Legge - 13/04/1988 - n. 117 art. 3 - Diniego di giustizia.Diniego di giustizia. 1. Costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria. Se il termine non è previsto, debbono in ogni caso decorrere inutilmente trenta giorni dalla data del deposito in cancelleria dell'istanza volta ad ottenere il provvedimento. 2. Il termine di trenta giorni può essere prorogato, prima della sua scadenza, dal dirigente dell'ufficio con decreto motivato non oltre i tre mesi dalla data di deposito dell'istanza. Per la redazione di sentenze di particolare complessità, il dirigente dell'ufficio, con ulteriore decreto motivato adottato prima della scadenza, può aumentare fino ad altri tre mesi il termine di cui sopra. 3. Quando l'omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell'imputato, il termine di cui al comma 1 è ridotto a cinque giorni, improrogabili, a decorrere dal deposito dell'istanza o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale. InquadramentoAlla figura del diniego di giustizia è dedicato un intero articolo (art. 3), il quale non è stato oggetto di alcun intervento riformatore da parte del Legislatore del 2015. La relativa fattispecie è quindi definita e regolata autonomamente rispetto al dolo ed alla colpa grave, pur essendo menzionata accanto a tali ipotesi nel comma 1 dell'art. 2, nonostante la intitolazione di tale norma, dedicata solo alla «responsabilità del dolo e colpa grave». Il diniego di giustizia si caratterizza per i suoi connotati oggettivi, in quanto è integrato dal mero trascorrere del termine indicato dalla norma senza che venga emesso il provvedimento richiesto dalla parte (trenta giorni dal deposito dell'istanza, salve ulteriori proroghe concesse per non più di due volte dal dirigente dell'ufficio, sino ad un massimo di complessivi sei mesi e con l'eccezione dei casi concernenti la libertà personale, soggetti a termini molto brevi e non prorogabili). Ciò vale con riguardo sia alle ipotesi in cui il diniego di giustizia venga posto a fondamento di una richiesta risarcitoria azionata dal privato nei confronti dello Stato, sia con riferimento ai casi di rivalsa esercitata da quest'ultimo nei confronti del magistrato. Il diniego di giustizia infatti, da un lato rientra tra quei casi di responsabilità per i quali l'art. 7 prevede l'obbligatorietà dell'azione di rivalsa, essendo equiparato a tali effetti alla colpa grave per violazione manifesta della legge o del diritto dell'Unione Europea ed per il travisamento del fatto o delle prove, ma da queste ultime si distingue perché solo per il diniego di giustizia l'art. 7 non richiede, ai fini della affermazione della responsabilità del magistrato in sede di rivalsa, anche la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo o della negligenza inescusabile. L'ipotesi di cui si discorre, inoltre, costituisce l'unica ipotesi di responsabilità che, sicuramente e senza dubbi interpretativi di sorta, resta oggi coperta dalla c.d. clausola di salvaguardia, in quanto non compresa nell'incipit della relativa disposizione, che fa salvi «i commi 3 e 3-bised i casi di dolo», ma non anche l'art. 3, relativo, appunto, al diniego di giustizia. V'è da dire, però, che l'area di operatività della clausola di salvaguardia, con riferimento alla figura del diniego di giustizia, risulta molto ristretta, stante la connotazione eminentemente omissiva della fattispecie costitutiva della responsabilità: invero, se il provvedimento non è stato emesso, normalmente significherà che non è stata svolta alcuna attività interpretativa o valutativa, salvo che il «silenzio provvedimentale» possa essere inteso quale espressione di una valutazione discrezionale del giudice in relazione alla peculiarità del caso sottoposto al suo esame. La responsabilità prevista dall'art. 3 della legge n. 117/1988non deve essere confusa o sovrapposta con la disciplina in tema di equa riparazione per l'irragionevole durata dei processi. Apparentemente le due ipotesi potrebbero sembrare sovrapponibili qualora l'ingiustificato ritardo sia imputabile ad una condotta omissiva del magistrato, suscettibile di integrare l'ipotesi di diniego di giustizia di cui all'art. 3 in esame. Tuttavia i due impianti normativi sono molto diversi, convivendo solo la loro impostazione di fondo, che è quella di consentire al cittadino un'azione diretta contro lo Stato–giudice, e non anche nei confronti del magistrato persona fisica cui sia eventualmente imputabile il ritardo. Per il resto, si tratta di rimedi che sono nettamente distinti nei presupposti, nella natura giuridica e nelle conseguenze che ne derivano, essendo l'azione ex art. 3 della legge n. 117/1988 a carattere risarcitorio, mentre l'equa riparazione prevista dalla legge n. 89/2001 ha, almeno secondo la dottrina prevalente, natura indennitaria. Quanto ai presupposti, la fattispecie del diniego di giustizia può venire in rilievo solo negli specifici casi in cui sussista uno specifico obbligo di compiere una attività e/o depositare un provvedimento entro un termine prefissato; affinché detta ipotesi, ravvisabile in gran parte dell'attività richiesta ai magistrati giudicanti, integri la fattispecie del diniego di giustizia è necessaria la presentazione da parte dell'interessato di specifica istanza di messa in mora (Trib. Genova, 10 novembre 2018, n. 2872). Le Sezioni Unite hanno precisato che n tema di danno erariale, per configurare in capo ad un magistrato, oltre alla responsabilità disciplinare, una responsabilità contabile da disservizio derivante dall'inosservanza dei termini per il deposito dei provvedimenti, occorre un " quid pluris " rispetto al mero ritardo (seppure reiterato, grave e ingiustificato) e, cioè, un danno aggiuntivo di carattere patrimoniale, insito nella condanna dello Stato al pagamento dell'indennizzo a titolo di equa riparazione per irragionevole durata o al risarcimento per diniego di giustizia, oppure il mancato collegamento tra il potere esercitato ed il fine istituzionale che l'ordinamento attribuisce ad esso, configurabile ogniqualvolta il ritardo si traduca in un reato (rifiuto od omissione di atti d'ufficio) o si risolva in un sostanziale mancato svolgimento della prestazione lavorativa, con conseguente rottura del rapporto sinallagmatico attinente alla retribuzione del magistrato stesso (Cass. n. 2370/2023).
Omesso provvedimento su istanza di emissione di decreto inaudita altera parte nel procedimento civileLa casistica giurisprudenziale in tema di azione di responsabilità per diniego di giustizia è molto rara, non avendo trovato l'istituto significativa applicazione La Suprema Corte di cassazione ha, tuttavia, avuto occasione di occuparsi di tale ipotesi in un caso in cui il magistrato, investito d'un ricorso per sequestro conservativo,anziché provvedere sulla richiesta di emissione del provvedimento inaudita altera parte, aveva direttamente fissato l'udienza per la comparizione delle parti e da ciò era derivato un danno all'istante per avere il debitore, nelle more tra la notifica del ricorso e la concessione del sequestro, disperso ed occultato i beni che avrebbero dovuto formare oggetto dell'invocato sequestro. Un tale provvedimento, che si era concretizzato nella fissazione dell'udienza senza alcuna motivazione sulla mancata concessione del decreto invocato dall'istante, secondo la Cassazione è frutto di una scelta discrezionale del giudicante e, come tale, se tempestivamente adottato, non può dar luogo a responsabilità del medesimo sotto il profilo del diniego di giustizia ex art. 3, comma 1, della legge n. 117 del 1988 (Cass. n. 7038/2012). Il diniego di giustizia e l'art. 328 c.p.L'illecito civile per diniego di giustizia deve poi essere coordinato con l'art. 328 c.p. il quale, a seguito della modifica di cui all'art. 16 l. n. 86/1990, non contiene più la specifica ipotesi di omissione, rifiuto o ritardo dell'atto di ufficio da parte del magistrato prevista, invece, nel testo vigente all'epoca dell'emanazione della legge Vassalli, risultando così eliminata ogni distinzione tra l'illecito compiuto del magistrato e quello realizzato dagli altri pubblici ufficiali: tale modifica aveva indotto una parte della dottrina a ritenere che la nuova formulazione dell'art. 328 c.p. avesse implicitamente abrogato l'art. 3 della l. 117 del 1988 e quindi soppresso la figura del «diniego di giustizia» dal novero delle ipotesi costituenti fonte di responsabilità civile dello Stato e, in via di rivalsa, del magistrato. In proposito la Suprema Corte, ponendo fine al dibattito dottrinario apertosi sulla questione, ha chiarito che la norma speciale di cui all'art. 3 della l. n. 117 /1988 non può ritenersi abrogata dalla nuova formulazione dell'art. 328 c.p., solo perché è scomparsa in questo la specifica disposizione per i magistrati; piuttosto, le due normative devono essere tra loro coordinate onde stabilire, avuto riguardo alla struttura del reato di rifiuto di atti di ufficio, la disciplina applicabile in relazione alla specificità delle diverse situazioni. In particolare, la Corte ha affermato che: a) ai sensi dell'art. 328 c.p., l'indebito rifiuto da parte del giudice di provvedimento qualificato indifferibile (comma 1) integra di per sé il concetto di denegata giustizia e non necessita, pertanto, della previa istanza di parte di cui all'art. 3 della legge n. 117/1998: ciò non implica una l'anticipazione della soglia di tutela penale rispetto a quella civile, posto che la responsabilità civile in questo caso, in quanto connessa a fatto costituente già di per sé reato, è regolata dalle norme ordinarie (art. 13, l. n. 117/1988); b) il mancato compimento dell'atto senza esporre le ragioni dell'omissione per oltre trenta giorni dalla richiesta (messa in mora di cui al comma 2) assume rilievo penale solo nel momento in cui, integrati tutti i requisiti posti dalla legge speciale e perfezionatosi il diniego di giustizia ex art. 3 l. n. 117/1988, sia inutilmente decorso il termine di trenta giorni dalla messa in mora, attivata dopo la scadenza dei termini previsti per il compimento dell'atto, unica ipotesi questa in cui sussiste un rapporto di presupposizione necessaria tra l'art. 3 della legge n. 117/1998 e l'art. 328, comma 2, c.p. (Cass. pen. n. 7766/2002). Il diniego di giustizia e la responsabilità disciplinare per ritardo nel deposito di provvedimentiNel caso in cui si configuri il diniego di giustizia sussisterà sempre anche una responsabilità disciplinare del magistrato che sia incorso nel ritardo nel deposito del relativo provvedimento, atteso che in sede disciplinare la Suprema Corte, pur ritenendo che possa essere esclusa la responsabilità del giudice per i ritardi nel deposito di provvedimenti giudiziari quando siano allegate cause di giustificazione pregnanti, oggettive ed idonee a contrastare la contestazione, subordina però l'operatività di siffatte cause di giustificazione alla circostanza che i ritardi non siano talmente prolungati, reiterati e sistematici da superare la soglia della ragionevolezza e della giustificabilità e da concretare un diniego di giustizia con conseguente lesione del prestigio dell'ordine giudiziario (Cass. S.U., n. 528/2012). 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