Responsabili i medici che non prestano le cure palliative al malato terminale

02 Novembre 2017

È configurabile la responsabilità dei medici che non hanno somministrato in modo adeguato le terapie palliative ad un malato terminale negli ultimi due giorni di vita?
Massima

In caso di mancata somministrazione delle terapie palliative, i medici sono responsabili del danno morale conseguente alla sofferenza ingiusta patita dal paziente nella fase terminale della vita.

Il caso

Con atto di citazione, gli attori convenivano in giudizio alcuni sanitari al fine di sentirne accertare dal Giudice la responsabilità professionale per Ia mancata somministrazione di farmaci palliativi necessari a limitare Ia sofferenza fisico-psichica del foro congiunto e, conseguentemente, sentirli condannare al risarcimento di ogni danno, patrimoniale e non patrimoniale, iure hereditatis e iure proprio, patito dagli attori.

In via istruttoria, gli attori chiedevano ammettersi prova per interrogatorio formale e per testi sulle circostanze precisate nell'atto introduttivo; inoltre, nell'ipotesi di contestazione sull'an, chiedevano che fosse disposta una CTU medico legale al fine di valutare la sussistenza, all'epoca dei fatti descritti, delle condizioni cliniche che imponevano la somministrazione di trattamenti palliativi e di accertare la ravvisabilità di elementi di dolo o colpa imputabilità ai sanitari che ebbero in cura il loro congiunto.

Instaurato il contraddittorio, la causa veniva istruita mediante Ia produzione di documenti e due CTU medico-legali, una volta ad accertare Ia responsabilità medica dei sanitari ed una volta a quantificare il danno biologico subito dall'attrice.

La questione

La questione che il Tribunale felsineo si trova a dover risolvere è se vi sia o meno responsabilità dei medici che non hanno somministrato in modo adeguato le terapie palliative ad un malato terminale negli ultimi due giorni di vita.

Le soluzioni giuridiche

A tale quesito il Giudice bolognese dà risposta affermativa, richiamando la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale «l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento cosiddetto palliativo, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che, nelle more, egli non ha potuto fruire dell'intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze».

Inoltre, il Tribunale ha opportunamente rammentato che il diritto dei pazienti ad ottenere un intervento palliativo é stato definitivamente cristallizzato dalla l. 15 marzo 2010, n. 38. In particolare, l'art. 1 della predetta legge tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore, nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza di cui al d.P.C.M. 29 novembre 2001. A tal fine le strutture sanitarie che erogano cure palliative e terapia del dolore assicurano un programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia.

Viene, pertanto, riconosciuto il diritto dei pazienti ad un trattamento sanitario che, ancorché non possa evitare l'evento morte, possa essere tale da accompagnare il paziente nelle ultime ore della sua vita con minore sofferenza.

La lesione di tale diritto, che trova la propria copertura costituzionale, ancor prima che nell'art. 32 Cost., nell'art. 2 Cost., provoca un danno che non può essere fatto rientrare nella categoria del danno non patrimoniale biologico ma più correttamente va qualificato come danno morale conseguente alla sofferenza ingiusta patita nella fase terminale della vita.

Per la liquidazione di questo danno non può farsi ricorso all'art. 139 cod. ass. ma devono essere prese in considerazione le Tabelle di Milano 2016 per il danno terminale, in quanto più idonee a rappresentare Ia lesione subita.

Osservazioni

La sentenza in commento ha, senza dubbio, il pregio di applicare la l. 15 marzo 2010, n 38, così intitolata: «Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore».

Le cure palliative sono state definite dalla European Society of Palliative Care – EAPC (1998) come «la cura attiva e globale prestata al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria. Le cure palliative hanno carattere interdisciplinare e coinvolgono il paziente, la sua famiglia e la comunità in generale; prevedono una presa in carico del paziente che si preoccupi di garantire i bisogni più elementari ovunque si trovi il paziente, a casa o in ospedale; le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale; il loro scopo non è quello di accelerare e differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine».

Da tale definizione emerge che le cure palliative possono essere rivolte sia a malati ancora sottoposti a trattamenti contro la malattia, sia, soprattutto, a malati in fase terminale (cure di fine vita).

Esse vengono prestate in ambienti che preservano l'intimità del malato (domicilio e hospice) e si caratterizzano per una gestione olistica dei bisogni del paziente, sia fisici che psichici.

L'origine delle cure palliative è dovuta a Cicely Saunders, infermiera e assistente sociale, prima, e medico, poi, che fondò, negli anni ‘60, l'Hospice Movement (che identifica ogni attività di cura, assistenza, volontariato e attività di sensibilizzazione e mobilitazione della comunità che coinvolge ampi settori della società civile).

Il fondamento delle cure palliative è, dunque, quello di aver posto il malato al centro, a differenza della medicina tradizionale, che, sin dalle origini, si è focalizzata sulla malattia.

Aver centrato le cure palliative sul malato in primis e sulla sua famiglia in via secondaria ha rivoluzionato l'approccio con la persona sofferente perché ne ha permesso un approccio olistico, introdotto una gestione d'equipe, esteso il concetto di cura al di là del puro aspetto medico ed ha realmente accolto il bisogno di autodeterminazione del malato.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo, di recente, di occuparsi di cure palliative. Oltre alle sentenze richiamate dalla pronuncia in commento, è necessario segnalare Cass. civ., sez. lav., 18 agosto 2012, n. 9969, nella quale si legge che «il costante riferimento alla necessaria tutela della dignità della persona impone, allora, una lettura delle regole che sovrintendono alla erogazione dei servizi destinati a realizzare il pieno diritto alla salute che tenga conto – quando si tratti, come nella specie, di fruire di un progetto terapeutico non somministrato dal Servizio Sanitario Nazionale – del complesso oggetto della tutela che, conseguentemente, non può risolversi nel solo approntare il presidio terapeutico destinato al regresso della malattia, ma anche e soprattutto nell'offrire quant'altro sia utile a ripristinare nel soggetto colpito le condizioni per una decorosa convivenza con la condizione patologica o la disabilità. A questa conclusione si perviene, infatti, qualora, come doveroso, il diritto alla salute si legga unitamente a quello alla dignità umana. Da tali considerazioni deve ricavarsi il principio che il diritto alla salute ha nel nostro ordinamento una dimensione sicuramente più ampia di quanto non possa derivare dal mero diritto alla cura od alla assistenza, intesa nel senso tradizionale di accorgimenti terapeutici idonei a debellare la malattia od ad arrestarne l'evoluzione. Al contrario, il necessario riferimento alla tutela della dignità umana, consente di ritenere che le condizioni di salute oggetto della previsione costituzionale coincidano non solo con l'approntamento di mezzi destinati alla guarigione del soggetto colpito ma anche con quant'altro possa farsi per alleviare il pregiudi-zio non solo fisico ma, se si vuole, esistenziale dell'assistito, quantomeno in ragio-ne di tutto ciò che manifesti concreta utilità ad alleviare la limitazione funzionale ancorché senza apprezzabili risultati in ordine al possibile regresso della malattia».

Alcune brevi considerazioni critiche si impongono, tuttavia, a margine della sentenza in rassegna.

La prima riguarda la qualificazione del danno conseguente alla lesione del diritto alle cure palliative, diritto che è ora espressamente riconosciuto dalla legge ordinaria ma che già trovava la sua tutela, a livello costituzionale negli artt. 2 e 32 Cost.

Si tratta di un danno non patrimoniale, per tale intendendosi, secondo la cristallina definizione che si legge nella giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. civ., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972), il «danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica».

Non appare, perciò, condivisibile che il Giudice bolognese, qualificando tale danno come «danno morale conseguente alla sofferenza ingiusta patita nella fase terminale della vita», lo abbia contrapposto al «danno non patrimoniale biologico», quasi che, a differenza di quest'ultimo, il primo non abbia la caratteristica essenziale della non patrimonialità.

Si vuole dire, con parole diverse, che tanto il danno biologico quanto il danno morale sono espressioni dell'unica categoria di “danno non patrimoniale” che l'ordinamento riconosce e tutela insieme all'altra categoria costituita dal “danno patrimoniale”.

La seconda osservazione attiene alla liquidazione del danno da mancata somministrazione delle cure palliative.

Il Giudice bolognese – richiamando le tabelle di Milano del 2016 (che, però, a quanto consta, non risultano ancora ufficialmente approvate) – applica, a tal riguardo, i criteri previsti per il risarcimento del danno terminale.

Ma il danno terminale (rectius, il danno morale terminale, indicato anche come “danno da lucida agonia”, o “catastrofale” o “catastrofico”), secondo la giurisprudenza di legittimità, (Cass. civ., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972), deve intendersi il danno per la sofferenza provata dalla vittima dell'illecito nell'avvertire l'ineluttabile approssimarsi della propria fine.

Nel caso di specie, invece, il danno che viene in rilievo consiste nella sofferenza provocata dalla malattia, giunta allo stadio terminale, sofferenza che le (non somministrate) cure palliative avrebbero dovuto lenire.

*Fonte www.ridare.it

Guida all'approfondimento

CENDON, I malati terminali e i loro diritti, Milano, 2003;

DEFANTI, Soglie. Medicina e fine della vita, Torino, 2007;

ORSI, Le cure palliative, in Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà e da P. Zatti, Milano, 2011;

RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Bari, 2012;

SILVESTRI, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2007;

TOSCANI, Il malato terminale, il Saggiatore, Milano, 1997

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario