Le Sezioni Unite n. 16601/2017: nessuna nuova prospettiva per i “punitive damages” interni

06 Novembre 2017

In questo contributo si dimostra come le Sezioni Unite, con la sentenza n. 16601/2017, non abbiano affatto sdoganato il risarcimento generalizzato del “danno punitivo” sulla base delle norme risarcitorie (artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c.): i danni punitivi rimangono confinati ai soli casi previsti dalla legge. La medesima logica della riserva di legge viene estesa dalle Sezioni Unite anche per il riconoscimento delle sentenze straniere recanti risarcimenti punitivi.
Gli scenari dei danni punitivi nell'ordinamento italiano

Il “danno punitivo” non nasce e si sviluppa soltanto negli U.S.A.: annovera un percorso storico snodatosi dalla legge di Ur-Nammu (III millennio A.C.) al Codice di Hammurabi (1750 A.C.), dall'antica Grecia alle Lex XII Tabularum, passando attraverso l'alto medioevo e l'epoca degli statuti comunali. Negli ultimi secoli l'epicentro del suo sviluppo è coinciso con le giurisdizioni di common law e, fra queste, in primis quelle statunitensi; pur tuttavia anche in civil law i danni punitivi e, più in generale, le pene private non hanno mai abbandonato la scena dei sistemi risarcitori, finendo con il perpetuarsi o l'affiorare, con diverse forme ed etichette, in più diritti nazionali (diritto italiano compreso) ed anche nella legislazione UE.

Tutto ciò è da tener presente in quanto il tema generale dell'ammissibilità di danni puntivi nel nostro ordinamento - affrontato dalle Sezioni Unite - non può essere ridotto alla sola prospettiva dell'importazione in Italia dei “punitive damages” targati U.S.A., operazione di “legal transplant” che tra l'altro, secondo taluni, sarebbe impedita dalle peculiarità processuali (giurie, patti di quota-lite, ecc.) che connotano talune realtà statunitesi; infatti, come detto, i germi per l'affermazione dei danni sanzionatori possono rinvenirsi ben radicati nella tradizione continentale (basti pensare alla concezione che aveva il Gabba del danno morale) e, per quanto ci riguarda, nell'art. 2059 c.c., quindi senza la necessità di scomodare sistemi alieni; d'altro canto, il modello U.S.A. non è l'unico cui attingere in common law, ivi annoverandosi anche altri modelli privi di quelle caratteristiche del sistema nordamericano che vengono additate come impeditive del trapianto dei danni punitivi; il modello inglese e quello irlandese costituiscono degli ottimi esempi.

Ciò illustrato, per “danno punitivo” si intende una particolare forma di “pena privata” consistente in una somma di danaro che viene accordata ad un danneggiato da inadempienti od illeciti a prescindere dall'entità delle conseguenze pregiudizievoli, naturalisticamente intese, che questi subisce in concreto, ed anzi oltre tali riflessi negativi individuali. Questa somma, infatti, viene riconosciuta al danneggiato non già per risarcirlo dei pregiudizi (realmente o presuntivamente) accusati, bensì, così distinguendosi dai “danni compensativi”, al fine di sanzionare la condotta del responsabile a fronte della sua particolare gravità e riprovevolezza sociale, ciò per disincentivare quest'ultimo ed altri suoi simili dal ripetere gli stessi illeciti. L'etichetta “danno esemplare” (“exemplary damages”) è impiegata in alternativa ai “punitive damages”.

Il danno punitivo od esemplare, pertanto, trova - innanzitutto in common law - il suo spazio elettivo generalmente allorquando la riparazione dei pregiudizi subiti dalla parte lesa sia insufficiente a costituire un deterrente per la commissione di altre condotte lesive. Da lustri anche una parte dell'analisi economica del diritto pone in luce come in effetti in diverse situazioni - solitamente casi di effettivi o potenziali “illeciti di massa” (“mass torts”) - i “punitive damages” possano svolgere un ruolo positivo nella promozione di più elevati livello di rispetto per i diritti di individui e comunità. Il danno punitivo, quindi, ha un senso compiuto, è lungi dal costituire un'idea balzana e persegue obiettivi senz'altro seri, fra i quali, peraltro, anche l'incentivazione di soluzioni transattive.

Ciò chiarito, il problema della compatibilità del “danno punitivo” con il nostro ordinamento può porsi in quattro distinti scenari:

  • delibazione di una sentenza straniera (non necessariamente USA) che rechi una condanna al pagamento o di una somma etichettata direttamente dal giudice estero con il lemma “danno punitivo” oppure - caso più complesso - di una quota di risarcimento tale da eccedere il “danno a funzione riparatoria” (o “danno compensativo”);
  • applicazione da parte del giudice italiano, in una controversia insorta avanti la nostra giurisdizione, di una legge straniera ammissiva del “danno punitivo” o di altre forme di pene private;
  • applicazione di una disposizione di legge del nostro ordinamento (per esempio, l'art. 96, comma 3, c.p.c.) tale da permettere al giudice di riconoscere un risarcimento a fini sanzionatori e, comunque, a prescindere dall'esistenza di concreti o presumibili riflessi pregiudizievoli per i soggetti destinati a conseguire la somma in questione;
  • risarcimento, sulla base delle norme codicistiche (artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c.), del “danno punitivo” o, anche senza impiegarsi tale lemma, di somme ulteriori rispetto a quelle generalmente accordate a fini compensativi.

Nei primi due casi la prospettiva è quella dell'ingresso di “danni punitivi alieni”. Nelle altre due ipotesi la questione si pone in termini di configurabilità di “danni punitivi interni”.

In tutti questi casi il problema della compatibilità del nostro ordinamento con risarcimenti punitivi si pone anche per quelle somme risarcitorie, che, sebbene non qualificate espressamente come “danni punitivi” o “esemplari”, trapassino quelle normalmente concepite in termini compensativi dall'ordinamento straniero (nei primi due casi) o dal nostro (negli altri due casi).

La questione, dunque, prescinde non solo dalle etichette, ma anche dalle stesse funzioni declamate a giustificazione di un determinato risarcimento o da quelle cui in concreto finiscono per assolvere le somme accordate. Del resto, anche un “danno a funzione riparatoria” può a sua volta assolvere e, invero, può rispondere pure a “funzioni punitive”, “afflittive” o “sanzionatorie” (in tutta evidenza imporre ad un soggetto di risarcire un danno morale od un qualsiasi altro danno “conseguenziale” significa sanzionarlo civilisticamente) od a “funzioni deterrenti” (il riconoscimento di un danno morale per il ritardo di un treno od un aereo funziona anche sul piano deterrente) . Inoltre, tutti i danni – tanto quelli compensativi che quelli non compensativi – svolgono una “funzione pacificatoria”; al contempo, tanto un “danno compensativo” quanto un “danno punitivo” può svolgere effetti satisfattivi, ciò “soddisfare” le pretese di giustizia della vittima.

Il discrimine fra le categorie di danno in questione (cioè fra quelle sostanzialmente “compensative” e quelle concretamente “punitive”) sta nella differenza che si può tracciare, con tutte le difficoltà del caso, fra il quantum normalmente attribuito per i pregiudizi concepiti in termini di alterazioni negative della sfera (patrimoniale, biologica, morale o esistenziale) di un soggetto ed il quantum che esula da tale primo parametro e non può che trovare giustificazione se non nel mero fine di aggiungere una sanzione monetaria oltre ed indipendentemente dal danno compensativamente inteso.

Da aggiungersi che la distinzione fra danni compensativi e danni punitivi, diversamente da quanto affermato dalla Cassazione nel suo tranchant precedente (Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007 n. 1183), non si gioca sull'irrilevanza, entro la prima categoria, della condotta del danneggiante: infatti, come insegna costantemente la stessa Suprema corte, questa può eccome assumere rilievo, sempre sul piano compensativo, ai fini della quantificazione del danno morale, poiché particolari caratteristiche o modalità di una condotta possono incrementare l'offesa subita dal danneggiato, aumentandone perturbamenti e frustrazioni (il riferimento è al “danno morale aggravato dalla condotta”, su cui cfr. M.BONA, Come liquidare e personalizzare il danno morale aggravato dalla condotta, in ridare.it).

Orbene, come si è posta la sentenza n. 16601 (Cass. civ., Sez. Un., 7 luglio 2017 n. 16601) rispetto ai predetti scenari?

Le questioni affrontate dalle Sezioni Unite

La pronuncia n. 16601 è intervenuta con riferimento ad una complessa vicenda legale approdata negli U.S.A. a tre sentenze, poi dichiarate efficaci ed esecutive dalla Corte di Appello di Venezia.

In particolare, le Sezioni Unite, per quanto qui d'interesse, erano state chiamate ad esprimersi sulla riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi, questione approdata a seguito dell'ordinanza interlocutoria n. 9978 (Cass. civ., sez. I, 16 maggio 2016 n. 9978), che aveva ritenuto opportuno un intervento delle Sezioni Unite proprio su tale specifico tema.

Dunque, il problema concerneva la possibilità dell'ingresso nell'ordinamento italiano di danni punitivi “alieni” per effetto del riconoscimento di pronunce straniere.

Tuttavia, tale questione finiva con il lambire anche il tema dei danni punitivi “interni”.

Del resto, la stessa ordinanza del 2016 aveva rilevato come la «attuale vigenza nell'ordinamento», per orientamento della Suprema corte, del principio della non delibabilità, per contrasto con l'ordine pubblico, della sentenza straniera recante danni punitivi suscitasse delle «perplessità» non solo alla luce della progressiva riduzione, in seno al diritto internazionale privato e processuale, della portata dello sbarramento costituito dall'ordine pubblico, ma anche in considerazione delle posizioni espresse da taluna dottrina interna a favore della compatibilità tra il nostro sistema risarcitorio e la funzione preventiva (o deterrente) dei risarcimenti, «dottrina, la quale ha osservato che la funzione anche afflittiva del risarcimento del danno non patrimoniale non era estranea ai lavori preparatori del codice civile, nei casi di particolare intensità dell'offesa all'ordine giuridico», nonché dell'affermazione recata dalla Cassazione – invero resa sul piano distinto dei danni compensativi – della rilevanza della «gravità dell'offesa» ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale.

L'ordinanza, pertanto, aveva sollecitato un ripensamento del tema anche alla luce del dibattito dottrinale - di più ampio respiro rispetto al problema, assolutamente circoscritto, di diritto internazionale privato e processuale - circa la possibilità per il giudice italiano di dare luogo, sulla base del nostro diritto interno, alla liquidazione di danni con risvolti punitivi.

La portata del principio espresso ai fini del riconoscimento dei “danni punitivi interni”

Le Sezioni Unite, a fronte della riserva al giudice del merito delle indagini di fatto sul contenuto del provvedimento da delibare, hanno subito bocciato come inammissibile la doglianza della ricorrente, che lamentava la violazione dell'art. 64 l. n. 218/1995, sostenendo che la corte territoriale erroneamente non avesse ravvisato nella sentenza straniera, quale ragione ostativa alla sua delibazione, il riconoscimento di danni punitivi: «non v'è alcun modo per ipotizzare il carattere “punitivo” della condanna pronunciata».

Chiusa così la “partita” sull'inammissibilità dei motivi addotti avverso la pronuncia della corte territoriale, le SS.UU. hanno, però, colto l'occasione per affermare, ex art. 363, comma 3, c.p.c., il seguente principio di diritto: «Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità con l'ordine pubblico».

Tale principio ha per oggetto centrale e risolve la questione dei danni punitivi recati da sentenze straniere. Nondimeno, esso concerne in prima battuta i margini della riconoscibilità di danni punitivi sulla base delle norme interne (art. 2059 c.c. in primis). Anzi, il punto di partenza della pronuncia delle Sezioni Unite sul tema è proprio quello della compatibilità fra i danni punitivi “interni” ed il nostro ordinamento.

Le SS.UU. sono state molto chiare nel sancire che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno è compatibile con i principi generali del nostro ordinamento, concetto, invero, presente da sempre nell'evoluzione di tutti i sistemi risarcitori, anche quelli di civil law, e pure in seno al nostro (come, del resto, dimostrato dalla genesi dell'art. 2059 c.c., laddove la Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice civile al punto n. 803 attribuì al danno non patrimoniale anche la funzione di soddisfare il «bisogno di una più energica repressione con carattere anche preventivo»).

Nello specifico, la Suprema Corte odierna ha affermato che «accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell'istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale […], che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva».

Così le Sezioni Unite hanno superato quanto dalle stesse declamato nell'approssimativo precedente (Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015 n. 15350) che, al contrario, aveva prospettato il fenomeno di una definitiva «obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza».

Levata di torno la questione delle finalità dei risarcimenti, la Cassazione ha subito precisato che, tuttavia, il connotato sanzionatorio del risarcimento del danno non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali una qualche norma chiaramente lo preveda, ostandovi il principio della imprescindibile copertura di legge desumibile dagli artt. 23, 24 e 25, comma 2, Cost., nonchè dall'art. 7 («Nulla poena sine lege») della Convenzione Europea sui diritti dell'Uomo.

In realtà, come già si osservava al § 1, anche un “danno compensativo” può assolvere ad una funzione punitiva, sicché sarebbe stato più appropriato da parte delle SS.UU. rilevare come non sia tale funzione a risultare inammissibile in assenza di riserva di legge, bensì l'attribuzione di somme di denaro “non compensative”, cioè non ancorate all'esistenza ed all'entità delle conseguenze pregiudizievoli accusate dal danneggiato (eventualmente, sempre sul piano conseguenziale, aggravate dalla particolare gravità della condotta).

Sta di fatto come le SS.UU., ricordando che «ogni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione legislativa”» e che la nostra Costituzione «pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario», abbiano così inequivocabilmente vincolato il riconoscimento dei danni punitivi “interni” alle fattispecie coperte da una previsione di legge, che deve risultare tale da autorizzare il giudice alla liquidazione di un danno tale da prescindere dall'allegazione e dalla prova, anche solo presuntiva, di pregiudizi reali.

La conclusione, dunque, è chiara: fuori dalle previsioni di legge, nessuna pena privata può essere comminata da un nostro giudice.

Indubbiamente, le Sezioni Unite non hanno sdoganato il risarcimento dei danni punitivi “interni”, come prospettato da taluni commentatori. In breve, non hanno aggiunto nuove prospettive o speranze per lo sviluppo giurisprudenziale di “punitive damages” all'italiana. Il che significa che l'art. 2059 c.c. – non a caso lungi dall'essere stato annoverato dalle SS.UU. fra le norme ammissive della possibilità di comminare pene private – non potrà, per effetto delle SS.UU. correttamente interpretate, fondare l'attribuzione di danni non compensativi sanzionatori.

Certamente, come si desume dalla citata Relazione ministeriale sul Codice Civile, tale inquadramento dell'art. 2059 c.c. non rientrava fra le intenzioni del legislatore del 1942. Però occorre fare i conti con la riserva di legge di cui agli artt. 23, 24 e 25 Cost., successivamente intervenuti e tali da devitalizzare la componente punitiva del danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., comunque lungi dal sancire nel suo testo l'irrilevanza delle conseguenze pregiudizievoli per la prova di tale danno o dal recare lemmi diversi dal termine “danno”, nozione quest'ultima, in assenza di diverse indicazioni, da coordinarsi con l'art. 1223 c.c., recante una concezione conseguenziale di questa espressione (l'art. 96, comma 3, c.c., per esempio, non impiega il termine “danno”, bensì le formule “pagamento” e “somma”).

La chiusura delle Sezioni Unite del 2017 ai “punitive damages” - è opportuno precisarlo - non va, però, ad intaccare minimamente il principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, per cui il magistrato è legittimato a personalizzare in via equitativa il risarcimento del danno morale anche in considerazione della “gravità della condotta”, laddove questa sia considerata per il suo impatto reale o presunto sul danneggiato in termini di maggiore livello di risentimento e offesa.

Ciò illustrato, vi è spazio per delle perplessità?

Ad onor del vero, la mappatura, effettuata dalle SS.UU., delle previsioni di legge ammissive, non senza equivoci, di pene private denota un quadro decisamente eterogeneo che può suscitare degli interrogativi. Basti pensare alla sanzione prevista dall'art. 96, comma 3, c.p.c.: infatti, può apparire singolare che sia legittimo comminare un vero e proprio danno punitivo a chi incorra in condotte processualmente censurabili e negare la prospettiva di una tale condanna a chi incorra in comportamenti extraprocessuali direttamente lesivi di diritti fondamentali e tali da configurare gravi ed odiosi reati. Di certo, poste una di fila all'altra, le scelte legislative non presentano logiche di carattere sistematico.

Si potrebbe anche obiettare che, in ragione dell'art. 3 Cost., sarebbe fondata l'esigenza di scongiurare che la condanna al risarcimento del danno, quale meccanismo che interviene a sanzionare il responsabile civile, esprima sanzioni uguali pur a fronte di condotte di gravità diversa, dunque con discriminazioni innanzitutto fra soggetti responsabili; in altri termini, sulla base del principio di uguaglianza, senz'altro tale da illuminare anche i confini del principio “nulla poena sine lege”, si potrebbe sostenere la necessità che la condanna risarcitoria sia proporzionata al livello di antigiuridicità della condotta (in questa prospettiva si potrebbe parlare di un “danno punitivo costituzionalmente necessitato”).

Tuttavia, il predominio del principio della riserva di legge, costituzionalmente previsto, appare costituire una soluzione efficiente di gran lunga preferibile alla liquidazione arbitraria e generalizzata, per via giurisprudenziale, di danni punitivi tali da poter scardinare, proprio sul versante della parità di trattamento, l'uguaglianza tra danneggiati.

Soprattutto il problema del danno punitivo appare oggi meno impellente rispetto alla questione dei costanti attentati, per via legislativa e pure per via giurisprudenziale, al principio della riparazione integrale del danno.

Il decalogo per il riconoscimento in Italia di “danni punitivi alieni”

Una volta superata l'avversità pregiudiziale per i danni punitivi, la questione della compatibilità con l'ordine pubblico interno di sentenze straniere di condanna per “punitive damages” è stata risolta dalle Sezioni Unite proprio sulla base del principio della imprescindibile copertura normativa recato dalla nostra Costituzione.

La logica delle Sezioni Unite, tale da costituire un autentico revirement rispetto al precedente orientamento di legittimità, può così riassumersi:

  • poiché il filtro dell'ordine pubblico rinvia innanzitutto alla Costituzione e, quindi, non è decisivo che la prospettiva dei “punitive damages” non sia ostacolata dal diritto UE (tantomeno da una «un'enunciazione possibilista come quella, proprio in tema di danni non risarcitori, contenuta nel Considerando n. 32 del reg. CE 11 luglio 2007 n. 864»), la sentenza straniera, che risulti comportare la condanna al risarcimento di un danno punitivo, può fare il suo ingresso nel nostro ordinamento soltanto alla condizione che siano soddisfatti «i valori che presidiano la materia, valori riconducibili agli artt. da 23 a 25 Cost.»;
  • dunque, «così come […] ogni prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio o deterrente non può essere imposta dal giudice italiano senza espressa previsione normativa, similmente dovrà essere richiesto per ogni pronuncia straniera»; «il principio di legalità postula che una condanna straniera a “risarcimenti punitivi” provenga da fonte normativa riconoscibile, cioè che il giudice a quo abbia pronunciato sulla scorta di basi normative adeguate»;
  • «ciò significa che nell'ordinamento straniero […] deve esservi un ancoraggio normativo per una ipotesi di condanna a risarcimenti punitivi»;
  • la normativa straniera, per potersi considerare “adeguata”, deve rispondere «ai principi di tipicità e prevedibilità»; per «tipicità» si intende la «precisa perimetrazione della fattispecie» e per «prevedibilità» la «puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili», essendo indifferente, sotto questo aspetto, che i risarcimenti punitivi siano declinati ed ancorati «a profili sanzionatori o più strettamente compensatori».

Sempre secondo le Sezioni Unite, una volta accertata l'esistenza di un danno punitivo nella sentenza oggetto di delibazione e la previsione di tale risarcimento da parte dell'ordinamento straniero attraverso una norma di legge adeguata, spetta, infine, al giudice italiano un'ultima verifica, ossia che l'ingresso di una siffatta pena privata “aliena”

c

omporti «effetti che risultino non contrastanti con l'ordinamento italiano».

Tale ultimo controllo, come indicato dalle Sezioni Unite, ha per oggetto la verifica, da parte delle corti territoriali, della «proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra quest'ultimo e la condotta censurata».

Le SS.UU. hanno ravvisato il «presidio basilare» per questa specifica «analisi di compatibilità» nell'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione relativo ai «Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene». Le stesse Sezioni Unite, tuttavia, hanno pure osservato come, ad ogni modo ed a prescindere da tale disposizione, la proporzionalità del risarcimento costituisca in ogni sua articolazione uno dei cardini della materia della responsabilità civile, dunque di per sé tale da imporsi quale criterio imprescindibile per tale scrutinio.

Il modello delineato dalla Suprema Corte è chiaro, e si snoda attraverso tre distinte fasi:

  • l'individuazione della natura della condanna risarcitoria recata dalla sentenza straniera;
  • nel caso si rinvenga nella pronuncia un danno avente connotati punitivi, l'accertamento della previsione normativa straniera ammissiva di tale risarcimento e della sua adeguatezza in termini di tipicità e prevedibilità;
  • la verifica della proporzionalità del danno punitivo “alieno”, così come comminato dalla pronuncia straniera, sia con i danni compensativi ivi risarciti, sia con la condotta sanzionata.

A quest'ultimo riguardo mantiene validità la seguente precisazione fornita da Cass. civ., Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1781: «nella verifica della contrarietà o meno della sentenza straniera all'ordine pubblico interno» la corte territoriale non può affidarsi «al mero riscontro della compatibilità dell'intero ammontare della condanna straniera con la natura e la gravità dei danni subiti [dal danneggiato] e, dunque, ad una valutazione puramente astratta, apodittica, concretante mera illazione»; viceversa, i giudici del merito dovrebbero «dare anche conto della ragionevolezza e proporzionalità del liquidato in sede estera in rapporto non solo alle specificità dell'illecito ed alle patite conseguenze, ma anche in confronto dei criteri risarcitori interni».

Ciò illustrato, il modello delineato dalle Sezioni Unite è ineccepibile?

Di sicuro non è mancata alle Sezioni Unite una buona dose di creatività, tuttavia esercitata nei margini concessi dal quadro normativo, essendo che la nozione di ordine pubblico va primariamente tratta dai valori affermati dalla Costituzione.

Infatti, per quanto concerne la delibazione di sentenze straniere extra-UE l'art. 64, comma 1, lett. g, l. n. 218/1995 si limita a stabilire il principio generico per cui la sentenza straniera è riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento quando, soddisfatte le altre condizioni ivi stabilite, «le sue disposizioni non producono effetti contrari all'ordine pubblico»; tale norma risulta in effetti idonea a legittimare il decalogo sopra illustrato.

Il modello delle Sezioni Unite è pure in linea con la disciplina CE/UE che governa il riconoscimento delle sentenze provenienti da altri Stati membri dell'Unione [cfr. art. 34 (1) del regolamento (CE) n. 44/2001 e l'art. 45 (1) (a) del regolamento (UE) n. 1215/2012 per i quali il riconoscimento di una decisione è negato «se il riconoscimento è manifestamente contrario all'ordine pubblico (ordre public) nello Stato membro richiesto»].

Infatti, tali norme, come ricordato dalla Corte di Giustizia, lasciano al giudice nazionale il compito di determinare quale sia la nozione di ordine pubblico del foro, tant'è che «non spetta alla Corte definire il contenuto dell'ordine pubblico di uno Stato contraente», semmai essendo compito di quest'ultima «controllare i limiti entro i quali il giudice di uno Stato contraente può ricorrere a questa nozione al fine di non riconoscere una decisione emanata dalla giurisdizione di un altro Stato contraente» (C.G.CE, 11 maggio 2000, causa C-38/98).

La Commissione europea, del resto, ha rilevato in seno alla sua Relazione alla proposta di regolamento «Roma II» che «la nozione di ordine pubblico resta una nozione nazionale».

Dunque, è confermato come il giudice italiano possa senz'altro fare riferimento alla sua Costituzione, eventualmente – ma non necessariamente – considerando anche altre fonti europee (in primis la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea) ed internazionali.

Infine, il modello tracciato dalle Sezioni Unite consegna criteri più affinati per l'esame demandato ai giudici di merito rispetto al più generico parametro - menzionato, a mero titolo esemplificativo, dal ‘considerando' 32 del regolamento «Roma II» e condiviso da taluna giurisprudenza straniera - della «natura eccessiva» del risarcimento punitivo, natura comunque da apprezzarsi - questa seconda indicazione è di sicuro interesse ed in linea con le Sezioni Unite - «tenuto conto delle circostanze del caso di specie e dell'ordinamento giuridico dello Stato membro del giudice adito».

Ciò riferito, occorre segnalare la seguente questione: l'eventuale diniego di compatibilità del risarcimento per danni punitivi con il nostro ordinamento e l'impossibilità di uscire fuori dalla logica dello “all-or-nothing” (il giudice italiano, ai fini della delibazione, non pare poter operare ridimensionamenti del quantum liquidato dalla sentenza straniera) potrebbero finire per detronizzare la tutela risarcitoria che il soggetto danneggiato si è conquistato in terra straniera magari dopo anni di causa, ingenti costi e non pochi travagli. Questa prospettiva meriterebbe ulteriori riflessioni anche alla luce della nostra stessa Costituzione, la quale, alla luce del principio del “giusto processo”, non dovrebbe consentire che una parte lesa, pervenuta alla fine di un percorso giudiziario democraticamente svoltosi altrove, si trovi dinanzi a sorprese spropositate in negativo.

Conclusioni: nulla poena sine lege

Sarebbe assolutamente incorretto affermare che le Sezioni Unite hanno sdoganato il “danno punitivo” nel senso di dare mano libera ai giudici di procedere, sulla base delle consuete norme risarcitorie (artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c.), alla liquidazione di “punitive damages”. Nel nostro ordinamento i danni punitivi rimangono confinati ai casi previsti dalla legge.

La medesima logica, fondata sulla riserva di legge, viene applicata dalle Sezioni Unite anche per il riconoscimento delle sentenze straniere recanti risarcimenti punitivi, fermo restando che per il loro ingresso in Italia non basta che l'ordinamento estero li preveda con disposizioni normative adeguate; infatti, deve pure risultare soddisfatto il requisito della loro ragionevolezza e proporzionalità anche e innanzitutto con riferimento ai nostri criteri di liquidazione.

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