Sulla responsabilità del P.M. per omesso controllo sul termine di durata massima della misura cautelare

Bruno Leone
Lucia Randazzo
04 Ottobre 2017

La questione in esame concerne la responsabilità professionale del magistrato, pubblico ministero, per avere omesso di richiedere la revoca della custodia cautelare nel caso in cui i termini massimi di cui all'art. 303 c.p.p. siano scaduti.
Massima

Deve essere riconosciuta la responsabilità professionale del magistrato che omette di esercitare il dovuto controllo sul termine di durata massima della misura cautelare degli arresti domiciliari cui è sottoposto un imputato (nella specie, il provvedimento di cessazione di efficacia della misura cautelare era stato emesso con 92 giorni di ritardo).

Il caso

Il pubblico ministero Tizio «è stato incolpato degli illeciti disciplinari di cui al d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, artt. 1 e 2, comma 1, lett. a) e g) perché, nella qualità di magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di T., con funzioni di sostituto procuratore, ha omesso di esercitare il dovuto controllo sul termine di durata massima della misura cautelare degli arresti domiciliari cui era sottoposto l'imputato M.A.». Al magistrato si contesta di non essersi mai accorto della scadenza del termine di durata massima della misura cautelare e di non aver adottato, di conseguenza, il provvedimento di cessazione della stessa. Solamente 92 giorni dopo la scadenza del suddetto termine il nuovo magistrato assegnatario del fascicolo emanava il provvedimento dopo che l'incolpato si era trasferito ad altro ufficio.

Con sentenza n. 145/2016 depositata il 14 settembre 2016 il Consiglio Superiore della Magistratura escludeva di poter considerare la scarsa rilevanza del fatto (ai sensi dell'art. 3-bis del d.lgs. 109/2006) «visto che l'indagato è rimasto illegittimamente ristretto per 92 giorni, di cui 78 riferibili alla posizione della dottoressa B., circostanza idonea ad affermare che si è così determinata un'effettiva lesione della libertà personale dell'indagato, che è il bene giuridico tutelato, con conseguente concretizzazione di un danno ingiusto per l'interessato, valutabile sotto il profilo dell'art. 2, comma 1, lett. a), cit. Di conseguenza, è stata ritenuta adeguata ai fatti accertati la sanzione della censura». Nelle motivazioni si evidenzia, inoltre, che il magistrato avendo emesso avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415-bis c.p.p. aveva avuto modo di esaminare la posizione dell'indagato sottoposto alla misura.

L'incolpato articolava il ricorso sulla base di due motivi: un primo con il quale denunciava la violazione dell'art. 2, comma 1, lett. a) d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 contestando la ravvisabilità di una negligenza non scusabile e dell'insufficienza della motivazione data le criticità del periodo lavorativo in cui versava all'epoca dei fatti l'ufficio del Pubblico Ministero; un secondo motivo con il quale denunciava la violazione dell'art. 3-bis del d.lgs. 109/2006 nella misura in cui non si riteneva contestabile la scarsa rilevanza del fatto e assumendo la erroneità della motivazione sul punto dato che l'imputato aveva scontato la misura agli arresti domiciliari sostenendo che il disagio sofferto dallo stesso fosse – per questi motivi – relativo.

La questione

La questione in esame concerne la responsabilità professionale del magistrato, pubblico ministero, per avere omesso di richiedere la revoca della custodia cautelare nel caso in cui i termini massimi di cui all'art. 303 c.p.p. siano scaduti.

Le soluzioni giuridiche

La giurisprudenza delle Sezioni unite, così come evidenziato nelle motivazioni della sentenza in commento, era già da tempo consolidata nel ritenere integrato l'illecito disciplinare di cui all'art. 2 del d.lgs. 109 del 2006, nel caso in cui il magistrato ometta di richiedere la revoca della custodia cautelare dopo che i termini massimi previsti dalla legge siano scaduti.

Le sentenze della Corte di cassazione citate in motivazione della sentenza (Cass. civ, Sez. unite, 12 marzo 2015, n. 4954; Cass. civ, Sez. unite, 21 maggio 2014, n. 11228; Cass. civ, Sez. unite, 27 novembre 2013, n. 26548; Cass. civ, Sez. unite, 22 aprile 2013, n. 9691; Cass. civ, Sez. unite, 11 marzo 2013, n. 5943) prevedono che sia integrato l'illecito di cui all'art. 2 d.lgs. 109/2006 nei seguenti termini:

  • «la lett. a) prevede che ‘Costituiscono illeciti disciplinari nell'esercizio delle funzioni i comportamenti che, violando i doveri di cui all'art. 1 (doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetto della dignità della persona), arrecano ingiusto danno od indebito vantaggio ad una delle parti';
  • la lett. g) prevede che costituisce illecito disciplinare ‘la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inscusabile';
  • comune ad entrambe le fattispecie è la violazione del dovere di diligenza che grava sul magistrato nell'esercizio delle sue funzioni;
  • la lett. g) aggiunge che la violazione del dovere di diligenza deve anche integrare una grave violazione di legge per ignoranza o negligenza inescusabile. Quindi aggiunge un elemento di qualificazione della violazione: che deve essere grave, deve riguardare una norma di legge e deve essere determinata da ignoranza o negligenza inescusabile;
  • la lett. a) aggiunge invece un effetto: la violazione deve aver arrecato un danno ingiusto o un indebito vantaggio ad una delle parti.

Ne deriva che i due suddetti illeciti contengono una parte in comune – la violazione di un dovere del magistrato– e un elemento di specificazione proprio di ciascuna di esse, rispettivamente: la qualificazione della violazione (lett. g)), l'effetto della violazione (lett. a)). Il rapporto tra questi due illeciti si definisce di specificità bilaterale e, diversamente da quel che accade nell'ordinario rapporto di specialità (unilaterale) tra illeciti – che esclude il concorso, determinando la prevalenza della fattispecie speciale – è compatibile con il concorso tra i due illeciti, quale si verifica nella specie (vedi, per tutte: Cass. civ., Sez. unite. 12 marzo 2015, n. 4954, cit.)».

Potrebbe anche succedere che ricorrano solo la lett. a) o la lett. g) ma nel caso in cui si integrino entrambe le categorie dell'illecito previste dal citato art. 2 d.lgs. 109/2006 gli illeciti sono in concorso formale tra loro (art. 5, comma 2, d.lgs. 109/2006). Nel caso in esame è stato ritenuto dalle Sezioni unite integrato il suddetto concorso formale sulla base dell'obbligo che ha il magistrato di vigilare diuturnamente sulla persistenza anche temporale cui la legge subordina la privazione della libertà personale dell'imputato o indagato (Cass. civ., Sez. unite, 2011, n. 507; Cass. civ., Sez. unite, 12 marzo 2015, n. 4954; Cass. civ., Sez. unite, 20 settembre 2016, n. 18397).

Osservazioni

Il caso in esame riguarda la condotta di un P.M. che aveva omesso di richiedere la scarcerazione dell'imputato agli arresti domiciliari, nonostante fosse scaduto il temine massimo di cui all'art. 303 c.p.p.; in particolare la negligenza dell'incolpato è stata desunta dal fatto che lo stesso, in data 26 giugno 2010 quasi un mese prima della scadenza del termine massimo di custodia cautelare, maturato il 18 luglio 2010, aveva depositato l'avviso di conclusione delle indagini per cui si era trovato nelle condizioni di potere valutare la prossimità della scadenza del termine massimo di custodia. Ci si chiede come mai non sia stato adottato alcun provvedimento nei confronti del Gip .

Appare necessario un raffronto con alcuni precedenti specifici in materia.

La casistica è abbastanza ricca: è significativo il principio espresso con sentenza n. 45942 del 9 novembre 2005 della Sezione V della Cassazione Penale, secondo cui «il giudice procedente che ritenga doversi disporre la cessazione della custodia cautelare per intervenuto decorso dei relativi termini non è tenuto ad acquisire preventivamente il parere del P.M., mancando nel vigente c.p.p. una norma corrispondente all'art. 76, comma 1, del codice abrogato, secondo cui il giudice, nel corso del procedimento penale, non poteva comunque deliberare se non sentito il P.M., salvi i casi eccettuati dalla legge».

A tenore di detta sentenza, quindi, l'obbligo di provvedere in ordine ai provvedimenti in caso di scarcerazione per decorrenza dei termini incombe esclusivamente al giudice. Con sentenza n. 507 del 12 gennaio 2011 le Sezioni unite civili hanno ritenuto la responsabilità del Gup presso il tribunale di Ancona per non aver disposto la scarcerazione dell'imputato allo scadere del termine massimo; in particolare la Corte ha stabilito: «in effetti, è compito precipuo del magistrato, nei procedimenti di cui è investito, diuturnamente vigilare circa la persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto alle indagini o imputato».

Non è chi non veda, quindi, come, a tenore della predetta sentenza, il giudice, ex art. 306 c.p.p. unico destinatario dell'obbligo previsto da detta norma, debba monitorare e controllare la scadenza dei termini di cui all'art. 303 c.p.p.

Particolare attenzione merita, poi, la sentenza n. 18191 del 29 luglio 2013 delle Sezioni unite con la quale è stata confermata la responsabilità del P.M. e del Gup che, “investiti” della decisione sulla richiesta di libertà dell'imputata, non potevano non rilevare che erano scaduti i termini di custodia cautelare.

A parere degli scriventi avrebbe dovuto differenziarsi la condotta del P.M. da quella del Gup: atteso che l'obbligo normativamente previsto di adottare i provvedimenti conseguenti allo scadere dei termini massimi di custodia cautelare, a sensi dell'art. 306 c.p.p. spetta al giudice, il quale non è tenuto ad ottenere preventivamente il parere del P.M. (Cass. pen., Sez. V, 9 novembre 2005, n. 45942) ed al quale incombe l'obbligo di vigilare diuturnamente circa la persistenza, anche temporale delle condizioni del permanere della custodia cautelare.

Diversamente, il P.M. ha violato l'obbligo di diligenza (non già l'obbligo specifico ex art. 306 c.p.p.) non avendo rilevato, a seguito dell'istanza di remissione in libertà avanzata dall'imputata, che erano scaduti i termini massimi di custodia cautelare.

Non convince, pertanto, l'assimilazione delle due condotte, quantomeno sotto l'aspetto sanzionatorio.

Proprio con riferimento alla responsabilità del P.M., non si ritiene di condividere la sentenza Cass. civ. Sez. unite, 14 luglio 2015, n. 14688, laddove ha ritenuto sussistente in capo al P.M. la potestà di richiedere la revoca della misura cautelare ex art. 299, comma 3, c.p.p.

Lo stesso principio è stato enunciato anche con sentenza Cass. civ., Sez. unite, 20 settembre 2016, n. 18397.

A parere degli scriventi la su richiamata norma non si riferisce alla ipotesi in cui siano maturati in termini massimi di custodia cautelare, ipotesi specificatamente previsti dall'art. 306 c.p.p.: soccorre al riguardo sia la comparazione dei titoli dei rispettivi articoli, da cui si evince la specificità della norma di cui al citato articolo 306 c.p.p., nonché la lettera degli stessi articoli: il provvedimento del giudice a tenore dell'art. 299, comma 3, c.p.p., presuppone il parere del P.M. e consente al giudice lo spazio temporale di cinque giorni per provvedere; proprio ciò esclude la riferibilità della norma alla ipotesi di scadenza dei termini massimi di custodia cautelare che, impongono il provvedimento immediato. L'articolo 306 c.p.p. a parte la specificità del titolo, si esprime in tal senso e non prevede alcun preventivo parere del P.M., come confermato dalla sentenza sopra citata.

Aggiunge ulteriori elementi di riflessione il principio enunciato dalla sentenza Cass. civ. Sez. unite, 12 dicembre 2003, n. 19097 secondo la quale «il potere-dovere del gip di adottare d'ufficio i provvedimenti conseguenti alla perdita di efficacia della custodia cautelare o delle altre misure cautelari, previsti dall'art. 306 c.p.p. presuppone che egli sia già investito del procedimento per l'esercizio di uno dei poteri appartenenti alla sua competenza funzionale, onde non sussiste quando egli non abbia la disponibilità di atti delle indagini preliminari»

In questo caso la Suprema Corte ha cassato la sentenza del C.S.M. che aveva affermato il principio opposto.

Conforme alla superiore sentenza è la sentenza Cass. civ., Sez. unite, 24 giugno 2005, n. 13557.

A fortiori detto principio vale per il P.M. cui non incombe l'onere di cui all'art 306 c.p.p.

C'è il rischio che in caso di ritardo nella scarcerazione per decorrenza dei termini non si possa individuare alcun responsabile!!!

Anche in questo caso non si condivide il principio sopra enunciato: la perdita di efficacia della custodia cautelare presuppone a monte l'adozione di una ordinanza di custodia cautelare, atto di competenza del Gip il quale, pertanto, essendo destinatario dell'obbligo di cui all'art. 306 c.p.p., ha il dovere di organizzarsi in prospettiva dell'eventuale adozione del provvedimento di scarcerazione per decorrenza dei termini; ciò a prescindere dalla persona fisica del magistrato che ha adottato il provvedimento originario, rientrando nei doveri di diligenza l'obbligo per il magistrato subentrante di conoscere tutte le pratiche del suo ufficio.

Riepilogando i vari principi giurisprudenziali fin qui esaminati si coglie agevolmente la esigenza di una normativa ben precisa, coerente con il disposto dell'art. 306 c.p.p. che individui con certezza le responsabilità dei singoli anche sotto il profilo disciplinare.

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