Legge - 13/04/1988 - n. 117 art. 19 - Entrata in vigore.Entrata in vigore. 1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. 2. La presente legge non si applica ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato, nei casi previsti dagli articoli 2 e 3, anteriormente alla sua entrata in vigore1. [1] La Corte costituzionale, con sentenza 22 ottobre 1990, n. 468, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui, quanto ai giudizi di responsabilità civile dei magistrati, relativamente a fatti anteriori al 16 aprile 1988, e proposti successivamente al 7 aprile 1988, non prevede che il Tribunale competente verifichi con rito camerale la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità. InquadramentoL'art. 19, rimasto invariato dall'epoca di emanazione della legge Vassalli nella sua originaria formulazione, non è in realtà più attuale, in quanto attiene all'entrata in vigore della legge come varata nel 1988, in relazione alla quale, peraltro, si limitava a riaffermare il principio di irretroattività, dettato dall'art. 11 delle disp. prel. c.c., senza prevedere alcuna disciplina transitoria. Tuttavia, la norma interessa ancora oggi sotto due profili: in primo luogo perché, proprio l'assenza di una disposizione transitoria che regolasse un meccanismo di «filtro» per l'ammissibilità dell'azione ha offerto alla Corte costituzionale l'occasione per pronunciare una interessante sentenza che, alla luce della successiva soppressione dell'art. 5 ad opera del legislatore del 2015, costituisce un punto di partenza per valutare la costituzionalità del nuovo assetto processuale della materia; in secondo luogo perché offre uno spunto di riflessione sulla novella del 2015, la quale, non prevedendo a sua volta alcuna disciplina transitoria, pone alcuni problemi relativi al regime intertemporale applicabile alle nuove disposizioni che, dal 19 marzo 2015 (data di entrata in vigore della legge. n. 18/2015). In particolare, è necessario chiarire se le nuove disposizioni siano immediatamente applicabili anche ai processi in corso al momento dell'entrata in vigore della l. n. 18/2015, oppure valgano solo per i giudizi introdotti successivamente. In tale seconda ipotesi si dovrà altresì stabilire se le nuove norme si applichino a tutti i processi introdotti a decorrere dal 19 marzo 2015, indipendente dall'epoca in cui sono stati compiuti gli atti o fatti ai quali si riferiscono, ovvero solo a quei processi instaurati per fatti illeciti posti in essere successivamente alla detta data. In linea generale, nel nostro ordinamento vige il principio di irretroattività della legge sopravvenuta, espresso nell'art. 11 disp. prel. c.c. («la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo»), il quale, tuttavia, richiede alcune precisazioni. Riguardo alle norme di natura sostanziale, il principio di irretroattività della legge comporta, secondo la giurisprudenza attualmente consolidata, che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente e ancora in vita se, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali o future di esso. Applicando tale principio alla disciplina di cui si discorre, le norme di carattere sostanziale introdotte dalla l. n. 18 del 2015 non potranno retroattivamente essere applicate a tutti i fatti consumati in data anteriore al 19 marzo 2015, e quindi nella vigenza del precedente regime. Per quanto riguarda le norme processuali, devono essere tenute in considerazione quelle opinioni dottrinarie secondo le quali la stessa economia dei giudizi gioca nel senso che l'assetto predisposto in considerazione di un certo modus procedendi non debba tendenzialmente essere sconvolto da norme sopravvenute, che rimettono inevitabilmente in discussione l'unità e la coerenza dell'intera attività processuale, cioè l'unità e la coerenza dell'attività processuale già svolta con quella futura. Si può esprimere questo nuovo principio di diritto intertemporale con una parafrasi del vecchio brocardo tempus regit actum, precisando che l'actus è quell'actus trium personarum in cui consiste l'intero processo (o quanto meno il singolo grado di giudizio): tempus regit processum (Caponi, 449). In conclusione si pone il problema di verificare se ai processi introdotti nel vigore del regime previgente sia o meno ancora applicabile il giudizio preventivo di ammissibilità, nonché, sotto altri profili, quali siano, per le cause introdotte successivamente al 19 marzo 2015 ma per fatti compiuti in epoca anteriore, le fattispecie di colpa grave di riferimento, la durata del termine decadenziale (biennale o triennale), il regime dell'azione di rivalsa, ecc. Alcune di tali questioni sono state già affrontate e risolte dalla Suprema Corte. La sentenza della Corte costituzionale n. 469/1990Poco dopo l'entrata in vigore della legge Vassalli, fu proposta la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19 della stessa l. n. 117/1988, fondata sul rilievo che tale norma, avendo stabilito l'irretroattività della nuova disciplina, non aveva previsto alcun meccanismo di «filtro» per quei giudizi che, essendo stati proposti dopo l'abrogazione dell'art. 56 c.p.c. (che subordinava l'azione all'autorizzazione ministeriale) a seguito del referendum del 1987 (con effetti dal 7 aprile 1998, ex art. 2 l. n. 332/1987) e prima dell'entrata in vigore della legge Vassalli (16 aprile 1988), si collocavano in un periodo temporale nel quale non operava alcun tipo di vaglio preventivo dell'azione di responsabilità civile. La risposta della Corte costituzionale fu nel senso di dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 19, comma secondo, nella parte in cui, quanto ai giudizi di responsabilità civile dei magistrati, relativamente a fatti anteriori al 16 aprile 1988, e proposti successivamente al 7 aprile 1988, non prevedeva che il Tribunale competente verifichi con riti camerale la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità. In sostanza, si trattava di una pronuncia additiva che introduceva un filtro laddove mancava. In particolare, la Consulta, dopo aver ricordato di aver già ribadito (il riferimento è alle sentenze: Corte cost. n. 2 del 1968 e Corte cost. n. 26/1987, sopra menzionate), anche in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, la indispensabilità di un «filtro» a garanzia della indipendenza e autonomia della funzione giurisdizionale, osservava che la mancata previsione nel contesto dell'art. 19 l. n. 117/1988, di una norma a tutela dei valori di cui agli artt. 101 a 113 Cost. determinava un vulnus, prima ancora che dei suddetti parametri, del principio di non irragionevolezza implicato dall'art. 3 della Costituzione. Invero, si legge nella motivazione di tale sentenza, che un meccanismo di «filtro» della domanda giudiziale, diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, assume rilievo costituzionale perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 della Costituzione nel più ampio quadro di quelle condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati che la peculiarità delle funzioni e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono. La Consulta concludeva, pertanto, affermando che l'art. 19 andava dichiarato incostituzionale per un equo bilanciamento degli interessi giustapposti, della indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale e della giustizia da rendersi al cittadino per danni derivantigli dall'esercizio di quella funzione (Corte cost. n. 468/1990). Alcune questioni di regime intertemporale della legge n. 18/2015La Suprema Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui non contempla una norma transitoria che consenta l'applicazione del novellato art. 2, in punto di «violazione manifesta della legge», anche a fatti illeciti commessi in precedenza. Ciò in quanto una tale disposizione, ad avviso della Corte, si tradurrebbe in una norma retroattiva incidente su condotte, fonte di responsabilità, già esaurite, la quale porrebbe essa stessa seri problemi di compatibilità costituzionale sotto plurimi profili (artt. 3, 24, 111 Cost., nonché artt. 117, primo comma, Cost. e 6 CEDU), posto che si verrebbero a sanzionare comportamenti che la legge non considerava illeciti al tempo in cui il soggetto ha agito (Cass. n. 6810/2016). In linea generale, rileva il principio già in precedenza affermato dalla Suprema Corte con riferimento a casi diversi dalla disciplina in materia di responsabilità civile dello Stato e dei magistrati per danni derivanti dall'esercizio dell'attività giudiziaria, secondo il quale la legge nuova è applicabile ai fatti, agli «status» e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (Cass. n. 16620/2013). Riguardo al regime intertemporale del filtro di ammissibilità, dopo alcune incertezze della giurisprudenza di merito, la Cassazione ha affermato che la sopravvenuta abrogazione della disposizione di cui all'art. 5 l. n. 117/1988, per effetto dell'art. 3, comma 2, l. n. 18/2015, non esplica efficacia retroattiva, onde l'ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie deve essere delibata alla stregua delle disposizioni processuali vigenti al momento della sua proposizione (Cass. n. 25216/2016; conf. Cass. n. 932/2017). Con riguardo alla disciplina del termine decadenziale applicabile nei casi in cui l'originario e più breve termine (biennale) fissato dall'art. 4 della l. n. 117 del 1988 non fosse ancora spirato al momento di entrata in vigore della l. n. 18/2015, e quindi al 19 marzo 2015, ci si è chiesti se debba o meno applicarsi il nuovo termine triennale. In proposito si è osservato che il concetto di «fatti consumati» implica, ai fini processuali, l'esperimento di tutti i mezzi di impugnazione, posto che è da tale data che inizia a decorrere il termine decadenziale (ora elevato da due a tre anni) per la proposizione dell'azione di responsabilità civile nei confronti dello Stato; ne segue che la nuova disciplina troverà applicazione, con riguardo ai provvedimenti giurisdizionali, solo quando il termine per l'esaurimento dei mezzi ordinari di impugnazione non sia ancora completato alla data del 19 marzo 2015. In caso contrario s'applicherà la precedente disciplina sia con riguardo al termine decadenziale (biennale) sia con riguardo alla proposizione della domanda con il suo esame attraverso il filtro di ammissibilità dell'azione. Tale regime riguarderà anche il caso in cui il provvedimento, che si assume lesivo di diritti altrui, sia passato in giudicato anteriormente al 19 marzo 2015 o i comportamenti che si reputano illeciti, siano stati posti in essere prima di detta data, ma non sia del tutto decorso il termine decadenziale biennale: il fatto che la legge sia entrata in vigore mentre la decorrenza di quel termine era in corso non comporta la proroga di esso (Genovese, 2015). Per quanto riguarda la nuova disciplina della rivalsa, ed in particolare la sua obbligatorietà come oggi prevista dall'attuale art. 7 della l. 117/1988, si è osservato che essa non sarà applicabile a fatti commessi anteriormente al 19 marzo 2015, e ciò non solo perché si tratta di norma avente carattere ed effetti sostanziali, ma anche perché tale norma è stata costruita dal legislatore del 2015 in stretto collegamento con le «nuove» fattispecie di responsabilità e con il diverso assetto dell'intera disciplina della responsabilità (non più strutturata su una perfetta corrispondenza tra la responsabilità diretta dello Stato verso il cittadino e la responsabilità, in sede di rivalsa, del giudice nei confronti dello Stato), sicché una applicazione della nuova disciplina dell'obbligatorietà della rivalsa anche a fatti posti in essere nel previgente regime, e da quest'ultimo disciplinati quanto ai profili sostanziali, risulterebbe incompatibile con la lettera e la ratio della nuova disposizione dell'art. 7, oltre che incongruente e contraria al principio di irretroattività della legge (D'Ovidio, 161). 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