La responsabilità del ginecologo e del medico di base sull'andamento della gravidanza

Vittorio Nizza
17 Ottobre 2017

In tema di responsabilità professionale medica, sussiste a carico del medico ginecologo l'obbligo di seguire con diligenza la gravidanza delle pazienti che a lui si affidano, avendo egli il dovere di assicurare attraverso i concordati controlli periodici, nonché interpretando e valorizzando le sintomatologie riferite, o comunque apprese, che la gravidanza possa giungere a compimento senza danni per la madre e per il nascituro. Fattispecie in tema di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure ...
Massima

In tema di responsabilità professionale medica, sussiste a carico del medico ginecologo l'obbligo di seguire con diligenza la gravidanza delle pazienti che a lui si affidano, avendo egli il dovere di assicurare attraverso i concordati controlli periodici, nonché interpretando e valorizzando le sintomatologie riferite, o comunque apprese, che la gravidanza possa giungere a compimento senza danni per la madre e per il nascituro (fattispecie in tema di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza di condanna di un ginecologo che, in presenza di una riferita infezione da varicella con gravi difficoltà respiratorie, aveva omesso di visitare la paziente e di disporre l'immediato ricovero in ospedale).

Il caso

La paziente, gravida oltre la venticinquesima settimana, decedeva a seguito delle complicanze della varicella, in particolare a seguito di estesa polmonite necrotico emorragica con conseguente insufficienza respiratoria. Il decesso della madre comportava anche la perdita del feto per interruzione prematura della gravidanza.

Venivano imputati per i reati di cui agli artt. 18, 589 c.p. e art. 17 l.194/1978 il medico di fiducia, specialista in ginecologia ed ostetricia, e il medico di base della vittima.

In particolare alla ginecologa si contestava, informata del contagio, di non aver prescritto alla paziente la somministrazione dell'antivirale nelle 24 ore dalla prima manifestazione cutanea della varicella, di non aver consigliato uno stretto monitoraggio clinico-strumentale con anche la visita da un infettivologo e, soprattutto, di non aver visitato la paziente o comunque consigliato l'ospedalizzazione nei giorni successivi ma di essersi limitata ad avallare la prescrizione dell'antivirale per bocca prescritto dal medico di famiglia, inadeguato a fronteggiare tale infezione.

Al medico di base veniva, invece, contestato di non aver visitato la paziente, pur informato della fase acuta della malattia ma di essersi limitato a prescrivere un antivirale inadeguato alla gravità del caso, nonché di aver omesso un ricovero ospedaliero.

Entrambi i medici venivano condannati in primo e secondo grado. Secondo i giudici, infatti, entrambi i sanitari erano a conoscenza della situazione di particolare vulnerabilità della paziente, immunodepressa in quanto incinta nell'ultimo trimestre, fumatrice e affetta da bronchite cronica. Se avessero tenuto la condotta doverosa omessa la paziente, mediante i trattamenti ospedalieri opportuni, saprebbe sopravvissuta secondo un giudizio di elevata probabilità logica.

Avverso la sentenza di appello, di conferma della sentenza di primo grado, proponevano ricorso entrambi gli imputati.

La questione

La Corte nella sentenza in oggetto analizza la problematica della valutazione del nesso di causa nelle ipotesi tipiche della responsabilità medica ossia nei casi reato colposo omissivo improprio.

Nella pronuncia si analizza anche le responsabilità del medico specialista, nella specie della ginecologa, in virtù dell'obbligo di diligenza che grava sullo stesso nei confronti del paziente, proprio in proporzione al grado di specializzazione.

Le soluzioni giuridiche

Nel caso in esame la Corte analizza le posizioni di entrambi i medici, differenziando il loro ruolo anche con riferimento al diverso grado di specializzazione.

In particolare, con riferimento alla posizione della ginecologa, i giudici rilevavano come non potesse aver valore esimente la circostanza che la stessa svolgesse anche la funzione di medico ospedaliero. La dottoressa, esercitando anche la professione quale libero professionista, aveva stipulato con la paziente un mandato professionale privatistico dal quale scaturiva un obbligo di seguire con diligenza tutta l'evoluzione della gravidanza. Pertanto rientrava tra i suoi doveri professionali non solo monitorare la salute della paziente e del feto attraverso i controlli periodici ma anche interpretando e valorizzando le sintomatologie riferite o comunque apprese.

Inoltre, nello specifico caso di specie le complicanze polmonari conseguenti alla varicella non rappresentavano una conseguenza né rara né imprevedibile della malattia tenuto conto dello stato di gravidanza avanzata della paziente e della sua situazione di bronchite cronica, di cui la specialista era perfettamente a conoscenza.

La specialista, pertanto, avrebbe dovuto, una volta informata del contagio, visitare immediatamente la paziente e indirizzarla al ricovero ospedaliero. Sicuramente non poteva ritenersi sufficiente per esonerarla dalla responsabilità il fatto che l'imputata avesse confermato – telefonicamente – la terapia prescritta dal medico di famiglia, nell'erronea convinzione che quest'ultimo avesse visitato la paziente. Trattandosi di una specialista, con un maggior carico di competenze, non avrebbe dovuto far semplicemente affidamento sul collega, ma avrebbe dovuto visitare la persona offesa. Tra l'altro la terapia antibiotica prescritta dal medico di famiglia era palesemente insufficiente per la gravità della situazione.

Allo stesso modo, viene ritenuta sussistente la responsabilità in capo al medico di base, il quale, informato telefonicamente dei sintomi della varicella, essendo a conoscenza dello stato gravidico della paziente e delle sue condizioni polmonari, non avrebbe dovuto sottrarsi all'obbligo di visitala immediatamente e di prescriverne il ricovero, che con un elevato grado di probabilità logica ne avrebbe evitato il decesso. Lo stesso, infatti, si è limitato a prescrivere telefonicamente una blanda terapia antibiotica.

Secondo la Corte, quindi, se gli imputati, ognuno indipendentemente dall'altro, avessero tenuto il comportamento doveroso previsto dalla regola cautelare l'evento morte si sarebbe evitato con un elevato grado di probabilità logica sulla base delle evidenze probatorie.

Infine, la Corte affronta il problema della prova della sussistenza del nesso causale, che vertendosi in ipotesi di reato colposo omissivo improprio, deve fondarsi sul criterio della probabilità logica e non di quella statistica. In tal senso la sentenza si richiama alla recente pronuncia delle Sezioni unite secondo la quale il rapporto di causalità tra omissione ed evento nei reati colposi omissivi deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica che deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto.

La Corte pertanto rigettava entrambi i ricorsi condannando i ricorrenti alle spese.

Osservazioni

Il caso in esame riguardava il decesso della paziente conseguente alla condotta successiva di due medici, i quali avevano entrambi tenuto una condotta negligente. Le condotta dei due medici, pur avendo in ogni caso rilevanza penale, poiché se ciascuno di essi in maniera indipendente avesse tenuto il comportamento dovuto la paziente si sarebbe salvata, rilevava anche in relazione al loro diverso grado di specializzazione.

La vicenda, infatti, aveva visto coinvolti sia la ginecologa, medico specialista, che privatamente aveva in cura la persona offesa, sia il suo medico di famiglia, i quali entrambi avevano sottovalutato la gravità della situazione e delle possibili complicanze respiratorie (non rare né imprevedibili) pur essendo a conoscenza dello stato di gravidanza della paziente e dei suoi pregressi problemi di bronchite cronica ed avevano omesso di visitare la paziente e di prescriverle un ricovero ospedaliero, limitandosi a prescrivere telefonicamente una terapia antibiotica insufficiente.

Secondo la Suprema Corte non avrebbe avuto alcun rilievo la tesi difensiva della specialista secondo la quale in quanto medico ospedaliero non avrebbe avuto alcun obbligo giuridico di assistere in ogni momento la paziente né di essere sempre reperibile, né di essere tenuta alla cura di malattie non attinenti con lo stato di gravidanza.

Evidenzia la Corte come in realtà la ginecologa svolgesse la propria attività sia in regime ospedaliero che privatamente, pertanto avrebbe dovuto agire in virtù del mandato professionale ricevuto quale libero professionista. In tal senso la sentenza si conforma alla giurisprudenza consolidata secondo la quale il rapporto medico-paziente, anche sorto di fatto, già di per se determina una posizione di garanzia in capo al sanitario.

Inoltre, la ginecologa era anche un medico specializzato, quindi ancor più avrebbe dovuto svolgere il proprio compito con una diligenza maggiore proprio per assicurare che la gravidanza giungesse a termine senza danni per la madre e per il nascituro.

Come tale, la dottoressa non solo avrebbe dovuto prevedere le possibili complicanze respiratorie della varicella, evento abbastanza comune e prevedibile, in considerazione della situazione personale della paziente, ma avrebbe dovuto visitare immediatamente la stessa, senza limitarsi a approvare telefonicamente la scelta terapeutica prescritta dal medico di famiglia.

Il dovere di diligenza richiesto, quindi, non può non tener conto anche del grado di specializzazione del soggetto agente, oltre che ovviamente dell'attività svolta e delle condizioni in cui si trova ad agire. Tutti elementi che devono indirizzare le valutazioni del giudice.

Nel caso di specie, la Corte ha rilevato come in realtà entrambi i medici fossero stati negligenti, a fronte di un evento altamente prevedibile e quindi evitabile, infatti se entrambi, singolarmente, avessero tenuto la condotta doverosa l'evento morte non si sarebbe verificato con un elevato grado di probabilità logica.

La valutazione del nesso di causa, quindi, viene fatta dai giudici nel caso di specie richiamandosi alla più recente giurisprudenza in materia di reati omissivi colposi. In particolare si richiamano le Sezioni unite del 2014, le quali in materia richiedono per la prova della sussistenza del nesso di causa per la tipologia di reati suddetti non la valutazione sulla base di un coefficiente di probabilità statistica ma alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica. Il giudizio si deve fondare sulla caratterizzazione del fatto storico e sulle peculiarità del caso concreto, oltre che su un ragionamento deduttivo basato su generalizzazioni scientifiche.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.