoscritta dal comma 2 del citato articolo che fa riferimento al deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti ovvero iussu iudicis; dunque, non certo è possibile proporre motivi aggiunti avverso l'ordinanza cautelare, pur se limitatamente alla statuizione delle spese in essa contenuta); analogamente, è complicato far rientrare una deduzione tesa alla rimodulazione dell'ordinanza cautelare che, per di più, ha definito un'autonoma fase, seppur limitatamente alla condanna alle spese, nelle memorie illustrative di cui all'art. 32 del medesimo decreto legislativo da ultimo citato (si noti, che le memorie illustrative di cui all'art. 32 del D.Lgs n. 546/1992 non possono contenere motivi nuovi, ma solo illustrazioni di quelli già dedotti dal ricorrente o dall'ufficio o ente resistente negli atti introduttivi, come d'altronde si evince dalla disciplina dettata dall'art. 24; dunque, non è possibile sollecitare il giudice a mutare la statuizione relative alle spese contenuta nell'ordinanza cautelare, per il tramite delle memorie illustrative).
La strada più corretta, almeno processualmente, sarebbe consistita nel prevedere la reclamabilità/impugnabilità dell'ordinanza cautelare, pena il verificarsi di situazioni paradossali la cui soluzione non può che essere rimessa al prudente (nonché sensibile) apprezzamento del giudice magari a seguito di un “irrituale” invito rivolto nel corso dell'udienza di scissione in pubblica udienza (ove richiesta) tendente appunto ad una diversa statuizione sulle spese contenuta nell'ordinanza cautelare, all'atto dell'emissione della sentenza. La disposizione circa la condanna alle spese, infatti, oltre a costituire una netta distinzione tra la fase cautelare e quella di merito, fa sì che il procedimento cautelare perda la sua natura incidentale, circostanza quest'ultima che, ad oggi, ha fatto ritenere non possibile per il giudice la statuizione sulle spese, con conseguente rinvio della stessa all'atto della pronuncia della sentenza. Altra ipotesi, potrebbe essere quella di far sì che obbligatoriamente la sentenza di merito disponga sia in riferimento alle spese della fase cautelare che di quella di merito, in base al principio della soccombenza; dunque, a tal fine si renderebbe necessario modificare profondamente il nuovo comma 2-quater, affievolendo, seppur temporaneamente, l'intento del legislatore di limitare la proposizione di istanze cautelari temerarie, ma preservando così la natura incidentale della fase cautelare, invitando nel contempo il contribuente ad un'oculata valutazione circa l'opportunità di proporre l'istanza cautelare. In conclusione
La “nuova” disciplina della tutela cautelare, così come delineata dal legislatore delegato a mezzo del D.Lgs. del 24 settembre 2015, n. 156, non sembra realizzare compiutamente quanto previsto dalla Legge delega n. 23 dell'11 marzo 2014.
Come evidenziato le modifiche apportate all'art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992 unitamente alla nuova disciplina in tema di spese relativamente alla fase cautelare, non implicano di certo un rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente, che risulta essere tra gli obiettivi primari della sopra citata legge delega. Invero il contribuente nel caso di proposizione di una istanza cautelare, si vedrebbe: a) potenzialmente esposto ad una condanna alle spese in caso di rigetto dell'istanza cautelare; b) impossibilitato processualmente a ribaltare tale condanna alle spese, con conseguente rimessione alla “clemenza della corte”; c) gravato degli interessi da applicarsi nelle more del giudizio di merito, in caso di rigetto del ricorso, pur avendo ottenuto la sospensione dell'efficacia dell'atto in via cautelare.
Per quanto concerne, poi, "l'uniformazione e generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare nel processo tributario", l'intervento del legislatore delegato, apprezzabile dal punto di vista delle intenzioni, è incompleto sotto l'aspetto applicativo atteso che, come innanzi ampiamente analizzato, la nuova disciplina non risulta esente da criticità.
Non vi è chi non veda nel “nuovo” art. 52, co. 2, del D.Lgs. n. 546/1992, la necessità, per il contribuente, di richiedere – in ogni caso – la sospensione dell'esecuzione dell'atto sulla base del presupposto, quale appunto il "danno grave e irreparabile" il quale risulta essere di gran lunga più incisivo rispetto "ai gravi e fondati motivi" richiesti per la sospensione dell'esecutività della sentenza.
Vi è il serio rischio di assistere ad una tutela cautelare differenziata per il contribuente e per il fisco, con evidente privilegio per quest'ultimo. Non resta che auspicarsi un rapido e concreto intervento del legislatore teso a rimuovere le sopra rilevate criticità, maggiormente orientato al principio per cui la tutela cautelare costituisce una componente essenziale ed insopprimibile della tutela giurisdizionale, atteso che la sua funzione è unica ovvero il “proteggere” qualsivoglia soggetto che si rivolga alla giurisdizione per la tutela di una posizione giuridica dalla durata del giudizio.
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