Obblighi di sicurezza nei palazzi di giustizia

Giovanna Zuccaro
18 Ottobre 2017

Con la sentenza n. 16508/2017, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al primo caso di omicidio avvenuto all'interno di un Tribunale, il 25 settembre 2002 nel Palazzo di Giustizia di Varese durante l'udienza di escussione testi di un giudizio di divorzio. In tale occasione un uomo, approfittando dell'assenza di attivazione del sistema di sicurezza (metal detector) e di vigilanza all'ingresso del Tribunale, al cospetto del magistrato e dei difensori delle parti aveva sparato alla moglie, uccidendola, con una pistola Beretta calibro 9 che aveva portato con sé .
Il quadro normativo: D.M. 28 ottobre 1993 Ministero di Grazia e Giustizia

Il tema della sicurezza all'interno dei Palazzi di Giustizia e della sicurezza in generale rinviene nella l. 1 aprile 1981 n. 121 relativa «l'Ordinamento dell'Amministrazione della Pubblica Sicurezza l'antecedente normativo». Quanto previsto dagli artt. 18 e 20 della citata legge ha trovato affermazione pratica nel Decreto Ministeriale del 28 ottobre 1993 del dicastero di Grazia e Giustizia, che ancora oggi costituisce l'unica disciplina di riferimento in materia di sicurezza esterna ed interna delle strutture in cui si svolge l'attività giudiziaria.

Il Decreto, strutturato in due articoli, è diretto ad individuare i soggetti competenti ad adottare i provvedimenti allo scopo di definire i campi di intervento delle autorità istituzionali designate: il Prefetto ai fini della incolumità e sicurezza dei Magistrati e della sicurezza esterna delle strutture, il Procuratore Generale presso le Corti di Appello ai fini della sicurezza interna.

In ogni caso, dall'impostazione strutturale e semantica degli artt. 1 e 2, si rileva immediatamente che la figura cardine alla quale è affidato il compito di sovraintendere alla sicurezza delle strutture in questione risulta essere quella del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello (si consideri anche la precisazione in preambolo al D.M. «Ritenuta la necessità di individuare l'autorità alla quale compete adottare i provvedimenti per la sicurezza di tali strutture)». Non a caso l'incipit assiomatico del decreto, all'art. 1, statuisce che «compete al procuratore generale presso la corte di appello esprimere il parere sui provvedimenti che il prefetto assume in ordine all'incolumità e alla sicurezza dei magistrati oltre che in ordine alla sicurezza esterna delle strutture…».

L'intervento del Procuratore Generale è pertanto fondamentale anche riguardo l'ambito di operatività – incolumità e sicurezza dei magistrati, oltre che alla sicurezza esterna delle strutture in cui si svolge l'attività giudiziaria - non assegnato ad organi giudiziari bensì al Prefetto.

Parimenti l'art. 2 ripete l'esordio: «Compete al procuratore generale presso la corte di appello» – che a questo punto viene investito ed incaricato a pieno titolo – «l'adozione dei provvedimenti necessari ad assicurare la sicurezza interna delle strutture in cui si svolge attività giudiziaria. Salvo che nei casi di assoluta urgenza, i provvedimenti sono adottati sentito il prefetto e i capi degli uffici giudiziari interessati».

La portata ed i contenuti del Decreto sono stati illustrati dalla Circolare Ministeriale n. 4/1994 (come modificata ed integrata dalla Circolare n. 10/1997).

Le Circolari costituiscono infatti strumenti di direzione burocratica con cui il superiore (nel caso specifico il ministro della giustizia) guida il comportamento del sottoposto (procuratore generale) tenuto, in forza del rapporto di gerarchia - c.d. di supremazia speciale - ad applicare la Circolare.

La richiamata Circolare ha precisato, più analiticamente rispetto al D.M., la figura del Procuratore Generale quale unico organo abilitato a provvedere in tema di sicurezza interna degli uffici giudiziari e sotto il profilo tecnico-organizzativo ha individuato in capo ai Procuratori Generali tre ambiti di intervento:

  1. organizzazione e utilizzo del materiale di protezione di cui gli uffici sono già dotati;
  2. individuazione e scelta dello strumento in concreto più idoneo a conseguire la specifica tutela della sicurezza interna;
  3. acquisizione di strumenti di protezione nuovi o diversi da quelli di cui gli uffici sono già dotati.

Si inserisce nella richiamata disciplina l'intervento normativo di cui all'art. 1 comma 526 lett. a l. 190/2014 che ha attribuito al Ministero della Giustizia il compito di provvedere alla gestione delle spese di funzionamento degli uffici giudiziari, in precedenza ai sensi della l. n. 392/1941 poste a carico dei comuni. Trattasi di intervento legislativo di natura organizzativa che non innova né modifica in alcun modo il regime di ripartizione delle competenze previsto dal D.M. 28 ottobre 1993 ma che, significativamente, va ad incentrare in capo al dicastero della Giustizia le spese necessarie per il funzionamento delle strutture giudiziarie, rimarcando ed avvalorando gli obblighi del Ministero sul punto.

Peraltro, anche prima dell'intervento legislativo da ultimo richiamato, il Procuratore Generale rimaneva comunque il titolare degli obblighi di sicurezza di cui all'art. 2 del D.M. 28 ottobre 1993, costituendo obbligo del Ministero della Giustizia quello di attivarsi affinché i Comuni (o eventuali appaltatori privati dei servizi di sicurezza) concretamente adottassero le misure necessarie. In questo senso si sono infatti espressi i Giudici e le Corti di merito di Milano e Bologna per i casi di Varese e Reggio Emilia.

L'ambito di applicazione del D.M. 28 ottobre 1993

Il Decreto Ministeriale è atto amministrativo emanato da un Ministro della Repubblica nell'ambito delle materie di competenza del proprio dicastero e costituisce, all'interno della gerarchia delle fonti, una norma secondaria non avente efficacia di legge (diversamente rispetto agli atti normativi emanati dal Governo ai quali l'ordinamento giuridico attribuisce la stessa forza della legge ordinaria quali i decreti legislativi e i decreti legge).

La definizione “efficacia o forza di legge” riguarda aspetti di diritto costituzionale e aspetti di tipo relazionale, definisce la qualità di determinati atti con riferimento al tipo di relazioni (forza attiva: capacità di abrogare; forza passiva: capacità di resistere all'abrogazione).

I decreti (o regolamenti) ministeriali nella gerarchia delle fonti sono di rango secondario in quanto sottoposti alle fonti primarie: dipendono dalla legislazione ordinaria (art. 4 Preleggi), sono sottoposti al principio di legalità in senso sostanziale, ovvero l'esercizio del potere pubblico deve essere limitato e diretto da specifiche norme di legge tali da restringere la discrezionalità dell'autorità agente. Disposizione evidenziata dalla l. 23 agosto 1988 n. 400, Disciplina dell'attività di governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ove al capo III (artt. da 14 a 17) è disciplinata la potestà normativa del Governo, e pertanto anche riguardo i Regolamenti.

Il legislatore del 1988 ribadisce ed impone che i Decreti Ministeriali intervengano quando è la legge a conferire tale potere; il Parlamento ha dunque posto il principio di necessaria autorizzazione ex lege di ogni attività ministeriale avente contenuto normativo.

Inoltre il parere del Consiglio di Stato, il visto e la registrazione della Corte dei Conti e la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, conferiscono al D.M. l'efficacia dispositiva, la forza e la perentorietà dell'atto normativo quale esso è ad ogni effetto.

L'atto normativo in questione – il cui fondamento risiede, come si è visto, nella l. n. 121/1981 - è assolutamente chiaro nel determinare uno specifico obbligo, in capo alla più alta carica giudiziaria del Distretto, quello di vigilare ed intervenire sulla predisposizione dei presidi e dei dispositivi a tutela della salvaguardia delle persone e delle cose presenti negli edifici nei quali viene esercitata la funzione giurisdizionale.

Viene dunque individuato nel Procuratore Generale il soggetto che ricopre una posizione di garanzia rispetto alla sicurezza non solo dei magistrati ma di tutti i soggetti che si trovano all'interno della struttura, siano essi operatori del settore giustizia ovvero soggetti presenti occasionalmente.

Del resto, una simile previsione normativa, specifica per gli ambienti in cui si svolge l'attività giudiziaria, è pienamente giustificata dalle peculiarità dei rischi connessi a tali strutture che, per la loro valenza istituzionale - ove viene esercitato uno dei poteri dello Stato - e per la loro funzione -gestione dei conflitti -, risultano esposte al rischio di divenire teatro di gesti eclatanti o di atti di matrice terroristico-eversiva.

Peraltro, è pacifico che, proprio per lo svolgimento dell'attività ivi esercitata, i Tribunali rappresentino il crocevia di un numero elevatissimo di persone, oltre ai magistrati, al personale amministrativo ed agli avvocati, le parti, i testimoni, i consulenti e comunque il pubblico in generale che, per le più svariate ragioni, ha il diritto e/o la facoltà di frequentare i Palazzi di Giustizia.

È dunque evidente che la portata del D.M. 28 ottobre 1993 debba intendersi generale, non potendosi operare – come ha sostenuto l'Avvocatura dello Stato nel caso in commento – una differenza tra esigenze di tutela dei lavoratori del settore giustizia e soggetti presenti occasionalmente all'interno dei Tribunali. Argomentare diversamente vorrebbe dire operare una fuorviante e discriminante distinzione, assolutamente non rispondente – anzi del tutto contraria – alle finalità della norma in questione. Norma che infatti considera all'art. 1 l'incolumità e la sicurezza dei Magistrati oltre che la sicurezza esterna ma che all'art. 2 dispone in ordine alla sicurezza interna delle strutture affidando al Procuratore Generale, quindi direttamente ad un organo dell'apparato Giustizia per competenza e cognizione di causa, l'adozione dei provvedimenti necessari (peraltro non subordinata, nei casi di estrema urgenza, alla consultazione di Prefetto e capi degli uffici giudiziari). La tesi dell'Avvocatura dello Stato non poteva dunque reggere a fronte delle contemplate previsioni distribuite sui due articoli, precisazioni e scansioni che, diversamente, non avrebbero senso di sussistere. Ciò è, del resto, confermato da quanto portato nel preambolo del D.M. 28 ottobre 1993: «Considerata l'esigenza di provvedere, con criteri uniformi, alla sicurezza esterna ed interna delle strutture in cui si volge l'attività giudiziaria».

Le pronunce di merito e la sentenza della Cassazione n. 16508/2017

La Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. III, n. 16508/2017), ha confermato integralmente in punto an debeatur le pronunce del Tribunale (Trib. Milano, n. 6552/2011) e della Corte di Appello di Milano (App. Milano, n. 747/2014), riconoscendo la responsabilità del Ministero della Giustizia per aver omesso di adottare i dovuti controlli e le idonee misure volte a garantire la sicurezza nel Palazzo di Giustizia di Varese, conformemente alla previsione del D.M. 28 ottobre 1993.

Il Supremo Collegio ha ribadito che, nello specifico, si tratta di responsabilità omissiva tipizzata, per la cui configurazione non è ostativo il fatto che sia prevista da norma secondaria.

È stato confermato che a carico del Ministero della Giustizia grava l'obbligo di protezione e tutela; sussiste quindi un vero e proprio dovere di attivazione di tutte le misure indispensabili alla prevenzione di illeciti all'interno dei locali giudiziari. Per detti ambienti vale quindi una disciplina differente e specifica rispetto all'onere generale dello Stato di garantire, attraverso il Ministero dell'Interno, la sicurezza dei propri cittadini con l'esercizio dei poteri di polizia.

E così, le peculiarità della normativa in questione consentono di ritenere che il fruitore della struttura giudiziaria possa vantare un vero e proprio diritto all'adozione delle cautele indispensabili volte a prevenire le conseguenze di atti illeciti.

Ciò premesso, la Suprema Corte, riprendendo il percorso logico-giuridico delle pronunce dei primi due gradi di giudizio, ha rilevato che la presenza di un sistema di metal-detector funzionante (dispositivo elementare, misura minima di sicurezza) avrebbe certamente evitato il verificarsi dell'omicidio nei termini e nella modalità in cui è stato realizzato.

Si è trattato, infatti, del verificarsi di un rischio prevedibile e certamente evitabile ove l'Autorità competente avesse adottato i “provvedimenti necessari” di cui all'art. 2 del D.M. 28 ottobre 1993.

Al proposito, i Giudici di legittimità hanno precisato che nessun rilievo può avere la circostanza che l'omicidio fosse frutto di premeditazione e che avrebbe potuto essere perpetrato anche altrove ed in altro momento.

Ciò che rileva è che l'omicidio è avvenuto in Tribunale a causa ed in conseguenza della totale assenza di un impianto di protezione adeguatamente funzionante.

Come emerso nel corso del procedimento penale svoltosi a carico dell'uxoricida, quest'ultimo aveva ideato il piano criminoso proprio dopo aver preso contezza in occasione degli accessi per le precedenti udienze, della totale assenza di controlli all'ingresso del Tribunale.

Tanto basta per ritenere ininfluente ogni altra argomentazione, ivi compresa l'astratta possibilità che il delitto si sarebbe potuto consumare anche in un altro luogo, con altre modalità oppure impedito dal caso fortuito, dalla resipiscenza dell'autore, dall'intervento di terzi o ancora da cause diverse.

Le pronunce dei Giudici e delle Corti di merito hanno fermamente riconosciuto che gli uxoricidi sono stati resi attuabili per effetto dell'omissione dei controlli cui il Ministero della Giustizia era tenuto, omissione che si pone dunque quale causa dell'evento senza che il fatto del reo possa essere valutato quale causa esclusiva ex art. 41,comma 2, c.p. Il Ministero responsabile e tenuto al risarcimento potrà comunque agire ex art. 2055 c.c. in via di regresso nei confronti dell'omicida, condebitore solidale, eventualmente deducendo in tale sede – ed esclusivamente in essa – il rispettivo grado di colpa.

Un problema sempre più attuale

Varese 2002, Reggio Emilia 2007, Milano 2015. Ed ancora, con esiti fortunatamente meno drammatici, per la minor lesività dello strumento utilizzato (un martello in luogo di un'arma da fuoco), Piacenza 2014.

Gli episodi di cronaca degli ultimi anni dimostrano inequivocabilmente un incremento della violenza all'interno delle aule di Tribunale.

Fatta eccezione per il caso di Milano, l'ambito da cui si sono originati i precedenti richiamati è il giudizio di separazione e/o divorzio tra coniugi, procedimenti in cui il conflitto tra le parti in causa è quanto mai accentuato sia da aspetti passionali che patrimoniali.

Non a caso un'associazione di avvocati matrimonialisti italiani chiede da tempo che le forze dell'ordine assistano anche le cause familiari così come avviene per le udienze penali.

Il tema della sicurezza nei Tribunali è stato trattato ripetutamente anche in sede parlamentare e governativa. Si ricordano, nello specifico:

  • l'intervento parlamentare discusso alla Camera dei Deputati nella seduta n. 259 del 15 dicembre 2007 (primo firmatario: On. Eugenio Minasso) con cui la Camera, dopo gli omicidi nel Tribunale di Reggio Emilia, invitava il Governo a valutare la possibilità di adottare provvedimenti urgenti volti a mettere in sicurezza anche le singole aule ed a potenziare le necessarie dotazioni di sicurezza all'interno dei tribunali;
  • l'informativa urgente alla Camera dei Deputati del 16 aprile 2015 a seguito della strage di Milano del 9 aprile 2015.

Tuttavia il D.M. 28 ottobre 1993 rimane l'unica disposizione di riferimento in materia di individuazione del soggetto tenuto a garantire la sicurezza delle strutture in cui si svolge attività giudiziaria.

In conclusione

La disciplina delle responsabilità inerenti la tutela della sicurezza degli uffici giudiziari risulta incentrata sul D.M. 28 febbraio 1993 che individua nella più alta carica del Distretto, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello, il soggetto onerato dell'obbligo di adozione di tutte le misure idonee alla sicurezza all'interno dei Palazzi di Giustizia.

Si ritiene che sul punto non possano esservi dubbi, considerato il dato letterale della norma nonché l'univoca interpretazione della stessa fornita da:

  • due circolari ministeriali (n. 4 del 28 marzo 1994 e n. 10 del 9 settembre 1997);
  • Trib. Milano, sez. X civ. n. 6552/2011: sentenza di primo grado emessa all'esito del giudizio afferente l'uxoricidio avvenuto il 25 settembre 2002 nel Tribunale di Varese;
  • App. Milano, n. 747/2014: sentenza di secondo grado avverso la sentenza n. 6552/2011 del Tribunale di Milano;
  • Trib. Bologna, sez. III civ., n. 3180/2013: sentenza di primo grado emessa all'esito del giudizio di primo grado sugli omicidi avvenuti nel Tribunale di Reggio Emilia;
  • App. Bologna n. 1451/2015: sentenza di secondo grado avverso la sentenza n. 3180/2013 del Tribunale di Bologna;
  • intervento parlamentare discusso alla Camera dei Deputati nella seduta n. 259 del 15 dicembre 2007;
  • informativa urgente del Governo in Parlamento a seguito della strage del 9 aprile 2015 nel Tribunale di Milano.

Ebbene, tutte le suddette Autorità sono concordi nel ritenere il D.M. 28 ottobre 1993 idoneo ad individuare nel Procuratore Generale il soggetto che ricopre una posizione di garanzia riguardo la sicurezza all'interno delle strutture giudiziarie.

Da ciò deriva, come rilevato dalla Suprema Corte, la responsabilità del Ministero della Giustizia quale Ente avente, tra gli altri, il compito precipuo di sovrintendere al personale ed all'organizzazione dei servizi e degli Uffici della Giustizia attraverso le proprie articolazioni periferiche distrettuali, rappresentate dalle Procure Generali della Repubblica presso le Corti di Appello.

La mancata adozione delle misure necessarie atte a garantire la sicurezza nei Palazzi di Giustizia integra dunque un'ipotesi di responsabilità omissiva tipizzata, per la cui configurazione non è ostativo il fatto che le disposizioni siano previste da norma secondaria non avente efficacia di legge.

È infatti necessario e sufficiente che l'obbligo di intervento derivi da una “norma giuridica specifica” o, secondo gli ordinari criteri di attribuzione della responsabilità omissiva impropria ex art. 40 c.p., dalla posizione di garanzia del soggetto designato rispetto alla tutela di un determinato bene.

In altri termini, l'omissione di un dato comportamento rileva quando si tratti di mancata esecuzione di una condotta imposta da una disposizione normativa od anche dalla violazione di regole di comune prudenza che impongono il compimento di una determinata attività a tutela di un diritto altrui.

Ne consegue, come rilevato dai Giudici del merito e confermato dalla Corte di Cassazione, che non assume rilievo alcuno il “rango” della fonte dell'obbligo e posto che rispondono alla esigenza in questione anche le “norme di comune prudenza”, indubbiamente, a maggior ragione, risulta avere piena efficacia un provvedimento governativo specifico non per nulla limitato nei suoi effetti impositivi dal fatto di essere norma di rango secondario non avente forza di legge ma vigente in quanto non abrogato da altra successiva disposizione, così come del resto accade per gli atti di normazione primaria.

Guida all'approfondimento

l. 23 agosto 1988 n. 400 Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri;

Circolare del Ministero della Giustizia n. 4 del 28 marzo 1994;

Circolare del Ministero della Giustizia n. 10 del 9 settembre 1997;

Intervento parlamentare discusso alla Camera dei Deputati nella seduta n. 259 del 15 dicembre 2007;

Informativa urgente alla Camera dei Deputati del Ministro della Giustizia 16 aprile 2015;

l. 24 aprile 1941 n. 392 Trasferimento ai Comuni del servizio dei locali e dei mobili degli Uffici giudiziari;

Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2015) n. 190/2014 art. 1 comma 526.

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