Separati in casa: il Tribunale non omologa l’accordo

Marta Rovacchi
05 Ottobre 2017

Sono compatibili con le norme del nostro ordinamento e con i principi di ordine pubblico, gli accordi mediante i quali i coniugi "separati in casa" intendono addivenire alla loro separazione?
Massima

Non può trovare accoglimento la richiesta di attribuire riconoscimento giuridico ad un accordo privatistico che regolamenti la condizione di “separati in casa”.

Il caso

Due coniugi compaiono avanti il Presidente del Tribunale di Como, nell'ambito di un procedimento di separazione personale. Le condizioni della separazione concernevano essenzialmente le modalità e l'entità del contributo al mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente e la gestione dell'habitat familiare, non prevedendo null'altro circa le attribuzioni reciproche, essendo i coniugi indipendenti a livello economico. I coniugi avevano poi convenuto di proseguire la convivenza a tempo indeterminato, ovvero fino a quando le condizioni economiche reciproche non avrebbero consentito di reperire una diversa soluzione abitativa.

Proprio in ragione della prosecuzione della convivenza, il Tribunale ritiene di non omologare l'accordo.

La questione

Il Tribunale è chiamato a valutare la compatibilità degli accordi mediante i quali i coniugi intendono addivenire alla loro separazione con le norme del nostro ordinamento e con principi di ordine pubblico.

Questo compito rappresenta infatti la ratio e la funzione del decreto di omologazione a maggior ragione laddove vi è la presenza di figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti.

Dal momento che la manifestata congiunta volontà dei coniugi incide su diritti soggettivi, l'attività e la funzione di controllo attribuita al Giudice è coerente con la natura negoziale (ancorchè non contrattuale) del consenso espresso dai coniugi di volersi separare.

Tale potere deriva all'organo giudicante direttamente dall'art. 158, comma 2, c.c., che sancisce che la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l'omologazione del Giudice
e che quando l'accordo dei coniugi relativamente all'affidamento e al mantenimento dei figli è in contrasto con l'interesse di questi, il Giudice riconvoca i coniugi indicando ad essi le modificazioni da adottare nell'interesse dei figli.

In caso di inidonea soluzione, poi, il Giudice può rifiutare l'omologazione.

Le soluzioni giuridiche

Alla base del rigetto da parte del Tribunale di Como, vi è la condizione separativa che prevede la continuazione della convivenza dei coniugi nella casa familiare a tempo indeterminato.

L'indeterminatezza di tale termine, in questo caso, è infatti rappresentata dall'avverarsi della circostanza del raggiungimento da parte dell'uno o dell'altro coniuge di un futuro miglioramento della condizione economica che consenta ad uno dei due il reperimento di altra sistemazione abitativa.

In primis, dunque, il Tribunale eccepisce la mancata previsione e apposizione di un tempo determinato, neppure indicativo, entro il quale uno dei due coniugi lascerà l'abitazione familiare.

L'impossibilità di dedurre e supporre qualche elemento temporale in tal senso, dipende dal fatto che l'avveramento di tale condizione è subordinato da parte dei coniugi al miglioramento economico in capo ad uno dei due.

Ma dato che, osserva il Tribunale, le parti sono lavoratori autonomi ed hanno un reddito pressochè stabile, non avendo altresì indicato le ragioni di un loro eventuale auspicato incremento reddituale, il termine da loro apposto per il rilascio della casa familiare rimane del tutto indeterminato ed incerto, avallando, in questo modo, il perdurare della loro protratta convivenza.

A questo proposito il Giudice rileva che la condizione apposta dai coniugi è a maggior ragione inaccettabile laddove si consideri che le allegate dichiarazioni fiscali dei coniugi sono del tutto compatibili con la conduzione da parte di uno dei due di una alternativa abitazione ed anche con il mantenimento del figlio maggiorenne che potrebbe ugualmente proseguire gli studi in costanza di separazione abitativa dei genitori, anche in virtù del consistente fondo di risparmio accantonato dai genitori stessi a suo favore.

In buona sostanza, la decisione del Tribunale di Como di non omologare le condizioni del ricorso consensuale delle parti, si basa sui principi della normativa in materia familiare e sugli istituti giuridici che la regolamentano.

Se, infatti, da una parte i coniugi, dal punto di vista personale, hanno la facoltà di comportarsi come meglio credono, dall'altra non possono piegare ed adattare un istituto giuridico al loro stile di vita cercando di ottenere riconoscimento giuridico in relazione a situazioni in netto contrasto con i principi che ispirano la normativa in materia familiare.

Tra i doveri matrimoniali previsti dal nostro ordinamento, infatti, ed in particolare dall'art. 143 c.c., vi è anche quello della coabitazione.

Pertanto, a parere dei Giudici, l'ordinamento stesso non può dare riconoscimento alle conseguenze giuridiche che prevedano “soluzioni ibride”, ovvero che contemplino in sede separativa il venir meno di gran parte dei doveri derivanti dal matrimonio ma nella concomitante perduranza della coabitazione.

Pertanto, una volta cessata la comunione spirituale e materiale tra i coniugi, il Giudice è autorizzato a non ritenere valido un accordo che preservi e legittimi la mera convivenza o coabitazione tra le parti.

In sostanza, sostiene il Giudice comasco, non vi è nel nostro ordinamento alcun istituto giuridico che consenta di assurgere a diritto il mero desiderio delle parti di separarsi legalmente, solo perché soggettivamente si ritengono tali per essere venuto meno tra loro ogni sentimento ed attrazione fisica .

Ciò in quanto il provvedimento di omologa ha la funzione giuridica di sancire gli effetti della separazione, tra i quali lo scioglimento della comunione dei beni, la decorrenza dei termini per lo scioglimento del vincolo, la quiescenza degli obblighi personali di cui all'art. 143 c.c..

L'accordo privatistico che regolamenti la condizione di “separati in casa”, dunque, sarebbe svincolato dai riferimenti normativi oggettivi snaturando la natura dell'istituto della separazione.

Anzi, conclude il Tribunale, tale approccio privatistico si presterebbe a facili operazioni elusive e ad accordi simulatori fin ad arrivare a perseguire finalità illecite.

Osservazioni

La prima precisazione da effettuare riguarda un'incongruenza contenuta nel provvedimento in esame, laddove a sostegno della tesi in ordine alla funzione di controllo da parte del Giudice in sede di omologa in ordine alla compatibilità dell'accordo intercorso tra i coniugi con le norme e con i principi di ordine pubblico, il Tribunale comasco segnala la sentenza della Suprema Corte n. 2602/2013.

È presumibile che si tratti di errore materiale se si considera che detta sentenza, emessa dalla sezione lavoro della Corte, non concerne il tema in questione, riguardando, invece il caso di un rapporto contrattuale intercorso tra un soggetto privato e Poste s.p.a..

Quanto, invece, all'altra sentenza della Cassazione correttamente richiamata dal Tribunale di Como, ovvero la n. 9287/1997, risulta chiaro l'ivi affermato principio secondo cui l'art. 711, comma 4, c.p.c. attribuisce alla omologazione l'effetto giuridico di rendere efficace la separazione consensuale.

In altre parole, l'accordo diventa parte costitutiva della separazione solo ed in quanto questo sia omologato dal Tribunale cui spetta il compito di controllare e verificare che i patti intervenuti tra i coniugi siano conformi ai superiori interessi della famiglia.

È, dunque, sulla base di questo potere/dovere attribuito dalla legge al Giudice, che il Tribunale comasco ha ritenuto la prevista continuazione a tempo non determinato della convivenza tra i coniugi del tutto incompatibile con l'istituto stesso della separazione.

Sotto il profilo strettamente tecnico-giuridico, non si può, a parere di chi scrive, muovere critiche di illogicità alla sentenza in esame.

Tuttavia, va al contempo segnalato che con la rivoluzionaria sentenza 20 marzo 2000 n. 3323, la Corte di cassazione ha stabilito che i coniugi “separati in casa” possono ottenere sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio pur avendo continuato a convivere sotto lo stesso tetto durante la separazione legale.

Ciò in quanto, a parere della Suprema Corte, ciò che è rilevante è che non ci sia stata una riconciliazione intesa come “comunione spirituale” ma piuttosto una condizione di vera e propria separazione durante la quale ognuno dei coniugi ha provveduto alle proprie necessità in modo autonomo, dividendo la casa coniugale in due ambienti distinti, consumando pasti separatamente e dormendo in camere separate.

Sulla base di quanto testè esposto, risulta ancora più evidente che il margine interpretativo e applicativo del Giudice circa la validità o meno di un accordo tra coniugi, è piuttosto ampio e vincolato al caso concreto che di volta in volta il Tribunale è chiamato ad esaminare.

Ad onor del vero, il Tribunale di Como non ha omologato l'accordo che contemplava la separazione dei coniugi in costanza di convivenza per molteplici ragioni giuridiche e sostanziali, laddove, invece, la Cassazione nella citata sentenza, è stata chiamata a valutare solo l'aspetto della natura dell'affectio maritalis e della sua sussistenza o meno in caso di prosecuzione della convivenza sotto lo stesso tetto ai fini della compatibilità con la pronuncia divorzile.

Ma è parimenti vero che, che se la sentenza comasca si appella, per sostenere il proprio diniego all'omologazione, ai principi di ordine pubblico, è indubbio che la mancata ripresa della convivenza tra la separazione e il divorzio è anch'essa regola di ordine pubblico ai fini della emanazione della sentenza che sancisce lo scioglimento definitivo del vincolo.

Concludendo, dall'esame della sentenza del Tribunale di Como emerge, a parere di chi scrive, una eventuale possibilità di ottenere l'omologazione di un accordo separativo laddove alla prevista continuazione della convivenza venga apposto un temine temporale e breve, strettamente necessario per consentire al coniuge di trovarsi un'altra sistemazione abitativa.

Il secondo rilevante aspetto, riconfermato dalla sentenza de qua, è l'accento posto sul rischio di operazioni elusive insite in un accordo separativo che contempli la continuazione di una convivenza.

Il terzo aspetto da sottolineare, è l'affermazione del principio per cui, se è vero che durante il matrimonio i coniugi possono derogare al dovere di coabitazione per esigenze familiari di carattere superiore, ciò non autorizza ad affermare la validità di un accordo che legittimi la convivenza in capo ai coniugi che manifestano la loro cessata comunione attraverso un ricorso per separazione consensuale.

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