Mancata adozione del modello organizzativo e responsabilità dell’ente ex 231/2001

Gaetano Bonifacio
24 Ottobre 2017

La responsabilità amministrativa dell'ente, come evidenziato dai giudici del Supremo Collegio, deriva da quanto disposto dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, recante la rubrica Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società ...
Massima

L'ente risponde del reato posto in essere da persone che rivestono funzioni di amministrazione direzione o vigilanza, o che comunque esercitano, anche di fatto, la gestione dello stesso se, prima della commissione del reato, non vi sia prova certa che sia stato adottato ed efficacemente attuato, un modello organizzativo idoneo a scongiurare la commissione di reati. È, quindi, lecito il sequestro preventivo per equivalente finalizzato alla confisca, avente ad oggetto beni dell'ente, per il quale l'indagato aveva rivestito dapprima la carica di direttore tecnico e poi quella di direttore generale con delega ambientale, potendosi configurare in capo al medesimo il concorso formale tra le fattispecie di truffa aggravata dall'aver commesso il fatto a danno di ente pubblico e frode nelle pubbliche forniture.

Il caso

Presupposto storico della vicenda presa in esame dal Supremo Collegio è la sentenza pronunciata dal giudice del tribunale, ove si erano esaminati i motivi di gravame proposti dall'indagato avverso il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca disposto dal giudice per le indagini preliminari, a carico della società controllante il raggruppamento temporaneo di imprese, titolare di un contratto di appalto per la gestione di rifiuti.

In tale vicenda, il direttore tecnico con delega ambientale della società capogruppo, era stato indagato per i reati di cui agli artt. 640, comma 2, n.1 c.p., di frode nei contratti di pubbliche forniture di cui all'art. 356 c.p. e per reati in materia ambientale.

Il Supremo Collegio, esamina le questioni inerenti il possibile accollo della responsabilità amministrativa in capo all'ente di appartenenza, in dipendenza dell'adozione e attuazione di un modello di organizzazione per la prevenzione dei reati e di possibile ricorrenza del concorso formale tra le fattispecie delittuose di cui agli artt. 356 e 640, comma 2, n.1 c.p., contestate al rappresentante dell'ente.

La questione

La responsabilità amministrativa dell'ente, come evidenziato dai giudici del Supremo Collegio, deriva da quanto disposto dal d.lgs. 8 giugno 2001, n.231, recante la rubrica Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n.300.

In particolare, in base ai disposti di cui agli artt. 5 e 6 d.lgs. 8 giugno 2001, n.231, l'ente è responsabile in via amministrativa, nelle ipotesi in cui il reato sia commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, da persone che agiscono in rappresentanza di esso.

Compito della giurisprudenza, riguardo alla ricollegabilità dell'azione del rappresentante alla responsabilità dell'ente, è quello di enucleare quali siano in concreto i comportamenti che evidenziano una ricollegabilità dell'azione, al vantaggio tratto dall'ente.

Tale responsabilità viene meno, come determinato dal d.lgs. 231/2001 e ribadito dalla pronuncia in commento, quando l'organo dirigente dell'ente, dimostra di aver adottato e efficacemente attuato, un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, dimostrazione che è posta a carico dell'ente, gravando invece sulla pubblica accusa il compito di provare l'esistenza dell'illecito e il fatto che da esso sia derivato un vantaggio per l'ente.

Le soluzioni giuridiche

L'art. 5, comma 1, lett. a) d.lgs. 231/2001, stabilisce, più in particolare, che l'ente è responsabile per i reati commessi da persone che rivestono al suo interno funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione, ovvero nel caso indicato nella lett. b) da persone sottoposte alla vigilanza dei soggetti elencati nella lettera a).

Il modello introdotto dal d.lgs. 231/2001 basa la possibile imputazione della responsabilità di tipo amministrativo all'ente, per i fatti posti in essere da chi opera nel suo interesse o a suo vantaggio, sul presupposto del dovere che grava sull'ente, di vigilare sulle condotte di chi agisce per esso.

Tale principio di imputazione, basa la possibile attribuzione di responsabilità, sull'omessa adozione ed attuazione di modelli strumentali ad evitare la commissione di reati; in tal modo l'ente, che può dimostrare di aver fatto il possibile in prevenzione delle possibili condotte costitutive di reato, in base a quanto disposto dall'art. 6, va esente da responsabilità.

Coerentemente, la previsione dell'art. 5, comma 2, dispone l'esenzione da responsabilità dell'ente, qualora il reato sia stato commesso, dal suo appartenente, nell'interesse esclusivo proprio o di terzi.

È da rilevare che il d.lgs. 231/2001 non prevede l'obbligo per gli enti di adozione del modello organizzativo; purtuttavia la sua mancata adozione, in presenza dei presupposti oggettivi e soggettivi indicati nel d.lgs. 231/2001, costituirebbero un profilo di rimproverabilità per colpa di organizzazione, secondo il quale, «in forza del rapporto d'immedesimazione organica con il suo dirigente apicale, l'ente risponde per fatto proprio, senza involgere minimamente il divieto di responsabilità penale per fatto altrui posto dall'art. 27 Cost.» (sent. trib. Novara, 26 ottobre 2010).

Il Supremo Collegio, ritiene individuabile il presupposto dell'imputazione di responsabilità in capo all'ente per il fatto posto in essere dal suo rappresentante, dall'analisi del ruolo svolto all'interno della società, dal tipo di azione, ovvero l'aver stipulato per conto dell'ente contratti con la pubblica amministrazione, essendo però necessaria a tali fini, un'analisi del fatto, che secondo le regole processuali, non è censurabile in sede di legittimità.

Nel caso si tratti di raggruppamento di imprese, l'analisi volta all'accertamento della responsabilità dell'ente, deve essere condotta con riferimento al ruolo ricoperto dal soggetto attivo dei reati, in ciascuna impresa coinvolta nei singoli contratti con la pubblica amministrazione.

Tra le ipotesi delittuose motivo di gravame, vi era la condotta costitutiva del reato di cui all'art. 640, comma 2, n.1 c.p., prevista nell'art. 24 d.lgs. 231/2001, prevista tra quelle da cui deriva la responsabilità amministrativa dell'ente.

La truffa è reato in contratto, nel senso che la sua perfezione si ha nelle fase della trattativa, nella quale, la condotta di artifici e raggiri posta in essere, ha come conseguenza l'induzione in errore della parte lesa, in assenza della quale questa avrebbe concluso il contratto a condizioni diverse.

La conseguenza di tale condotta, ovvero l'ottenimento dell'ingiusto profitto, è condizione che si può perfezionare in più momenti cronologicamente distinti tra loro, come nel caso dei contratti sottoposti a condizione, ovvero in quelli nei quali l'esecuzione non si esaurisce in un unica prestazione.

Tale condivisibile interpretazione, trova giustificazione nel fatto che nei contratti ed esecuzione continuata o periodica, dopo il primo regolamento contrattuale, prestazioni e controprestazioni si articolano in periodi successivi, essendo le une conseguenziali alle altre, di tal che sono possibili condotte di artifici e raggiri, teleologicamente orientate ad ottenere prestazioni non dovute, o a far apparire come verificate certe condizioni.

Il fatto posto in essere a danno dello Stato o di altro ente pubblico, fa si che si perfezioni l'aggravante descritta nell'art. 640, comma 2, n.1 c.p., non potendosi però escludere, secondo le regole sul concorso di reati, che nelle stesse condotte sia ravvisabile anche altra diversa ipotesi delittuosa.

Infatti, oggetto di contestazione all'organo di rappresentanza delle società, non fondanti ipotesi responsabilità amministrativa dell'ente, vi erano anche condotte di “infedele esecuzione” nei contratti di pubbliche forniture.

La fattispecie di cui all'art. 356 c.p., frode nelle pubbliche forniture, non richiede ai fini della sua integrazione, a differenza del delitto di truffa, la condotta di artifici e raggiri, non essendo nemmeno necessaria l'induzione in errore con altrui danno, cosi come non è richiesto l'indebito profitto, quanto necessaria è invece una condotta connotata da “malizia”, ovvero una dissimulazione dell'aliud pro alio, che ha come conseguenza l'impossibilità per la controparte di opporre eccezioni, ovvero di variare magari in ribasso la propria controprestazione, non essendo comunque sufficiente a integrare la fattispecie, il mero inadempimento contrattuale, non connotato da condotte volte a trarre in inganno.

Non si vede d'altronde come, l'assenza di elementi quali il danno o il profitto nella fattispecie di Frode nelle pubbliche forniture, possa essere “degradata” a mero post factum della condotta caratterizzante la truffa, in base alle regole sul concorso di reati, per cui la ricorrenza di tali elementi, non può far altro che spingere a ritenere perfezionate entrambe le fattispecie, non essendo ravvisabile un concorso apparente di norme tra le due disposizioni in questione, per la cui soluzione sarebbe applicabile il principio di specialità contenuto nell'art. 15 c.p.

Per stabilire la ricorrenza di entrambe le fattispecie in questione è necessario verificare il momento nel quale la condotta di artifici e raggiri viene posta in essere, ovvero se essa è stata determinante alla stipula del contratto con la pubblica amministrazione, caso nel quale sarebbe ravvisabile la truffa aggravata, o invece, nei casi in cui la condotta fraudolenta si innesta nell'esecuzione del contratto di pubbliche forniture, in cui sarebbe ravvisabile il delitto di cui all'art.356 c.p.

Osservazioni

Le ipotesi delittuose contenute negli artt. 640, comma 2, n. 1 e 356 c.p., avendo diversa oggettività giuridica, possono concorrere tra loro in base alle regole sul concorso di reati.

La ricorrenza nel medesimo fatto delle due fattispecie è possibile in quanto, il delitto di truffa, (art. 640 c.p.) contiene in se elementi quali gli artifici e raggiri volti ad indurre in errore, che sono posti in essere nell'attuazione del regolamento contrattuale, determinanti il danno altrui, con indebito profitto del soggetto attivo.

Differentemente, nel delitto di frode nelle pubbliche forniture, (art. 356 c.p.) il regolamento contrattuale viene posto in essere in maniera regolare, essendo la condotta della frode perfezionativa del reato, posta in essere successivamente alla conclusione del contratto, o nel mancato adempimento degli obblighi contrattuali descritti nell'art. 355 c.p.

Va infine rilevato, che elementi quali gli artifici e raggiri che inducono in errore, e dai quali deriva l'altrui danno con indebito profitto della parte contraente privata, sono elementi del tutto estranei alla descrizione della fattispecie di cui all'art. 356 c.p., per cui ricorrendo questi nel fatto, non si può escludere l'integrazione di entrambe le figure criminose.

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