La condotta imperita del medico tra inosservanza delle linee guida e grado della colpa

26 Ottobre 2017

La sentenza in commento, con le sue sintetiche motivazioni, ha tuttavia affrontato due temi concernenti la colpa medica, per quanto qui interessa, arrivando ad un accenno anche ai principi posti dalla novella legislativa (c.d. legge Gelli), posto che la pronuncia si pone a cavallo tra la normativa applicabile nel tempus commissi delicti ed il successivo momento in cui detta normativa è stata abrogata.
Massima

L'insorgenza di un'infezione nosocomiale su pazienti a lungo ricoverati in reparti di terapia intensiva, non potendosi qualificare come rischio nuovo o imprevedibile, non integra una concausa o una causa sopravvenuta di per sé sufficiente ad interrompere il nesso eziologico tra la precedente condotta colposa del sanitario e l'evento morte.

L'inosservanza delle linee guida o delle buone pratiche clinico-assistenziali da parte del medico è elemento sufficiente ad escludere la non punibilità della condotta imperita del medico.

Il caso

S.V. era stato sottoposto a giudizio e ritenuto responsabile del reato di omicidio colposo, in quanto, avendo preso parte all'operazione chirurgica di riduzione di frattura nasale su una paziente, quale medico anestesista ospedaliero, aveva serbato una condotta complessiva ritenuta non conforme a quanto richiesto dalle linee guida in materia di anestesia, cagionando così la morte della paziente nei giorni successivi all'intervento per insufficienza cardiorespiratoria.

Nello specifico, subito dopo il termine dell'operazione chirurgica la parte offesa era stata colpita da encefalopatia ischemica, con conseguente stato comatoso e progressivo scadimento delle condizioni generali sino all'exitus, ditalchè era stata ricoverata nel reparto di rianimazione.

Le consulenze medico legali esperite nel corso del procedimento di primo grado, cui anche la Corte d'Appello si era poi attenuta, avevano consentito di individuare la causa dell'originaria ischemia, primo episodio della catena causale, in una carenza di ossigeno a livello cerebrale addebitabile ad una impropria condotta professionale dell'imputato che avrebbe mal presidiato le vie aeree della paziente. Più nello specifico i giudici del merito, nell'iter argomentativo delle due conformi sentenze di condanna, evidenziavano che, secondo le linee guida, l'anestesista avrebbe dovuto provvedere ad una adeguata ventilazione della paziente nel corso dell'operazione chirurgica, qualsiasi fosse stato il presidio sanitario utilizzato (nella specie, la “cannula di Guedel”), al fine di prevenire e scongiurare il pericolo di un'ostruzione dell'apparato oro-tracheale.

La Corte d'appello di Roma, nel confermare l'affermazione di responsabilità penale per colpa professionale in capo all'imputato, respingeva la richiesta della difesa appellante di rinnovazione parziale dell'istruttoria dibattimentale per esperire un confronto tra i vari consulenti tecnici, optando viceversa quel Collegio per la condivisibilità delle argomentazioni del C.T. della pubblica accusa. Su questa linea, la Corte distrettuale definiva la condotta dell'imputato come caratterizzata da grave negligenza ed escludeva altresì il carattere di causa di per sé sufficiente, ovvero di concausa determinante la morte, all'infezione contratta dalla parte offesa all'interno del reparto di terapia intensiva, presso cui la stessa era stata ricoverata dopo l'operazione chirurgica e fino all'exitus.

Avverso tale ultima sentenza, conforme a quella del Tribunale, ha proposto ricorso per cassazione la Difesa dell'imputato lamentando innanzitutto l'erroneità della mancata rinnovazione istruttoria, che avrebbe potuto portare eventualmente ad una diversa conclusione la Corte d'appello, anche con riferimento alla pretesa rilevanza causale decisiva dell'infezione nosocomiale subentrata dopo l'intervento chirurgico.

Inoltre, secondo la Difesa del ricorrente, la motivazione della Corte territoriale sarebbe stata inadeguata laddove non aveva preso in considerazione che l‘esistenza di un'eventuale concausa, individuata nell'infezione di cui si è detto, avrebbe consentito di ritenere integrata in capo all'imputato una condotta caratterizzata da colpa lieve, con conseguente declaratoria di non punibilità dell'imputato, in applicazione dell'art. 3 d.l. 158/2012 (conv. in l. 189/2012).

La Corte di cassazione, con la sentenza in esame, nel rigettare il ricorso difensivo poggiante su tesi definite talora puramente congetturali, talaltra semplicemente infondate, ha offerto spunti di riflessione in tema di responsabilità sanitaria di cui vale la pena dar conto, stante l'attualità della materia di recente fatta oggetto di riforma con l. 8 marzo 2017, n. 24.

La questione

La sentenza in commento, con le sue sintetiche motivazioni, ha tuttavia affrontato due temi concernenti la colpa medica, per quanto qui interessa, arrivando ad un accenno anche ai principi posti dalla novella legislativa (c.d. legge Gelli), posto che la pronuncia si pone a cavallo tra la normativa applicabile nel tempus commissi delicti ed il successivo momento in cui detta normativa è stata abrogata.

La prima questione sostanziale che il Supremo Collegio affronta è quello della causa sopravvenuta, che sia idonea ad interrompere il nesso causale tra condotta ed evento, ovvero che possa integrare, in ipotesi, una concausa della condotta colposa contestata. La risposta della Cassazione nel caso che ne occupa si inserisce nel solco ormai tracciato dalla giurisprudenza di legittimità in più decisioni, concernenti, in via generale, il concetto di causa sopravvenuta di per sé sufficiente a determinare l'evento, come previsto dall'art. 41 cpv. c.p. Secondo la consolidata interpretazione della Corte di legittimità, tale causa è integrata da quei fattori che si rivelano del tutto eccezionali rispetto a ciò che è ipotizzabile, comunque indipendenti dalla condotta dell'imputato, connotanti nel complesso un processo non completamente avulso dall'antecedente, e tuttavia caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.

Sui requisiti di eccezionalità, atipicità ed imprevedibilità (o meglio: sulla mancanza degli stessi) la sentenza in esame respinge dunque la tesi del ricorrente, secondo cui all'infezione nosocomiale insorta nel corso della degenza della parte offesa nel reparto di terapia intensiva, dovesse riconoscersi la natura di causa unica e definitiva della morte della paziente. Non si tratta, in buona sostanza, di un «rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta», ovverosia quella contestata a titolo di colpa all'imputato, e ciò in quanto l'insorgenza di un'infezione nel corso della degenza ospedaliera, soprattutto nel reparto di terapia intensiva, pur non essendo addebitabile al singolo medico, costituisce tuttavia un'evenienza che deve essere sempre tenuta presente come possibile dal sanitario, sia per l'ambiente soggetto a tali rischi, sia per la condizione fisica fortemente debilitata dei pazienti ivi ricoverati.

Altra questione rilevante che viene in esame nello sviluppo delle motivazioni della sentenza in oggetto, concerne più direttamente la condotta colposa, tipo e grado della stessa, che secondo la tesi della ricorrente difesa avrebbe dovuto correttamente, a tutto voler concedere, essere inquadrata come colpa lieve, con conseguente necessaria declaratoria di non punibilità penale del medico, in applicazione della previsione contenuta nell'art. 3 d.l. 158/2012 (c.d. decreto Balduzzi).

La Corte ha affrontato tale questione con il negare che sia ravvisabile la colpa lieve nella fattispecie in esame, innanzitutto chiarendo il contenuto della condotta dell'imputato ritenuta colposa dai giudici di merito; ciò non senza ragione, posto che non era in discussione la scelta operata dall'anestesista riguardante il presidio utilizzato (cannula di Guedel o tubo oro-tracheale), bensì più precisamente il non aver assicurato alla paziente una continua e sufficiente ossigenazione, oltretutto per un tempo prolungato. Rispetto a tale condotta, la sentenza osserva due cose: la prima è che essa era stata già definita, dalla sentenza d'appello qui confermata, come integrante grave negligenza dell'imputato, e tale definizione viene ritenuta corretta e ben motivata. La seconda nota che pone il Collegio di legittimità è che la condotta dell'imputato ricorrente si è dimostrata essere comunque al difuori delle linee guida o alle buone pratiche cliniche concernenti la materia; questo solo fatto, di per sé e a fortiori, induce ad escludere che si possa riconoscere la causa di non punibilità prevista in allora dalla legge invocata (art. 3 decreto Balduzzi).

Il ragionamento della Corte di cassazione si estende poi ad un riferimento, seppur marginale e di chiusura, all'art. 590-sexies c.p., così come introdotto dalla novella ex l. 24/2017, per osservare che lo scollamento della condotta del medico dalle linee guida avrebbe imposto comunque e di per sé sola l'affermazione di responsabilità penale colposa in relazione alla condotta contestata, che correttamente andrebbe qualificata come caratterizzata da imperizia (in luogo di “negligenza”, come invece deciso dai giudici territoriali).

Le soluzioni giuridiche

Così riepilogata ed illustrata la vicenda processuale nel suo complesso, val la pena porre il fuoco su alcuni aspetti analizzati dalla sentenza in esame.

Per quanto concerne, in primis, il nesso causale tra azione colposa ed evento, con particolare riferimento all'interruzione dello stesso ad opera di cause sopravvenute, l'aver evocato, da parte del Supremo Collegio, l'orientamento prevalente assunto dalla giurisprudenza di legittimità in tema di causa di per sé sufficiente a determinare l'evento morte lascia tuttavia aperta una questione, che sta in ciò: se da un lato è ben vero che, alla luce dei dati di esperienza, l'infezione nosocomiale subentrata nel ricovero post-intervento non si connota come fatto imprevedibile ed eccezionale, neppure può sottacersi che tale accadimento non è imputabile al medico anestesista che abbia partecipato all'intervento, né dallo stesso in alcun modo evitabile. E ciò indipendentemente dal fatto che la condotta del suddetto medico sia connotata da colpa professionale.

In altri termini, a parere di chi scrive il problema che qui rimane scoperto e senza esaustiva risposta è quello della rimproverabilità all'imputato per un'evenienza successiva al suo intervento professionale: la sentenza in commento, insomma, pare qui accontentarsi di affermare che la sopravvenuta infezione nosocomiale fosse prevedibile per inserirla, solo in virtù di questa prevedibilità, nella catena causale che lega la condotta del medico alla morte del paziente. E tuttavia, a fronte della prospettazione dell'ipotesi che l'infezione menzionata abbia potuto, di per sé sola, cagionare l'evento, non appare esaustivo soffermarsi sulla sua prevedibilità per negarle in radice la qualifica di causa definitiva della morte.

In buona sostanza, pare potersi osservare che, nella fattispecie che ne occupa, condotta colposa e infezione nosocomiale restano due fattori tra loro del tutto scollegati ed indipendenti, ed il ragionamento sviluppato nelle motivazioni non convince della sostanziale infondatezza della doglianza, sul punto, del ricorrente.

Diverso è, invece, il discorso circa la richiesta difensiva di qualificare l'infezione come causa concorrente con la precedente condotta colposa del medico. La pretesa conseguenza cui perviene la Difesa dell'imputato, secondo cui dal riconoscimento di una concausa conseguirebbe automaticamente l'inquadramento della condotta sanitaria nella colpa lieve,non ha alcun pregio e, come tale, correttamente è stata disattesa dalla Cassazione. È del tutto evidente, infatti, che il grado della colpa non può essere confuso con la percentuale nella quale, in ipotesi di concausa, la condotta abbia inciso sulla determinazione dell'evento. Il grado della colpa sanitaria dipende dal livello di inosservanza delle regole della professione medica, di talché più grave è la colpa quanto più ragguardevole è tale scollamento.

Non è revocabile in dubbio, perciò, che un'ipotetica condotta medica connotata da ignoranza crassa o da noncuranza, costituisce colpa grave anche in presenza di una o più concause nella determinazione dell'evento dannoso.

Dall'osservazione sul grado della colpa è agevole passare a sviluppare qualche riflessione sull'altro punto focale della sentenza, ovverosia l'applicabilità o meno della causa di non punibilità, così come prevista dall'art. 3 del c.d. decreto Balduzzi, vigente nel tempo di consumazione del reato per cui è processo. Correttamente la Suprema Corte chiude con un raffronto tra quella disciplina e la nuova previsione normativa portata dall'art. 590-sexies, comma 2, c.p., ponendosi la decisione a cavallo tra le due norme: la conclusione è che neppure sotto l'impero della novella portata con la l. 24/2017 (c.d. Legge Gelli) sarebbe possibile riconoscere a favore dell'imputato ricorrente l'esclusione di punibilità che esso invocava. La premessa principale per giungere a questa conclusione è il rilievo che la condotta serbata dal medico anestesista, così come contestata, si poneva al difuori delle raccomandazioni fissate nelle linee guida e dalle migliori indicazioni cliniche, e questo fatto porta a due conseguenze: da un lato impedisce di riconoscere la colpa “lieve” che era richiesta espressamente dall'(ora abrogato) art. 3 d.l. 158/2012. Si aggiunge, nella sentenza, che il corretto inquadramento della condotta in esame sarebbe quello dell'imperizia, in luogo della grave negligenza postulata dai giudici del merito (si osservi, tuttavia, che solo poche righe prima la stessa sentenza richiamava proprio quella definizione, che poi ritiene erronea, in quanto confacente al suo iter argomentativo!).

Dall'altro lato, l'inquadramento della colpa nella categoria dell'imperizia consente al Supremo Collegio di negare la non punibilità anche alla luce della previsione contenuta nel citato art. 590-sexies, comma 2, c.p., che ne fa espresso riferimento letterale.

Le conclusioni cui perviene la sentenza sono condivisibili e pongono in luce questi elementi: a) l'art. 3 decreto Balduzzi non poneva alcuna distinzione tra categoria della colpa (imperizia, negligenza, imprudenza) ma richiedeva solo il grado della colpa (lieve) ed il rispetto delle linee guida; b) l'art. 590-sexies c.p., come introdotto dalla riforma di cui alla legge Gelli, viceversa non fa alcun riferimento al grado della colpa, mentre pone come condizioni di applicabilità il rispetto delle linee guida e che si verta nell'ambito esclusivo dell'imperizia.

Dal raffronto delle due norme ciò che si può dedurre è che la trave portante comune è costituita dalle linee guida o dalle migliori pratiche clinico-assistenziali: è l'adesione a queste che vale, per il legislatore, a collocare la condotta sanitaria necessariamente nell'ambito della categoria della perizia ed a superare la distinzione, in via interpretativa, tra colpa lieve e colpa grave. La aderenza alle linee guida o alle raccomandazioni cliniche definisce i confini della “perizia” del medico, mentre la violazione di tali indicazioni costituisce colpa penalmente rilevante, senza la necessità per l'interprete di valutarne il grado.

Osservazioni

Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione per la prima volta pone a confronto, seppur in chiusura di motivazione, le due norme succedutesi in tema di non punibilità della colpa medica. Le differenti formulazioni che qui emergono, consentono di comprendere bene la ratio legislativa, che da un lato ha preso posizione rispetto ai più recenti sviluppi giurisprudenziali che, via via, si erano attestati ad interpretare l'art. 3 decreto Balduzzi, il cui testo era generico sul punto, nel senso che esso fosse riferibile non solo all'imperizia, bensì anche alla negligenza ed all'imprudenza (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 22 novembre 2016, n. 8080); dall'altro, ha eliminato la necessità di un'indagine processuale sul grado della colpa, rendendolo insito nella stessa osservanza o inosservanza delle linee guida o delle raccomandazioni cliniche.

Siamo di fronte ad una riforma che, su questo punto, è certamente più chiara negli intenti perseguiti e, perciò, prevedibilmente meno suscettibile di alterni arresti giurisprudenziali.

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