Riconoscimento del figlio senza il consenso dell'altro genitore: procedimento bifasico o monofasico?

13 Ottobre 2017

Il procedimento ex art. 250 c.c., come strutturato dopo la riforma della filiazione, si articoli in due fasi diverse o in un'unica fase?
Massima

La volontà di riconoscere il figlio è irrevocabilmente manifestata con la stessa proposizione del ricorso ex art. 250 c.c.. Ne consegue che il Giudice, con la sentenza che tiene luogo del consenso dell'altro genitore, deve provvedere anche in ordine all'affidamento ed al mantenimento, come prevede la norma. Di contro, la scissione del processo in due fasi, con la emissione di sentenza non definitiva con la quale si autorizza il riconoscimento, disponendo con ordinanza per la prosecuzione del giudizio una volta che risulti comprovato l'intervenuto riconoscimento, non attua pienamente l'interesse del minore, nei cui confronti i genitori hanno doveri che discendono dalla procreazione e non dal riconoscimento.

Il caso

Il ricorrente ha generato una figlia, nata nel 2015 dall'unione non matrimoniale con una donna con la quale i rapporti sono in seguito divenuti fortemente conflittuali. La donna, contestando al compagno un comportamento violento e la non idoneità di quest'ultimo ad assumere le funzioni genitoriali, si è opposta al riconoscimento della bambina. L'uomo ha presentato ricorso ex art. 250 c.c. al Tribunale di Prato, chiedendo l'emissione di una sentenza che tenga luogo del consenso mancante.

La questione

Ci si chiede se il procedimento ex art. 250 c.c., come strutturato dopo la riforma della filiazione, si articoli in due fasi diverse, ovvero in un'unica fase.

Le soluzioni giuridiche

La riforma della filiazione attuata dalla l. n. 219/2012 ha modificato la disciplina processuale del riconoscimento in presenza di opposizione da parte dell'altro genitore. In precedenza, infatti, la competenza si apparteneva al Tribunale per i minorenni e la norma prevedeva che il Giudice, «sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone» e con l'intervento del Pubblico Ministero, emettesse sentenza che teneva luogo del consenso mancante. In atto invece la competenza si appartiene al Tribunale ordinario, come conseguenza della riforma dell'art. 38, disp att., c.c. e il rito è semplificato, con contraddittorio differito ed eventuale, solo se ed in quanto la controparte che riceve la notifica del ricorso intenda opporsi. Inoltre la norma espressamente prevede, per evidenti ragioni di economicità, che con la sentenza "che tiene luogo del consenso mancante" il Giudice assuma i provvedimenti opportuni sull'affidamento e il mantenimento del figlio, e sul cognome, provvedimenti che possono far seguito a quelli adottati in via provvisoria nel corso del procedimento.

In una prima interpretazione della norma (Trib. Milano 16 aprile 2014; Trib. Forlì 26 ottobre 2015) si è sostenuto che il processo debba avere natura bifasica: nella prima parte, il Tribunale valuta se il riconoscimento risponde all'interesse del minore e in caso di esito positivo viene emessa sentenza non definitiva con la quale è autorizzato il riconoscimento; nella seconda parte del giudizio, avvenuto il riconoscimento, il Tribunale assume i provvedimenti provvisori per instaurare la relazione e con sentenza definitiva interviene per disciplinare l'affidamento; ciò nell'implicito presupposto che lo status di figlio non esiste sino a che non venga effettuato il riconoscimento.

Il Tribunale di Prato, con la pronuncia in commento, evidenza alcune criticità della soluzione bifasica. In primo luogo la possibilità che, ove il Giudice si limitasse ad autorizzare il riconoscimento con sentenza non definitiva, detto riconoscimento potrebbe non avere luogo per un ripensamento del genitore, con la conseguenza paradossale che, sebbene il genitore abbia formalmente dichiarato di volere riconoscere il figlio, e sebbene il Tribunale abbia ritenuto rispondente all'interesse del minore il secondo riconoscimento, non verrebbe tutelato il diritto del minore ad essere mantenuto, educato ed istruito da entrambi i genitori, diritto che sorge non già dal riconoscimento, ma dalla nascita. Ciò, oltre ad essere contrario al best interest del minore, perpetrerebbe in via interpretativa la discriminazione tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori dal matrimonio, che la l. n. 219/2012 si è proposta di eliminare. Il tutto peraltro in contrasto con la lettera della norma, la quale espressamente prevede che i provvedimenti sull'affidamento vengano adottati in uno con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, nel presupposto dell'esistenza dei doveri genitoriali anche a prescindere dall'avvenuto riconoscimento del figlio; per la stessa ragione è consentito al giudice di adottare provvedimenti provvisori immediati a tutela della relazione familiare, salvo che l'opposizione appaia ictu oculi fondata.

Di conseguenza la soluzione giuridica adottata dal Tribunale di Prato è diversa da quella bifasica proposta dal Tribunale di Milano ed è fondata sull'assunto che con la proposizione del ricorso ex art. 250 c.c. il genitore ha già manifestato, nelle forme di legge, la volontà di riconoscere il figlio, atto irrevocabile, e che la sentenza non autorizza il genitore al riconoscimento, ma, tenendo luogo del consenso non prestato, perfeziona l'efficacia di un riconoscimento già avvenuto. Su questa base, il Tribunale toscano con la sentenza con la quale dichiara l'avvenuto perfezionamento dell'efficacia del riconoscimento, adotta anche i provvedimenti relativi all'affidamento, al mantenimento ed al cognome della bambina, chiudendo definitivamente il giudizio.

Osservazioni

La tesi della struttura bifasica del giudizio proposta dal Tribunale di Milano, seguita da una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Genova 13 luglio 2017), ha avuto l'avallo di parte della dottrina (v. A. Figone, La giurisprudenza del Tribunale di Milano in tema di autorizzazione al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, www.ilFamiliarista.it) che la considera una prassi rispettosa della persona del minore, il quale altrimenti potrebbe instaurare, nelle more del procedimento, una relazione con un genitore che successivamente non lo riconosca, pur debitamente autorizzato dal Tribunale. Ciò sul presupposto che la sentenza del giudice resa ex art. 250 c.c. debba concludersi con l'autorizzazione ad effettuare il riconoscimento, e che quest'ultimo sia quindi un atto che resta nella libera disponibilità del richiedente finché questi non si presenta all'ufficiale di stato civile.

La tesi però non convince una parte dei Tribunali italiani che si richiamano al principio di economicità dei giudizi (Trib. Patti, 22 giugno 2017 inedita) e tra questi, anche il Tribunale di Roma (Trib. Roma 26 maggio 2017) il quale osserva che in siffatti casi il riconoscimento paterno è costituito dallo stesso esercizio dell'azione giudiziale ex art. 250 c.c. e la pronuncia giudiziale è da intendersi non meramente autorizzativa del riconoscimento ma pienamente sostitutiva dello stesso, ed ad essa consegue l'annotazione della paternità a margine dell'atto di nascita.

In tal senso, in effetti, sembra deporre la stessa lettera della legge che parla non già di sentenza che autorizza il riconoscimento, ma di sentenza che tiene luogo del consenso mancante e quindi perfeziona, con un elemento esterno alla volontà del ricorrente, ormai irrevocabilmente manifestata, una fattispecie a formazione progressiva, integrando una condizione legale di efficacia. Non bisogna dimenticare, infatti, che la dichiarazione di volere riconoscere il figlio nato fuori dal matrimonio (già denominato "figlio naturale") se fatta nelle forme di legge e cioè oltre che con dichiarazione all'ufficiale di stato civile anche in atto pubblico, quale è ad esempio il testamento e quale è anche il verbale di udienza, è irrevocabile (artt. 254 e 256 c.c.).

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