Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.Risarcimento per fatto illecito. [I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.] 12.
[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209. [2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24. InquadramentoNel discorrere di diritto alla salute occorre muovere dall'art. 32 Cost., il quale, nei suoi due commi, stabilisce per un verso che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti e, per altro verso, che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, aggiungendo che neppure la legge può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. La norma si occupa dunque simultaneamente di una pluralità di aspetti: si riferisce, infatti, tanto al diritto all'integrità psicofisica, quanto al diritto alle prestazioni sanitarie, alle cure gratuite per gli indigenti, e a non ricevere trattamenti sanitari non voluti se non quelli di carattere obbligatorio. Questa disposizione, poi, è espressione dei principi fondamentali racchiusi degli artt. 2 e 3 Cost., l'uno posto a presidio dei diritti inviolabili dell'uomo, l'altro concernente il principio di uguaglianza sostanziale. Ricollegandosi a quest'ultimo, l'art. 32 Cost., collocato nel titolo dei rapporti etico-sociali, pone, nel tutelare la salute, un diritto sociale, ossia una pretesa positiva nei confronti del potere pubblico ad ottenere prestazioni sanitarie, ed è perciò espressione della concezione sociale dello Stato che anima la Costituzione della Repubblica. Fra i vari diritti sociali che la Costituzione riconosce, il diritto alla salute merita una particolare attenzione, sia perché tutela un bene di rilievo primario, sia perché è stato oggetto di un sistema complesso ed organizzato di attuazione, del quale le prestazioni sanitarie costituiscono soltanto una parte: si pensi, infatti, al rilievo che possiedono, ai fini della tutela della salute, le disposizioni in tema di inquinamento ovvero di divieti o imposizione di vincoli concernenti la commercializzazione di determinati prodotti. Tuttavia, non v'è dubbio che, dal punto di vista pubblicistico, il concetto di diritto alla salute debba essere riguardato anzitutto come diritto alle prestazioni sanitarie: diritto che si riflette nell'obbligo per le istituzioni di assicurare adeguate prestazioni sanitarie, assistenziali e di prevenzione, coerentemente al mandato sociale caratterizzante il nostro ordinamento. È agevole rammentare, con riguardo alla norma costituzionale, come, da un'impostazione che riconosceva ad essa natura meramente programmatica si è passati a qualificare il diritto alla salute come diritto incondizionatamente assoluto (Corte cost. n. 202/1991; Corte cost. n. 559/1987) In seguito si è detto che il diritto alla salute (inteso come diritto alle prestazioni sanitarie) è finanziariamente condizionato, nel senso che esso, per quanto attiene al funzionamento del servizio sanitario, deve essere oggetto di bilanciamento con altri interessi (segnatamente quello al contenimento della spesa pubblica desumibile dall'art. 97 Cost.) dotati pure essi di protezione costituzionale (Corte cost. n. 304/1994; Corte cost. n. 218/1994; Corte cost. n. 247/1992; Corte cost. n. 455/1990; Corte cost. n. 432/2005). E tuttavia la Corte costituzionale, in controtendenza rispetto a quest'ultimo indirizzo, ha anche affermato che la selezione e il contemperamento degli interessi rilevanti non deve pregiudicare il «nucleo irrinunciabile» del diritto alla salute: il che sta a significare che, se non tutte le prestazioni possono essere erogate a tutti dal Servizio sanitario nazionale, vi è nondimeno una soglia minima di prestazioni che occorre garantire indipendentemente dai costi poiché, altrimenti, lo stesso bene salute costituzionalmente garantito, inteso nel senso che si è detto, ne verrebbe compromesso (Corte cost. n. 432/2005; Corte cost. n. 233/2003; Corte cost. n. 252/2001; Corte cost. n. 509/2000; Corte cost. n. 309/1999; Corte cost. n. 267/1998). Il riconoscimento pieno del diritto alla tutela della salute, come diritto ad adeguate prestazioni sanitarie, si è in particolare realizzato attraverso la l. n. 833/l 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, legge che mirava a garantire globalmente l'effettuazione delle prestazioni sanitarie senza limiti di spesa. Prima di tale legge l'intervento sanitario era affidato ad un sistema di assicurazione obbligatoria gestito da enti pubblici, le mutue, sottoposte alla vigilanza del Ministero del lavoro. Tale sistema costituiva attuazione non già dell'art. 32 Cost., ma dell'art. 38. La svolta nella materia, si avuta per l'appunto con la legge 23 dicembre 1978, n. 833, recante la istituzione del Servizio sanitario nazionale, la quale, nel dare attuazione all'art. 32 Cost., ha posto fine ad un sistema divenuto frammentario, diseguale ed insufficiente. Con l'istituzione del Servizio sanitario nazionale il sistema sanitario, disegnato sul modello del National Health Service del Regno Unito, si è fondato in misura essenziale e prevalente su strutture pubbliche erogatrici di prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione interamente finanziate dalla collettività sia mediante contributi, sia mediante ricorso alla fiscalità generale. Con il che si è posto rimedio alla disparità di trattamento e alla limitatezza degli interventi propri del sistema delle mutue, per dar vita ad un servizio pubblico sanitario, caratterizzato dai principi dell'universalità, dell'uguaglianza e della globalità degli interventi. La legge n. 833/1978, nella sua primigenia versione, ha definito il sistema sanitario come «il complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività, destinate alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione» (art. 1), ne ha fissato gli obiettivi (art. 2), ha ripartito i compiti tra i diversi livelli istituzionali (artt. 3 e segg.), ha individuato le «unità sanitarie locali» quali strutture territoriali di base dell'intero sistema, identificando le prestazioni (artt. 19 e segg.) da erogare. Non mette conto, in questa sede, approfondire ulteriormente i complessi sviluppi nell'organizzazione del Servizio sanitario nazionale, dal momento che lo sguardo dovrà essere qui rivolto al diritto alla salute dall'angolo visuale, non già del funzionamento di quel servizio, bensì dei rimedi civilistici contemplati in generale dall'ordinamento per l'ipotesi che il diritto alla salute di ciascuno venga leso dalla condotta altrui, il che può accadere tanto nel quadro di una condotta aquiliana, quanto a seguito di un inadempimento contrattuale, come avrà modo di vedersi più avanti nell'accennare al tema della responsabilità medica. Ciò detto, conviene allora muovere dalla citazione di un classico. Un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più a fare che una scarpa; voi gli dovete il valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi». Così scriveva Melchiorre Gioia verso la metà del XIX secolo. E questa impostazione è rimasta sostanzialmente ferma, nella giurisprudenza della S.C., fino alla metà degli anni 70 del secolo scorso: nel quadro del sistema bipolare accolto dalla codificazione (da un lato, sotto l'art. 2043 c.c. il danno patrimoniale; dall'altro lato, sotto l'art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale, risarcibile pressoché esclusivamente in caso di condotte lesive criminose): non si risarciva cioè la lesione della salute, ma le perdite patrimoniali secondarie alla compromissione della valetudine psicofisica, il che, come è intuitivo, determinava plurime criticità, massimamente nel caso di soggetti non percettori di reddito. Qui si innesta, sulla spinta della Costituzione repubblicana, ed in particolare dell'art. 32 citato, che, come detto, tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo, la nascita della figura del danno biologico, introdotto dalla giurisprudenza di merito a partire da Trib. Genova 25 maggio 1974, in Giur. it., 1975, I, 2, 54, mossa da un'evidente finalità egualitaria: risarcire la medesima lesione della salute, indipendentemente dalla capacità reddituale della vittima, con l'attribuzione della medesima somma. In questa fase il danno alla salute, che, reciso il collegamento con la capacità reddituale, assume ben presto la connotazione del danno non patrimoniale, è nondimeno risarcito ai sensi dell'art. 2043 c.c.: il ragionamento si avvale degli apporti della dottrina (Scognamiglio, 277), la quale aveva svuotato di contenuto l'art. 2059 c.c. con un'operazione semplice, ossia predicandone la riferibilità al solo c.d. «danno morale soggettivo», e cioè, nell'accezione del tempo, alla sofferenza interiore transeunte determinata dall'aver subito l'illecito aquiliano. Sicché, il sistema bipolare era trasformato in un sistema tripolare, in cui avevano cittadinanza non solo il danno patrimoniale ed il danno non patrimoniale, ridotto al rango di mero danno morale soggettivo, ma anche un tertium genus, il danno biologico, danno non patrimoniale diverso dal danno morale soggettivo, dal semplice pretium doloris, e quindi risarcibile non attraverso l'art. 2059 c.c., ma in applicazione della regola generale dettata dall'art. 2043 c.c. Il passaggio decisivo, in tale prospettiva, è rappresentato dalla c.d. sentenza Dell'Andro (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184, dal nome dell'estensore), con cui la Corte costituzionale, dopo aver accolto la ormai tradizionale equiparazione tra danno morale soggettivo (transeunte sofferenza interiore per la lesione patita) e danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., optando così per un'interpretazione drasticamente limitativa del suo campo di applicazione, ha per converso potenziato l'art. 2043 il quale — ha affermato — «va posto soprattutto in correlazione con gli articoli della Carta fondamentale... e, pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono a causa dell'illecito». Trattando del danno biologico, dunque, il giudice delle leggi ha affermato che «l'art. 2043, correlato all'art. 32 Cost., va necessariamente esteso fino a comprendere... tutti i danni che... ostacolano le attività realizzatrici della persona». Con il riconoscimento della risarcibilità del danno biologico sulla base della regola c.d. del «combinato disposto» (ossia della lettura dell'art. 2043 c.c. in relazione con la norma costituzionale), l'ordinamento ha dunque ammesso il risarcimento di un danno non patrimoniale, quale il danno biologico, al di fuori, come si diceva, delle maglie dell'art. 2059: e — merita aggiungere — configurando tale danno come danno-evento, ossia come danno che si verifica in conseguenza della semplice lesione dell'interesse protetto dalla norma, la salute, indipendentemente dalle sue ricadute. La situazione si è modificata radicalmente nel 2003, nel quadro di un ripensamento che nel complesso è stato determinato dall'esigenza di ricollocazione posta all'ordine dalla nuova fidura del danno esistenziale, di cui più avanti si dirà. Una sorta di «gioco di squadra» attuato dalla S.C. e dalla Corte costituzionale (Cass. n. 8828/2003; Cass. n. 8827/2003; Corte cost. n. 233/2003) ha dato luogo alla reintroduzione del sistema bipolare, ma secondo un'articolazione profondamente diversa da quella di cui si è parlato. Viene cioè percorsa la strada della c.d. interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., che — si osserva — sarebbe incostituzionale se precludesse il risarcimento di quei danni che attingono «valori della persona costituzionalmente garantiti», sicché la norma viene forzata in modo tale da accogliere il risarcimento non solo del danno morale, ma anche del danno biologico e del danno «derivante da lesione di altri interessi della persona (diversi dalla salute)», ossia del danno esistenziale. Spiega la S.C. che «il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona»: va perciò ricondotta a quell'area, ex art. 2059 c.c., la figura del danno biologico, unitamente a quella del danno morale e del danno derivante dalla lesione di ulteriori interessi della persona dotati di protezione costituzionale. L'impostazione «eventista» accolta dalla sentenza Dell'Andro — già contraddetta da Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372/1994, secondo cui il risarcimento del danno discende dalla dimostrazione che «la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato» — è anch'essa consegnata al passato dalla svolta del 2003, con le due sentenze della S.C. le quali, riferendosi al danno non patrimoniale, hanno espressamente affermato che: «Volendo far riferimento alla nota distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza si tratta di danno-conseguenza». L'indirizzo inaugurato nel 2003 ha infine trovato sostanziale conferma nel 2008 da parte delle Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 26972/2008), le quali hanno precisato, come si vedrà più avanti, che le espressioni «danno biologico», «danno morale» e «danno esistenziale» posseggono una valenza soltanto descrittiva, mentre il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. costituisce categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottocategorie, spettando al giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio patito, nell'ottica della riparazione integrale, a prescindere dal nome attribuitogli, attraverso l'individuazione delle ripercussioni negative sul valore-uomo effettivamente verificatisi: passaggio motivazionale, quest'ultimo, mosso dall'intento di arginare il rischio di «duplicazioni risarcitorie», e cioè di evitare, in buona sostanza, che le medesime conseguenze cagionate dalla lesione della salute possano essere reiteratamente risarcite sia sotto specie di danno biologico, sia sotto specie di danno esistenziale. In seguito non sono mancate su questo punto prese di posizione eterodosse, come nella pronuncia secondo cui il danno biologico, quello morale e quello esistenziale costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili, il che contrasta con il principio di unitarietà del danno non patrimoniale giacché detto principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti (Cass. n. 20292/2012; nonché Cass. n. 22585/2013, concernente la liquidazione del danno morale unitamente al biologico; Cass. n. 23147/2013).
RinvioPer il commento, v. sub art. 2059 c.c. - "Diritto alla salute" |