La violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione dopo la Corte Edu De Tommaso

13 Ottobre 2017

Nella sentenza in commento, i giudici della Corte di cassazione affrontano il tema della rilevanza penale della violazione delle prescrizioni di vivere onestamente e ...
Massima

L'inosservanza delle prescrizioni generiche di vivere onestamente e di rispettare le leggi, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non configura il reato previsto dall'art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011, il cui contenuto precettivo è integrato esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche; la predetta inosservanza può, tuttavia, rilevare ai fini dell'eventuale aggravamento della misura di prevenzione.

Il caso

Nella sentenza in commento, i giudici della Corte di cassazione affrontano il tema della rilevanza penale della violazione delle prescrizioni di vivere onestamente e di rispettare le leggi, prevista come reato dall'art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011 e punita con la reclusione da uno a cinque anni, in virtù all'art. 8 d.lgs. cit.

Il ricorso, ai sensi del disposto dell'art. 610, comma 2, c.p.p., è stato assegnato dal Presidente della Corte, di ufficio, alle Sezioni unite, per la speciale importanza delle questioni poste, ravvisata anche al fine di evitare possibili contrasti tra le decisioni dei giudici di legittimità.

Il fatto che ha determinato l'assegnazione alle Sezioni unite è stato il sopraggiungere, quasi in concomitanza con l'inizio del giudizio di legittimità, della sentenza emessa dalla Grande Camera della Corte Edu, il 23 febbraio 2017, in relazione alla causa de Tommaso c. Italia, intervenuta, tra l'altro, proprio sul tema della precisione e prevedibilità delle predette prescrizioni.

La fattispecie concreta oggetto del decisum del collegio è, in sintesi, la seguente.

La Corte di appello di Caltanissetta, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale di Enna, a seguito di giudizio abbreviato, ha confermato la responsabilità dell'imputato in relazione ai delitti di violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale, di all'art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011 e di lesioni personali aggravate, ai sensi degli artt. 582 e 585, comma 2, n. 2, c.p., ed ha ridotto la pena per avere riconosciuto la continuazione tra i predetti illeciti.

All'imputato sono stati contestati i reati indicati perché mentre era sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno, aveva «contravvenuto alla prescrizione impostagli di vivere onestamente rispettando le leggi, commettendo il reato di lesioni»; avrebbe, infatti, colpito con un bastone un soggetto procurandogli ferite ed ematomi.

A causa di queste condotte la misura di prevenzione indicata era stata, poi, aggravata.

Avverso la sentenza del giudice di secondo grado, il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione, per motivi concernenti l'applicazione della circostanza aggravante della recidiva ed il calcolo della pena; motivi, quindi, del tutto differenti da quelli posti a sostegno del giudizio di speciale importanza proposta e affrontata dalle Sezioni unite.

La questione

La questione rimessa alle Sezioni unite è stata così formulata: «Se la norma incriminatrice di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011, che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ai sensi dell'art. 8 del d.lgs. cit., abbia ad oggetto anche le violazioni delle prescrizioni di vivere onestamente e di rispettare le leggi».

Le soluzioni giuridiche

La sentenza emessa dalla Corte Edu, sul caso de Tommaso, ha costituito l'occasione per verificare la “tenuta”, rispetto ai principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, del consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, secondo cui la violazione delle prescrizioni di vivere onestamente e di rispettare le leggi, da parte del sorvegliato speciale con obbligo o divieto di soggiorno (c.d. sorvegliato qualificato), configura il reato di cui all'art. 75, comma 2, del d.lgs. 159 del 2011.

Trattandosi di prescrizioni la cui violazione era già prevista come reato dall'art. 9, comma 2,della legge 1423 del 1956 ed in relazione al quale, con sentenza n. 49464 del 2013, la Corte di cassazione ha affermato la sussistenza di una continuità normativa con l'art. 75 cit., non v'è dubbio che l'indirizzo giurisprudenziale in parola abbia avuto un notevole arco temporale di riferimento.

I giudici delle Sezioni unite, dopo aver riepilogato le numerose modifiche normative intervenute su tale fattispecie delittuosa, danno conto di come la giurisprudenza di legittimità, costantemente, abbia sottolineato la volontà del Legislatore di punire, duramente, la violazione delle prescrizioni al fine di «rendere effettivo il controllo sui soggetti ritenuti pericolosi, ‘rendendo cogente l'obbligo di soggiorno' e neutralizzando ‘sul nascere' le condotte devianti”.

Ed infatti, come affermato dalla sentenza della Corte di cassazione sent. n. 2217 del 2006, deve considerarsi delitto qualunque tipo di inosservanza, sia degli obblighi che delle prescrizioni, inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, giustificandosi anche il più grave trattamento sanzionatorio rispetto ai sorvegliati speciali “semplici.

E che tra tali prescrizioni, la cui violazione integra il delitto in esame, rientrino anche quelle c.d. generiche, di vivere onestamente e di rispettare la legge, troverebbe conferma non solo nel già richiamato orientamento giurisprudenziale di legittimità ma anche in alcune sentenze della Corte costituzionale.

I giudici di legittimità non trascurano di considerare l'orientamento giurisprudenziale, minoritario e risalente, secondo cui il reato va escluso quando concerne la violazione delle prescrizioni generiche; orientamento ripreso nella sentenza n. 32923 del 29 maggio 2014, pronunciata a Sezioni unite (sentenza Sinigaglia), secondo cui non tutte le violazioni delle prescrizioni generiche integrano il reato in esame, ma, riprendendo quanto affermato, sia pure in sede di obiter, nella sentenza n. 793 del 1985 (De Silva), solo quelle che si sostanziano «nella vanificazione sostanziale della misura imposta».

In detta pronuncia le Sezioni unite, nel risolvere la questione se la mancata esibizione della carta di permanenza configurasse la violazione dell'art. 650 c.p. o, piuttosto, quella di cui oggi si discute, si sono soffermate sulla differenza tra obblighi e prescrizioni, descrivendo, i primi, quale espressivi di un aliquid facere o non facere e le seconde come enunciative di un quomodo facere, pervenendo alla conclusione che non tutte le prescrizioni c.d. generiche integrano la condotta delittuosa ma solo quelle che si risolvono in “un annullamento di fatto” della misura di prevenzione.

In un ulteriore passaggio della sentenza in commento si scorge il tentativo dei giudici di legittimità di convalidare l'impostazione “evolutiva” della sentenza Sinigaglia, nel senso di limitare la rilevanza penale della violazione delle prescrizioni generiche solo a quelle cui l'ordinamento ricolleghi una sanzione penale o una rilevante sanzione amministrativa, sull'assunto che solo condotte di tal tipo, poste in essere dal sorvegliato speciale, potranno essere ritenute espressione di una persistente e pervicace pericolosità per la collettività.

Ma, secondo i giudici, tale tentativo non risulta percorribile se applicato alle prescrizioni in questione; in tal modo – osservano – si finirebbe per attribuire all'interprete una discrezionalità eccessiva nell'applicazione della fattispecie, che renderebbe ancora più incerta e imprevedibile la condotta indicata dalla norma incriminatrice; l'ampia discrezionalità sarebbe ravvisabile, inoltre, anche nella scelta dei reati e degli illeciti amministrativi a tali fini rilevanti; ad esempio, quanto ai primi, si porrebbe il problema se includervi anche quelli colposi.

In ogni caso, i giudici di legittimità sono ben consapevoli che l'interpretazione “evolutiva” non consentirebbe di risolvere il punto nodale della questione posta, che è quello della assenza di una sufficiente determinatezza del reato di cui all'art. 75 cit., proprio in relazione alle prescrizioni del vivere onestamente e del rispettare la legge.

Così inquadrati i termini del problema, i giudici della Corte di legittimità giungono a negare rilevanza penale alla violazione delle prescrizioni generiche, quanto alla configurabilità del reato di cui al combinato disposto degli artt. 8 e 75, comma 2, d.lgs. cit., mentre, le considerano, pur sempre, indici rivelatori di una persistenza pericolosità sociale, secondo le indicazioni già formulate in precedenti decisioni della medesima corte (Cass. pen., n. 18224/2015 e Cass. pen., n. 23641/2014), per l'aggravamento della misura, secondo la previsione di cui all'art. 11 d.lgs. cit.

Osservazioni

La sentenza di condanna emessa dalla Corte di Strasburgo nei confronti dello Stato italiano, per violazione dell'art. 2 del protocollo n. 4 della Cedu – come testimoniato dalla sentenza in commento – ha reso ancora più urgente la soluzione del problema concernente l'esatta individuazione delle condotte integranti le violazioni delle prescrizioni del vivere onestamente e di rispettare le leggi.

La Corte europea, sul rilievo della insufficiente descrizione delle prescrizioni di vivere onestamente e di rispettare le leggi e, ponendo in risalto l'estrema vaghezza e genericità della legge 1423 del 1956, ha affermato la sussistenza della violazione indicata.

Il giudizio fortemente critico non ha risparmiato le argomentazioni che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 282 del 2010, aveva a posto a sostegno della dichiarazione di non fondatezza proprio in relazione asserita incompatibilità della norma in esame con l'art. 25 Cost. L'interpretazione “restrittiva” fornita dalla Consulta (su cui si ritornerà tra breve) non è stata condivisa dai giudici europei perché recante un riferimento troppo “aperto” all'intero sistema giuridico italiano e, pertanto, non idonea a giustificare la norma in termini di determinatezza e prevedibilità.

L'assegnazione del ricorso alle Sezioni unite. La necessità di intervenire sul tema, sentita come urgente per effetto delle nuove indicazioni contenute della sentenza de Tommaso, ha determinato il Presidente della Corte di legittimità ad assegnare il ricorso in esame alle sezioni unite, già nella fase di prima assegnazione dei ricorsi, come previsto dall'art. 610, comma 2, c.p.p..

Sembra evidente come la delicatezza del tema trattato, per le possibili importanti ricadute sulla “essenza” stessa dei principi di tassatività e determinatezza delle fattispecie criminose abbia guidato la scelta di anticipare il più possibile l'espletamento della tipica e precipua funzione nomofilattica della Corte di cassazione; e ciò, ancor prima di verificare “il rischio” di possibili diverse applicazioni della norma da parte dei giudici italiani, tali da condurre al formarsi di filoni giurisprudenziali contrastanti, in punto di configurabilità della fattispecie penale.

Come è noto, l'ordinamento giudiziario approvato con r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 affida alla Corte di cassazione il compito di assicurare «l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge» nonché «l'unità del diritto oggettivo nazionale» (art. 65), ruolo che è stato maggiormente esaltato attraverso la possibilità di demandare il caso alle Sezioni unite.

Questo è quanto accade nelle ipotesi in cui il presidente della Corte ritenga, come nel caso di specie, che la questione sia di speciale importanza o quando sia necessario dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni (art. 610 c.p.p.) o, ancora, quando una sezione della Corte rilevi che la questione di diritto sottoposta al suo esame abbia dato luogo o possa dar luogo a un contrasto giurisprudenziale (618 c.p.p.).

Peraltro, la funzione nomofilattica della Corte di cassazione ha avuto ulteriore impulso con l'introduzione del comma 1-bis dell'art. 618 c.p.p., da parte della legge 23 giugno2017, n.103 (c.d. riforma Orlando) che ha rafforzato il ruolo selle Sezioni unite, introducendo l'obbligo per la sezione semplicedi rimettere alle sezioni unite la decisione del ricorso, quando ritenga di non poter condividere il principio di diritto da queste precedentemente enunciate; (che si tratti di un

obbligo della sezione semplice sembra trovare conferma nell'utilizzo del verbo rimette).

Ebbene, lo specifico percorso interpretativo formulato dai giudici delle sezioni unite nella sentenza in commento, sembra porsi come una svolta innovativa nel modo di intendere il ruolo nomofilattico, sia pure nella “versione” rafforzata ed accresciuta.

L'interpretazione “tassativizzantedelle Sezioni unite. Rievocato in chiave generale e sintetica, il ruolo dei giudici di legittimità, anche alla luce delle recentissime modifiche normative intervenute sul rapporto tra sezioni semplici e sezioni unite, deve rilevarsi come l'esigenza di una chiarezza interpretativa fosse “giustificata”, essendo indubbio che il complessivo panorama giurisprudenziale, di legittimità e costituzionale, fosse tale da ingenerare dubbi nell'interpretazione e nell'applicazione della fattispecie delittuosa in esame.

Infatti, da un lato numerose sono le sentenze della Corte di cassazione che, nel tempo, hanno affermato la configurabilità del reato, di cui al precedente art. 9 della legge 1423 del 1956, per violazione delle prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi in numerose e differenti fattispecie concrete, quali, a mero titolo esemplificativo, per avere il sorvegliato speciale commesso il reato di truffa, sia pure giudicato improcedibile per assenza di querela (sent. n. 2933 del 2013); guidato un motoveicolo privo di targa (sent. n. 16213 del 2010); per aver condotto un ciclomotore sprovvisto di patente di guida o con patente revocata (sent. n. 17728 del 2014; n. 48645 del 2013 e n. 40819 del 2010); per aver fatto commercio di sostanze stupefacenti prive di un sufficiente principio attivo (n. 46876 del 2009).

E, ancora, nel 2014 a orientare (o disorientare) l'interprete è intervenuta la citata sentenza Sinigaglia che, pur non smentendo l'orientamento giurisprudenziale indicato, comunque, ha delineato i caratteri della prescrizione e dell'obbligo rilevanti ai fini della integrazione del reato ed ha affermato, con forza, la necessità di «una stretta correlazione e proporzione tra misura restrittiva repressiva e scopo perseguito», così fornendo ulteriori criteri interpretativi.

Dall'altro, non sono mancate le decisioni della Corte costituzionale.

Intervenuta a valutare l'illegittimità costituzionale dell'art. 9, comma 2, della l. 1423 del 1956, in riferimento ai parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 25 Cost., proprio in relazione alle prescrizioni c.d. generiche, la Corte, nella citata sentenza n. 282 del 2010, ne ha escluso la violazione, attraverso lo strumento della sentenza interpretativa di rigetto (con una sentenza di non fondatezza, nei sensi di cui in motivazione).

Significative sono le affermazioni – nettamente criticate dai giudici europei – secondo cui la prescrizione di vivere onestamente, se collocata nel contesto di tutte le altre prescrizioni, assume un contenuto certamente preciso, risolvendosi nel dovere imposto al sorvegliato speciale di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di vivere onestamente si concreta e si individualizza. E, inoltre, di rilievo appare la considerazione secondo cui la prescrizione di rispettare le leggi, non è indeterminata, ma si riferisce al dovere, imposto al prevenuto, di rispettare tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano cioè di tenere o non tenere una certa condotta; quindi, «non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale».

Preminente, poi, appare l'osservazione secondo cui non sarebbe esatto ritenere che la prescrizione de qua possa esaurirsi in un mero sospetto, disancorato da qualsiasi circostanza concreta. Anzi - precisa la Corte – all'interprete è richiesta la valutazione oggettiva di fatti, collegati alla condotta della persona, che siano idonei a rivelarne la proclività a commettere reati; ne consegue che la valutazione di tale idoneità, dovendo essere compiuta in concreto e con riferimento alle singole fattispecie, «non può che essere demandata al competente giudice penale».

In tale direzione deve essere apprezzata anche la precedente ordinanza n. 354 del 2003 , che in relazione alla prescrizione generica «di non dare ragioni di sospetti» (non più prevista nel d.lgs. 159 del 2011) ha affrontato il profilo di indeterminatezza e tipicità della stessa, affermando che essa rappresenta null'altro che la proiezione esteriore del comportamento di chi osservi, appunto, il più generale precetto, costituzionalmente imposto a chiunque, di «vivere onestamente» e che quindi, a questa deve essere ricollegata.

Ed ancora, con sentenza n. 70 del 1976, la Corte ha escluso la violazione dell'art. 3 Cost. per la l'irrazionale e discriminatoria duplicazione della pena, derivante fatto che colui che sia sottoposto alla sorveglianza speciale debba rispondere, insieme, di violazione degli obblighi particolari impostigli (art. 9) e di violazione della norma di diritto comune che prevede un reato, «perché altra è la situazione soggettiva di chi commetta un reato rispetto a quella di chi lo commetta essendo sorvegliato speciale».

Peraltro, più in generale sull'esigenza costituzionale di determinatezza della fattispecie penale, nella sentenza n. 172 del 2014, il giudice delle leggi ha affermato (richiamando anche le sentenze n. 302 e n. 5 del 2004) che essa non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, non escludendosi l'ammissibilità di formule elastiche alle quali il legislatore spesso ricorre per l'impossibilità di elencare analiticamente tutte le situazioni idonee, in astratto a integrare l'inosservanza del precetto e la cui «valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell'incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta».

Alla luce della sintetica disamina del contesto giurisprudenziale, non vi è dubbio, che un problema di poca chiarezza e di una certa vaghezza della individuazione della portata precettiva delle c.d. prescrizioni generiche si profilasse in concreto, e ciò ancor di più, se nel febbraio 2017 interviene la sentenza della Corte Edu de Tommaso. I giudici europei osservano che la norma nazionale non soddisferebbe il requisito della prevedibilità, non sarebbe formulata con sufficiente precisione, e pertanto, non garantirebbe ai cittadini la possibilità di regolare la propria condotta e di prevederne le conseguenze.

In tale quadro, dunque, non può sorprendere che i giudici di legittimità, estremamente attenti nel cogliere i nuovi segnali che possano contribuire ad assicurare l'uniforme interpretazione della legge, intervengano per “assolvere” alla propria funzione, attraverso un processo di chiarificazione della norma. Ciò accade per il tramite di una interpretazione restrittiva della legge penale, da loro stessi definita “tassativizzante” .

In particolare, in ordine alla prescrizione del “rispettare la legge”, infatti, pongono in rilievo come la formulazione della norma non rivesta la struttura di una fattispecie incriminatrice, non consentendo di individuare – come pure affermato dai giudici europei- la condotta dal cui accertamento derivi una responsabilità penale, difettando il requisito della conoscibilità e attribuendo, al contempo, una eccessiva discrezionalità al giudice chiamato ad applicarla.

Il percorso argomentativo porta dunque, ad affermare che il rinvio operato dall'art. 75 cit. alle prescrizioni e agli obblighi di cui all'art. 8 d.lgs. cit., deve riferirsi solo “a quegli obblighi e prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo”, mentre le prescrizioni in esame contengono “un mero ammonimento morale”, la cui genericità e indeterminatezza dimostra l'assoluta inidoneità ad integrare il nucleo di una norma penale incriminatrice.

Giurisdizione di interpretazione e giurisdizione di “annullamento” delle norme. È evidente come nel complesso compito di trovare un punto di equilibrio tra ordinamento interno e ordinamento convenzionale, i giudici delle sezioni unite valorizzino il loro ruolo di interpreti e, assumendo la veste di “giudici della Convenzione”, seguano la via della “interpretazione conforme” nel senso, anche, della “interpretazione convenzionalmente orientata”.

Nel caso di specie, i criteri forniti dal giudice europeo diventano, per le sezioni unite, un ulteriore strumento per la rilettura del diritto interno e per l'esercizio di una attività ermeneutica, che dilatando, in modo notevole, i confini dei limiti interpretativi ha condotto al risultato finale per cui “l'inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non configura il reato previsto dall'art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011.

Sulla componente indubbiamente “creativa” di tale lettura si impongono alcune riflessioni.

È noto che in ordine alle modalità di attuazione delle norme convenzionali europee valgono ancora i principi affermati dalla Corte nelle note sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007, a cui sono seguite numerosissime altre decisioni e, più di recente, tra le molteplici, la sentenza n. 49 del 2015 e n. 184 del 2015.

Con tali pronunzie si è affermata la collocazione della Cedu all'interno delle fonti interne e in una posizione di para - subordinazione rispetto alla Costituzione, con la conseguenza che uno dei criteri che deve guidare il giudice nella interpretazione delle norme nazionali è, anche, la conformità delle stesse alle norme della Convenzione. Ne deriva che se il giudice comune rileva un contrasto tra la norma e la Cedu non ha il potere di disapplicare la disposizione nazionale, presentandosi l'asserita incompatibilità tra le due come una questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi.

In termini più concreti ciò significa che nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione, il giudice comune deve, necessariamente, procedere (o tentare di procedere) ad una interpretazione della prima in modo conforme a quella convenzionale avvalendosi di tutti gli strumenti di ermeneutica giuridica, «e fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto»; quando ciò non sia possibile, non potrà che sollevare la questione dinanzi al giudice delle leggi, nei termini appena indicati.

Né va dimenticato che nella sentenza n. 49 del 2015 la Corte ha, ancora una volta, ribadito e chiarito, come il ruolo della Corte europea sia quello di interpretare le norme convenzionali e valutare se la legge nazionale come definita e applicata dalle autorità nazionali, abbia nel caso sottoposto al suo giudizio, generato violazioni delle previsioni della Cedu, secondo l'interpretazione che delle stesse la Corte europea ha dato.

È, dunque, la Convenzione e non la disposizione nazionale «a vivere nella dimensione ermeneutica che la Corte adotta in modo costante e consolidato», per cui il giudice comune nel dare spazio alla interpretazione convenzionalmente non è tenuto a conformarsi ad una sentenza della Corte di Strasburgo che non sia espressione di un consolidato e costante orientamento giurisprudenziale.

Una volta, poi, che la previsione della Cedu abbia acquisito una dimensione ermeneutica costante e consolidata, la Corte costituzionale non dubita «che competa al giudice di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente ad essa, a condizione che non si riveli del tutto eccentrico rispetto alla lettera della legge».

Se non vi è dubbio che l'interpretazione delle norme della Convenzione spetti alla Corte di Strasburgo, è altresì vero che è alla Corte costituzionale che spetta di verificare se l'interpretazione data sia compatibile con la Costituzione e se detta interpretazione risulti in contrasto con altri parametri costituzionali.

In tale contesto, il decisum delle sezioni unite non può non apparire in tutta la sua originalità e eccentricità rispetto ai consolidati strumenti e rimedi tesi ad assicurare l'applicazione della legge.

Diversi sono i motivi secondo cui il percorso argomentativo colpisce per “l'originalità ed eccentricità”.

In primo luogo, perché la decisione interviene nell'ambito di un quadro giurisprudenziale costituzionale, che ha, costantemente, affermato la conformità della fattispecie delittuosa in esame ai principii di tassatività e offensività e che, comunque, ne ha escluso la illegittimità costituzionale, sia pure fissando criteri per la interpretazione della norma, attraverso lo strumento della sentenza cd. interpretativa di rigetto (contenente, cioè, la dichiarazione di non fondatezza “nei sensi di cui in motivazione”).

Perché la sentenza sul caso de Tommaso, almeno sullo specifico tema della portata precettiva delle prescrizioni dell'honeste vivere e di rispettare le leggi, non sembra espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di Strasburgo; ciò si scorge ancor di più se si leggono, sul punto, le opinioni dissenzienti di cinque giudici del collegio europeo (tra cui quella del Presidente della Corte europea, G. Raimondi) in riferimento al giudizio negativo sulle indicazioni che la Corte costituzionale ha reso nel senso della conformità della norma alla Costituzione, nella sentenza n. 282 del 2010.

Ed, infine, le sezioni unite rileggendo, alla luce della sentenza de Tommaso, il rinvio operato dall'art. 75 cit. alle prescrizioni e agli obblighi di cui all'art. 8 d.lgs. cit., come riferito solo «a quegli obblighi e prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico», hanno “tagliato via” dalla fattispecie incriminatrice la previsione, quale condotta delittuosa, della violazione di due prescrizioni espressamente indicate nel dato letterale.

Così operando, hanno proceduto all'interpretazione conforme fino a dove ciò, forse, non sia consentito, secondo i dettami introdotti dalle citate sentenze gemelle della Corte costituzionale.

Viene allora da chiedersi, se l'operazione di cancellazione delle due ipotesi indicate dall'area della fattispecie penalmente rilevante, espressamente ricomprese nel dato positivo, visto il rinvio a tutte le prescrizioni, non avrebbe dovuto essere demandata all'organo cui è funzionalmente, ed in modo accentrato, affidato il compito di eliminare le aporie dall'ordinamento interno, attraverso il sindacato di legittimità costituzionale della norma ritenuta in contrasto con la Costituzione, e, nel caso di specie, per violazione dell'art. 117, comma 1, Cost., in riferimento alle norme della Convenzione.

Non è certamente in discussione l'autorevolezza della decisione delle sezioni unite in vista del formarsi di una interpretazione uniforme della norma, ma deve rilevarsi come sia comunque prospettabile il rischio di possibili future pronunce difformi, sia pure attenuato dalla nuova disciplina dettata dall'art. 618 , comma 1-bis, c.p.p.

Ne consegue che una pronunzia della Corte costituzionale, eventualmente dichiarativa della illegittimità costituzionale, nel senso indicato dalle sezioni unite, avrebbe avuto l'indubbio vantaggio di espungere dall'ordinamento nazionale una norma in contrasto con la Costituzione con effetto generale e definitivo, secondo quanto previsto dall'art.136 Cost.

La (eventuale) dichiarazione di incostituzionalità, peraltro, concernendo una norma che sanziona penalmente una condotta, e sulla cui base sono state pronunciate sentenze di condanna, avrebbe avuto l'effetto ulteriore di determinare la cessazione dell' esecuzione e di tutti gli effetti penali delle sentenze divenute irrevocabili, ai sensi dell'art. 30 della legge 87 del 1953.

Senza dubbio l'attuazione dell'art. 25, comma 2, Cost., espressivo del principio di tassatività e di determinatezza della norma penale, avrebbe avuto certa e diffusa attuazione, sicuramente più di quanto non possa accadere attraverso l'esperimento dei rimedi processuali (ad esempio, incidenti di esecuzione) volti a far valere il principio di diritto in esame nei singoli procedimenti in corso.

Certamente, al contrario, la pronunzia (eventuale) di non fondatezza, nel solco della decisione della Corte costituzionale n. 282 del 2010, non rivestendo efficacia vincolante generalizzata, avrebbe potuto comportare la possibile riproponibilità della questione, almeno in astratto, “all'infinito”, con gravi ripercussioni sull'esigenza della certezza del diritto; (così come, ad esempio, verificatosi in relazione ai fatti oggetto delle decisioni n. 292 del 1998, n. 243 del 2003 e n. 299 del 2005 della Corte costituzionale e n. 23016 del 2004 della Corte di cassazione , in tema di computo dei termini massimi di custodia cautelare).

In attesa dei possibili sviluppi della giurisprudenza, di legittimità e costituzionale, alla luce della sentenza in esame, e di conoscere come il principio di diritto sarà attuato dai giudici di merito, non può che constatarsi, ancora una volta, come sia delicato il tema dei rapporti tra le decisioni della Corte costituzionale e i poteri interpretativi dei giudici, soprattutto quando coinvolgono esigenze di tutela dei diritti fondamentali.

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