La rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in appello tra evoluzione giurisprudenziale e riforma Orlando

09 Ottobre 2017

Il modello originario del nostro processo d'appello, tendenzialmente cartolare ed inquisitorio, è stato progressivamente messo in crisi dalla giurisprudenza della Corte Edu che nel tempo ha più volte riaffermato il principio del divieto di reformatio in pejus della decisione assolutoria di primo grado, basata su diversa valutazione delle prove orali, in difetto dell'audizione diretta dei testi. La nostra giurisprudenza di legittimità si è progressivamente adeguata a questa interpretazione dell'art. 6, comma 3, d) della Convenzione europea dei diritti umani, completando il percorso con le sentenze emesse a Sezioni unite n. 27620/2016 e n. 18620/2017.
Abstract

Il modello originario del nostro processo d'appello, tendenzialmente cartolare ed inquisitorio, è stato progressivamente messo in crisi dalla giurisprudenza della Corte Edu che nel tempo ha più volte riaffermato il principio del divieto di reformatio in pejus della decisione assolutoria di primo grado, basata su diversa valutazione delle prove orali, in difetto dell'audizione diretta dei testi. La nostra giurisprudenza di legittimità si è progressivamente adeguata a questa interpretazione dell'art. 6, comma 3, d) della Convenzione europea dei diritti umani, completando il percorso con le sentenze emesse a Sezioni unite n. 27620/2016 e n. 18620/2017.

In questo quadro, è intervenuta la l. 103/2017 che, col nuovo comma 3-bis dell'art. 603 c.p.p., ha previsto la necessità che l'istruttoria dibattimentale sia rinnovata ogni qual volta la sentenza d'assoluzione sia impugnata dal P.M. per motivi attinenti la valutazione della prova dichiarativa.

Prima ancora che la prassi abbia potuto fornire indicazioni in merito all'effettiva portata della riforma e alle possibili soluzione dei problemi che esse mantiene aperti, la seconda Sezione della Corte di cassazione ha consapevolmente riaperto un problema che poteva ritenersi superato dalla decisione a Sezioni unite 18620/2017, dichiarando che un'interpretazione convenzionalmente orientata dell'art. 603, comma 3, c.p.p. impone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale anche nel caso di sentenza d'appello assolutoria che riformi una precedente condanna.

Il giurista pratico è dunque di fronte a non secondari snodi interpretativi che, ad oggi, sembrano di incerta soluzione.

Il nostro modello d'appello, la posizione della Corte Edu e l'evoluzione della giurisprudenza nazionale

Nell'originario impianto normativo, il nostro processo d'appello rappresentava un'evidente contraddizione rispetto ai principi del rito accusatorio e ai suoi indispensabili corollari dell'oralità e immediatezza: al giudice che aveva direttamente appreso a valutato le informazioni riversate nel dibattimento dalle parti, che aveva potuto osservare i testimoni, misurandone le parole ma anche il tono di voce e il linguaggio dei gesti, si sostituiva una corte che decideva in base alla mera rilettura “delle carte”. L'eventualità che una prova, in specie dichiarativa, si formasse davanti al giudice d'appello era infatti circoscritta alle limitate ipotesi previste dall'art. 603 c.p.p. soggette, per giunta, ad un'interpretazione decisamente restrittiva.

I casi nei quali il giudice dell'appello poteva direttamente apprendere i fatti del giudizio erano circoscritti a tre ipotesi e con presupposti applicativi estremamente rigidi.

La prima ipotesi (cosiddetta rinnovazione discrezionale) riguarda la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado, ovvero di prove mai precedentemente esperite (“nuove”) ma conosciute o conoscibili dalle parti prima del giudizio di primo grado. In questo caso, potranno essere assunte a condizione che:

  • una delle parti ne abbia fatto richiesta (art. 603, comma 1, c.p.p.);
  • il giudice d'appello ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti.

La seconda ipotesi, (rinnovazione obbligatoria) si riferisce alle prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, che possono essere ammesse in base ai presupposti previsti dall'art. 495, comma 1, c.p.p. per richiamo agli artt. 190 e 190-bis c.p.p.:

  • non superfluità;
  • rilevanza;
  • legittimità;
  • diversità dei fatti delle circostanze rispetto a quelle oggetto delle precedenti dichiarazioni per soggetti già esaminati (procedimenti del cosiddetto doppio binario di cui all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p.).

Un'ultima ipotesi, residuale, è poi prevista dal comma 3 dell'art. 603 c.p.p., ovvero che il giudice ritenga la rinnovazione assolutamente necessaria: in tal caso la rinnovazione verrà disposta d'ufficio

Questo impianto che, come si dirà in seguito, ha subito una sostanziale integrazione ad opera della l. 103/2017, manifestava i suoi più gravi limiti nell'ipotesi di appello del pubblico ministero contro sentenze di proscioglimento: alla decisione assolutoria basata su prove acquisite nel contraddittorio delle parti e col rispetto del principio di oralità, poteva infatti sostituirsi una sentenza di condanna emessa in base ad una mera rilettura degli atti del primo processo.

Per quanto la garanzia soggettiva del controllo di merito sulla decisione di condanna sia stata, a torto o a ragione, ritenuta in qualche modo estranea al nostro sistema di principi costituzionali, questo infelice modello d'appello è entrato progressivamente in crisi: a partire dai primi anni 2000 e sino ad epoca recentissima si sono succedute plurime sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo che hanno ripetutamente affermato una lettura dei principi convenzionali decisamente incompatibile col nostro statuto della rinnovazione della prova in appello.

In particolare, con l'ormai notissima decisione Dan contro Moldavia del 5 luglio 2011, la Corte di Strasburgo, dopo aver ribadito che quando il processo d'appello involve la rivalutazione dei fatti la decisione non può prescindere dalla diretta valutazione delle prove, ha statuito che costituisce violazione dell'art. 6 dellaConvenzione, la rivalutazione in senso negativo di una testimonianza a carico dell'imputato sulla base della semplice rilettura della deposizione senza procedere direttamente all'ascoltoThe Court considers that those who have the responsability for deciding the guilty or innocence of an accused ought, in principle, to be able to hear witnesses in person and assess their trustworthiness. The assessment of the trustworthiness of a witness is a complex task which usually cannot be achieved by mere reading of his or her recorded words»).

La sentenza, seguita da altre decisioni di medesimo segno (4 giugno 2013, Hanu c. Romania; 5 marzo 2013, Manolachi c. Romania; 9 aprile 2013, Flueras c. Romania, sino alla recentissima Lorefice c. Italia del 29 giugno 2017), è stata salutata dalla dottrina come una sorta di recupero in via giurisprudenziale degli effetti originari della legge Pecorella, che avrebbe consentito di superare, finalmente, il modello dell'appello quale giudizio prevalentemente cartolare al di fuori dei parametri del giusto processo europeo (così GAITO, Verso una crisi evolutiva per il giudizio d'appello, in Arch. Pen., 2012, 2, 3 e ss.).

I riflessi sul diritto interno di queste decisioni erano, infatti, scontati, considerato che «le decisioni della Corte Edu che evidenziano una situazione di oggettivo contrasto, non correlata in via esclusiva al caso esaminato, della normativa interna sostanziale con la Convenzione Edu assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell'ambito del quale è intervenuta la pronunzia della predetta Corte internazionale» (Cass. pen., Sez. unite, 19 aprile 2012, ord. n. 34472).

Nondimeno, la risposta iniziale della nostra giurisprudenza non è stata del tutto in linea coi forti richiami alle regole del giusto processo convenzionale lanciati da Strasburgo: se, infatti, abbondava nelle decisioni di legittimità il formale ossequio all'art. 6 Cedu e ai suoi corollari, si affermava nel contempo un'interpretazione complessivamente riduttiva del principio scolpito nella sentenza Dan c. Moldavia, che faceva leva sulle (limitate) eccezioni alla regola della rinnovazione indicate nell'arresto della Corte Edu (impossibilità di ripetizione della deposizione per assoluta indisponibilità del teste ovvero per proteggere il suo diritto a non autoaccusarsi).

Traendo spunto dalle eccezioni ipotizzate dalla stessa Corte di Strasburgo, la nostra giurisprudenza di legittimità ha dunque elaborato una serie di principi rivolti a mantenere la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale negli angusti confini dell'eccezionalità.

In particolare:

  • l'obbligo di rinnovazione riguarda solo la prova dichiarativa e non qualunque altra prova di tipo documentale, comprese le intercettazioni telefoniche (Cass. pen., Sez. III, 12 marzo 2014, n.39410; Cass. pen., Sez. II, 17 maggio 2013, n. 29452);
  • la prova dichiarativa deve essere decisiva ovvero deve rappresentare l'elemento fondante la sentenza assolutoria (ex plurimis: Cass. pen., Sez. V, 25 settembre 2013, n. 47106; Cass. pen., Sez. V, 5 luglio 2017, n. 38085; Cass. pen., Sez. VI, 26 febbraio 2013, n. 16566; Cass. pen., Sez. IV, 15 luglio 2014, n.32145);
  • l'obbligo di rinnovazione si concretizza solo laddove il giudice d'appello avverta la necessità di rivalutare l'attendibilità del dichiarante (ex plurimis: Cass. pen., Sez. V, 11 luglio 2014, n.33198; Cass. pen., Sez. V,25 settembre 2013, n. 47106 );
  • conseguentemente, non v'è obbligo di rinnovazione quando vengano prese in considerazione prove non considerate o erroneamente ritenute inutilizzabili dal primo giudice o si faccia ricorso alle prove testimoniali solo ai fini di un rafforzato riscontro a dati oggettivi (Cass. pen., Sez. II, 17 luglio 2013, n. 32368);
  • l'obbligo di riesaminare i testi nel contraddittorio delle parti in ipotesi di riforma in peius di una sentenza assolutoria viene meno qualora la persona da riesaminare sia la vittima di un reato grave contro la persona e la rievocazione del fatto possa essere oggettivamente lesiva per la stessa (Cass. pen., Sez. III, 5 giugno 2013, n.32798).

Era comunque chiaro (già dopo la nota sentenza a Sez. unite, n. 33748 del 2005) che «il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado, ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza tali da giustificare la riforma del procedimento impugnato», il che stava a significare che doveva ritenersi comunque illegittima la sentenza che, in riforma dell'assoluzione ottenuta in primo grado, condannasse l'imputato sulla base di una interpretazione alternativa dello stesso compendio probatorio, «occorrendo invece una forza persuasiva superiore della motivazione, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio» (Cass. pen., Sez. VI, 20 dicembre 2012, n. 49755).

In ogni caso, la nostra giurisprudenza riaffermava la compatibilità dell'art. 603 c.p.p., nella sua originaria formulazione ed interpretazione, con l'art. 6 Cedu, sostenendo in ultima analisi che la duplice condizione alla quale l'art. 603, comma 1, c.p.p. subordina la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado (incertezza del dato probatorio già acquisito e decisività dell'incombente richiesto al fine di eliminare le eventuali incertezze ovvero di inficiare ogni altra risultanza) sarebbe perfettamente sovrapponibile al principio di diritto enunciato dalla Cedu, secondo la quale il giudice di appello non può decidere sulla base delle testimonianze assunte nel giudizio di primo grado limitandosi ad una mera rivalutazione peggiorativa - in termini di attendibilità - delle medesime solo quando siano decisive, ferma restando dunque l'assoluta eccezionalità della rinnovazione quando nel giudizio d'appello sia messa in discussione una condanna assunta in primo grado.

È su questo articolato sfondo che sono andate ad inserirsi le due importanti sentenze delle Sezioni unite della Cassazione n. 27620/2016 e n. 18620/2017.

La sentenza n. 27620 del 28 aprile 2016 (Dasgupta) pronunciandosi in realtà su un quesito di portata limitata («se la Corte di cassazione sia legittimata a rilevare ex officio la violazione dell'art. 6 Cedu sub specie di mancata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in caso di riforma peggiorativa della decisione assolutoria di primo grado») ha avuto modo di ribadire che:

  • gli indirizzi consolidati della Corte Edu sono vincolanti per l'ordinamento nazionale italiano quali criteri interpretativi ai quali il giudice nazionale è tenuto ad ispirarsi.
  • Il principio che la responsabilità dell'imputato, prosciolto in primo grado sulla base di prove dichiarative, può essere affermata in appello solo previa nuova assunzione diretta delle testimonianze nel giudizio d'impugnazione, corrisponde ad un indirizzo consolidato.
  • Il giudice d'appello non può riformare la sentenza assolutoria di primo grado, su impugnazione del P.M. che lamenti l'erronea valutazione delle prove dichiarative, senza prima procedere a esaminare i soggetti che abbiano reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio.
  • La prova decisiva non è quella tanto la “prova negata” che avrebbe potuto determinare un diverso esito del giudizio, ma quella che sulla base della sentenza di primo grado ha determinato o anche solo contribuito a determinare un esito liberatorio, e che possa incidere sull'esito del giudizio d'appello.
  • Incidentalmente, il principio della rinnovazione necessaria vale anche in caso di assoluzione emessa a seguiti di rito abbreviato, ovvero di appello promosso dalla parte civile per i soli interessi civili.
  • Il mancato rispetto del dovere di procedere alla rinnovazione da parte del giudice d'appello va inquadrato non nell'ambito di una violazione di legge ma in quello del vizio di motivazione.
  • Purché il ricorso sia ammissibile, ai fini dell'annullamento con rinvio della sentenza gravata è sufficiente che il ricorrente abbia dedotto un vizio di motivazione relativo alla valutazione delle prove dichiarative, anche senza richiamare espressamente i principi convenzionali.

La sentenza a Sezioni unite n. 18620 del 19 gennaio 2017 (Patalano) riprendendo un tema accennato nella precedente decisione, ha definitivamente chiarito che il principio della rinnovazione necessaria dell'istruzione dibattimentale in caso di impugnazione del PM su sentenza assolutoria per motivi attinenti la valutazione delle prove dichiarative, si applica anche alla sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato non condizionato, con la conseguente necessità di procedere all'esame delle persone che abbiano reso dichiarazioni decisive.

In questo quadro, appariva isolata ed espressamente superata da un passaggio motivazionale delle Sezioni unite Dasgupta la decisione della Corte di cassazione che aveva annullato con rinvio la decisione migliorativa, assunta senza rinnovazione dell'istruttoria (Cass. pen., Sez. III, 27 settembre 2012, n. 42007): in casi simili, infatti, il giudice di appello non versa in dubbio rispetto alla colpevolezza, ma ha anzi la certezza dell'innocenza; e non ha dunque motivo di rinnovare l'istruttoria (in quel caso, infatti, la cassazione della sentenza era dipesa dalla mancata ottemperanza, da parte del giudice di appello, degli obblighi motivazionali).

Nella specifica materia in esame, la l. 103/2017 (cosiddetta riforma Orlando) ha perseguito l'evidente scopo di tradurre in diritto positivo i predetti approdi giurisprudenziali, introducendo il comma 3-bis nel corpo dell'art. 603 c.p.p.

La nuova norma prevede che «nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale».

Tale essendo il disposto normativo, la scelta del Legislatore pare essersi spinta ben oltre i confini tracciati dalla giurisprudenza che, in buona misura, è divenuta improvvisamente inattuale.

La previsione di legge costituisce, infatti, un'ipotesi di rinnovazione generale e automatica: purché l'appello sia statopropostodal P.M. e contenga motivi “attinenti” alla valutazione della prova, l'intera istruzione dibattimentale dovrà essere rinnovata d'ufficio.

Si prescinde, dunque, dal carattere di decisività della prova dichiarativa da rivalutare e la rinnovazione deve essere comunque estesa a tutte le prove.

Per quanto non sia agevole prevedere quali potranno essere gli sviluppi giurisprudenziali della nuova regola, va segnalato che essa, pur risolvendo definitivamente alcune situazioni evidentemente “patologiche”, non modifica l'architettura complessiva dell'appello e lascia aperte non secondarie questioni.

La rinnovazione dell'istruzione dopo la l. 103/2017

In primo luogo, la nuova ipotesi di rinnovazione necessaria riguarda il solo appello del P.M.: la situazione resta quindi invariata in merito all'appello della parte civile, per il quale sarà comunque necessario confrontarsi con l'elaborazione giurisprudenziale riassunta sopra.

Il che, tuttavia, potrebbe aprire scenari d'irrazionalità o disparità di trattamento nel sistema (in caso di appello del P.M. le prove dichiarative devono essere riassunte a prescindere della loro decisività, mentre nell'appello per le questioni civili opererebbe ancora questo filtro di elaborazione giurisprudenziale).

Per altro profilo, la previsione generalizzata ed obbligatoria di rinnovazione ogni qual volta l'appello del P.M. abbia attinenza con la valutazione delle prove dichiarative, rischia di “forzare” le disposizioni del diritto convenzionale e, in particolare l'art. 6, comma 3, lettera d) della Cedu che nasce espressamente quale strumento di garanzia per l'imputato («in particolare, ogni accusato ha diritto di: […]»). Non si può escludere, infatti, che l'imputato assolto nel giudizio di primo grado non abbia alcun interesse alla rinnovazione delle deposizioni testimoniali, come accade quando esse siano intrinsecamente attendibili (e favorevoli all'imputato) e i «motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa» riguardino piuttosto dei riscontri esterni alle deposizioni medesime.

Insomma, la nuova disposizione di legge sembra trasformare quella che la giurisprudenza europea e nazionale ha sin qui letto quale diritto difensivo dell'imputato in un canone gnoseologico, limitandolo, peraltro, alla sola ipotesi della revisione in pejus della sentenza assolutoria.

In ultimo, residuano dubbi in merito al vizio deducibile mediante ricorso per Cassazione in caso di mancata rinnovazione da parte del giudice d'appello, in violazione dell'art. 603, comma 3-bis, c.p.p.: ragionevolmente, la censura dovrà essere ricondotta alla categoria del vizio di motivazione censurabile a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., in quanto la condanna contrasta con la regola di giudizio «al di là di ogni ragionevole dubbio» di cui all'art. 533, comma 1, c.p. La nuova disposizione di legge processuale non è, infatti, espressamente sanzionata da nullità (sì da essere riconducibile alla previsione dell'art. 606 lett. c).

Invero, per quanto un autorevole orientamento dottrinale, risalente al Calamandrei, ritenga deducibili in Cassazione come vizio ex lettera b) anche gli errores in iudicando relativi ad una norma processuale, la giurisprudenza sembra consolidata nel senso di affermare che la lettera b) individua le violazioni della sola norma penale sostanziale: pare, dunque, più pertinente il riferimento al vizio di motivazione previsto dalla lettera e), atteso che la sentenza che riforma in peggio deve “confrontarsi”, nella sua parte motivazionale, con le argomentazioni assolutorie della prima pronuncia così da “vincere” il dubbio ragionevole in presenza del quale lo stallo dev'essere risolto in favore dell'imputato. In poche parole: la sentenza dell'overturning dev'essere dotata di una motivazione rafforzata.

L'ulteriore evoluzione giurisprudenziale: verso un nuovo intervento delle Sezioni unite?

Su questo quadro, già ricco di novità e sufficientemente complesso, si è improvvisamente proiettata la decisione della Seconda Sezione della Corte di cassazione n. 41571 del 20 giugno 2017 (depositata il 12 settembre 2017).

La Corte, chiamata a pronunciarsi in merito alla necessità di procedere ad una nuova escussione dei dichiaranti laddove si ponga in dubbio la loro attendibilità ai fini di un giudizio assolutorio, ha risolto positivamente la questione, affermando il seguente principio di diritto: «l'art. 603, comma 3, c.p.p. in applicazione dell'art. 6 Cedu deve essere interpretato nel senso che il giudice di appello per pronunciare sentenza di assoluzione in riforma della condanna del primo giudice deve previamente rinnovare la prova testimoniale della persona offesa, allorché, costituendo prova decisiva, intenda valutarne diversamente l'attendibilità, a meno che tale prova non risulti travisata per omissione, invenzione o falsificazione».

Nell'articolata motivazione, i primi passaggi possono riassumersi in questi termini: 1) l'ormai indiscusso principio della “motivazione rafforzata” (ovvero il più intenso obbligo di diligenza richiesto al giudice di secondo grado che intenda discostarsi dalla precedente decisione) vale sia nel caso di condanna in seguito ad assoluzione che nell'ipotesi inversa; 2) il canone di giudizio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio non corrisponde ad un situazione psicologica del giudice ma ad un percorso argomentativo che rispetti le regole della logica e si basi sugli elementi processuali; 3) Il ragionevole dubbio non assorbe il principio della motivazione rafforzata ma ne entra piuttosto a far parte, rappresentandone una specificazione: è dunque il principio della motivazione rafforzata ad assumere carattere generale; 4) L'interpretazione dell'art. 6 Cedu offerta dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, impone al giudice dell'impugnazione che intenda rivalutare l'attendibilità dei testimoni di escuterli nuovamente nel rispetto del principio di immediatezza: le Sezioni Unite della Cassazione hanno recepito il principio, riaffermando la necessaria rinnovazione in appello delle prove dichiarative solo in caso di reformatio in peius; 5) La giurisprudenza della Corte Edu deve essere letta anche alla luce dei recenti interventi in materia di vittime del reato e il nostro stesso sistema costituzionale, dopo la modifica dell'art. 111, privilegia l'aspetto oggettivo del giusto processo: ne consegue che la regola della rinnovazione delle prove dichiarative in appello deve applicarsi sia all'ipotesi di ribaltamento dell'assoluzione sia al caso inverso, non essendo sostenibile che il metodo dell'oralità, correttamente ritenuto “epistemologicamente più affidabile”, non debba essere sempre adottato da giudice dell'impugnazione a fini di giustizia.

A questo punto, la Seconda Sezione si misura direttamente col “peso dell'affermazione contenuta nella sentenza Dasgupta”, che ha espressamente ritenuto non condivisibile l'orientamento espresso proprio dalla sentenza Pipino (Cass. pen., Sez. II, n. 32619/2014) in ordine alla necessaria rinnovazione delle prove dichiarative anche in caso di riforma in senso assolutorio.

In evidente divergenza rispetto alle Sezioni unite, la sentenza 41571/2017 ribadisce che il principio di immediatezza, raccordato con la motivazione rafforzata, rende «iniquo l'overturning che sia basato su compendi probatori deprivati rispetto a quelli utilizzati dal primo giudice e tale iniquità non ha ragione di escludersi rispetto a differenti esiti decisori».

Del resto, l'interpretazione recentemente offerta dalla Corte Edu dell'art. 6 della Convenzione e, dunque, del giusto processo convenzionale, tiene conto del procedimento nel suo insieme, dovendosi verificare il rispetto dei diritti non soltanto della difesa ma anche delle vittime del reato e del pubblico: la stessa costituzione di parte civile sarebbe ormai letta anche in funzione dell'interesse pubblico alla tutela contro il delitto e alla riduzione dell'allarme sociale. Medesima evoluzione, peraltro, sarebbe riscontrabile anche nel nostro processo, in specie a seguito del recepimento della direttiva 2012/29/Ue e del conseguente riconoscimento di ampi poteri di partecipazione e tutela alla vittima del reato.

Dunque, la conclusione offerta dalla Seconda Sezione si imporrebbe quale unica soluzione interpretativa che tenga conto della necessità di tutela della persona offesa.

Atteso l'evidente scostamento rispetto alle indicazioni contenute nella, pur recente, sentenza Dasgupta, ci si poteva ragionevolmente attendere che la questione risolta dalla Seconda Sezione venisse direttamente rimessa alle Sezioni unite: certo, come ricorda la stessa sentenza, il principio del quale si discute non era stato tradotto in un principio di diritto oggetto di massimazione ufficiale, ma è altrettanto vero che la successiva giurisprudenza di altre sezioni della Corte si era conformata a quelle indicazioni.

La rimessione alle Sezioni Unite era, dunque, suggerita dal comma 1 dell'art. 618 c.p.p.

Con tutta probabilità, considerata l'ampiezza di argomentazione sul tema specifico e l'aperto dissenso rispetto ad alcune linee guida del ragionamento giuridico contenuto nella Dasgupta, un nuovo auspicabile intervento delle Sezioni unite non si farà attendere a lungo.

In conclusione

È presto per dire se il nostro appello penale abbia davvero cambiato veste: se, cioè, questa infelice ibridazione inquisitoria sia stata del tutto abbandonata a favore di un rito completamente accusatorio.

Certo, il “combinato disposto” della riforma Orlando e dell'orientamento esposto nella sentenza della Sezione Seconda n. 41571/2017 potrebbe deporre in questo senso, imponendo alle Corti d'appello non soltanto un sostanziale cambiamento culturale ma anche uno sforzo logistico del tutto nuovo: la maggior parte dei processi, infatti, richiederebbe la nuova citazione dei testimoni e l'esame degli stessi nel contraddittorio delle parti, con l'evidente allungamento dei tempi (e il rischio di “incidenti di percorso”) che tutto questo comporta.

In questa situazione si presenterebbe, poi, un singolare paradosso: lo standard probatorio più elevato, ovvero il “metodo di assunzione della prova epistemologicamente più affidabile”, sarebbe riservato alle ipotesi di riforma in senso di condanna di una sentenza assolutoria e viceversa, mentre per l'ipotesi della mera conferma della condanna su appello dell'imputato (che pure riguardasse la valutazione delle prove orali) ci si dovrebbe accontentare del rito cartolare.

Il che, se si ragiona sull'astratta bontà degli strumenti gnoseologici e anche sulla corretta attuazione dei principi dell'equo processo, sarebbe un risultato assolutamente irragionevole.

Quanto ai potenziali effetti della decisione 41571/2017, è poi il caso di accennare che l'evoluzione verso uno standard probatorio totalmente accusatorio, come quella proposto, imporrebbe una rinnovata riflessione sulle acquisizioni, sia pur concordate, di atti a contenuto dichiarativo e, soprattutto, sui meccanismi per la rinnovazione delle prove orali svoltesi davanti ad altro giudice in ipotesi di mutamento della persona del giudicante, ridotti da una giurisprudenza troppo condiscendente ad un simulacro di oralità (in breve, alla conferma delle dichiarazione precedentemente rese, salvo domande integrative sui solo nuovi temi).

Per approfondire tali riflessioni, si dovrà conoscere il destino della linea interpretativa riaffermata in questa sentenza che, peraltro, non pare immune da profili critici: senza pretesa di completezza, è infatti agevole osservare che la lettura “vittimocentrica” del diritto convenzionale deve comunque fare i conti col dato testuale contenuto nell'art. 6 Cedu.

Se, infatti, il primo comma della disposizione si riferisce indistintamente a tutte le parti del processo, il comma terzo e, in particolare, la lettera d) riguarda esclusivamente “la persona accusata di un reato”: la necessità di rinnovazione delle prove dichiarative in caso di decisione peggiorativa in appello, che la Corte Edu fa discendere proprio da quest'ultima disposizione, nasce dunque quale diritto difensivo e si salda alla presunzione di innocenza che la medesima norma prevede.

Del resto è innegabile che le decisioni della Corte Edu citate nella stessa sentenza n. 41571/2017, abbiano sempre riguardato il diritto dell'imputato ad essere giudicato da chi avesse ascoltato personalmente i testimoni apprezzandone l'attendibilità.

Quanto, poi, al nostro diritto interno, proprio la Corte Costituzionale, pronunciandosi sul valore del contraddittorio nella formazione della prova nella prospettiva dell'art. 111 Cost., ha sottolineato che «catalogare i diritti sanciti dall'art. 111 Cost. in due classi contrapposte, - ora cioè tra le “garanzie oggettive”, ora tra quelle “soggettive” - risulta in effetti fuorviante, nella misura in cui pretenda di reinterpretare, in una prospettiva di protezione dell'efficienza del sistema e delle posizioni della parte pubblica, garanzie dell'imputato, introdotte nello statuto costituzionale della giurisdizione e prima ancora nelle Convenzioni internazionali essenzialmente come diritti umani […] Nelle previsioni dell'art.111 Cost. è stata delineata una protezione costituzionale specifica per l'imputato, particolarmente in tema di prove [...]» (Corte cost. 26 giugno 2009, n. 184).

Occorre in ultimo considerare che l'opzione esercitata dal legislatore col nuovo comma 3 bis dell'art. 603 c.p.p., sia pur criticabile per i profili accennati sopra, ha certamente optato per una rinnovazione “limitata” all'ipotesi dell'appello del P.M. rispetto alla sentenza assolutoria, superando col dato testuale l'opzione interpretativa della Seconda Sezione.

La “conclusione” non è, dunque tale: la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in appello sembra dover impegnare ancora a lungo gli interpreti.

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