Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 39 - Rinvio esterno

Raffaele Tuccillo

Rinvio esterno

 

1. Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali.

2. Le notificazioni degli atti del processo amministrativo sono comunque disciplinate dal codice di procedura civile e dalle leggi speciali concernenti la notificazione degli atti giudiziari in materia civile.

Inquadramento

La disposizione, rubricata rinvio esterno, al fine di prevedere una correlazione con la rubrica del precedente art. 38, introduce una regola diretta a determinare lo statuto applicabile al processo amministrativo, rinviando alle disposizioni presenti nel codice di procedura civile. L'applicazione delle norme del codice di procedura civile – soggetto logico della disposizione – al processo amministrativo è diretta, ma è subordinata a tre limiti, uno di necessaria applicazione e gli altri due di carattere alternativo, nel senso della necessaria esistenza di almeno uno degli stessi: la clausola di salvezza «per quanto non disciplinato dal presente codice»; il giudizio di compatibilità; la norma contenuta nel codice di procedura civile deve essere espressione di un principio generale.

La funzione della disposizione deve essere individuata nell'esigenza di colmare eventuali lacune della disciplina del codice del processo amministrativo attraverso la diretta applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile (De Nictolis,Codice proc. amm.). Ciò non toglie che in varie disposizioni il legislatore operi il rinvio a singole norme o istituti presenti nel codice di procedura civile (ad esempio: art. 10 in tema di regolamento preventivo di giurisdizione; art. 17 in tema di cause e modalità di astensione del giudice; art. 18 in tema di cause di ricusazione del giudice; artt. 26 e 90 in tema di spese di giudizio; art. 79 in tema di cause di sospensione e interruzione del processo).

Il secondo comma della disposizione prevede, in ogni caso, che la disciplina della notificazioni degli atti del processo amministrativo è disciplinata dal codice di procedura civile e dalle leggi speciali concernenti la notificazione degli atti giudiziari in materia civile.

I limiti applicativi

L'applicazione delle norme, pur essendo diretta, non ha carattere illimitato ma è subordinata alla coesistenza di due condizioni rappresentate dalla mancanza di una diversa disciplina codicistica e dalla compatibilità ovvero dal fatto che la norma processuale sia espressione di un principio generale.

Segue. La clausola di salvezza

La clausola di salvezza consiste in una riserva di derogabilità (si veda commento sub art. 38) introducendo una relazione sottrattiva tra due norme, nel senso che l'efficacia della norma derogata si estende fin dove le fattispecie concrete non rientrino nella previsione della norma derogante. Se la norma derogante non esistesse, i casi da essa previsti cadrebbero sotto la disciplina della norma derogata (Irti; Cattanella; Rescigno). Nel caso di specie, le norme del codice di procedura civile trovano applicazione nel processo amministrativo solo nel caso in cui non vi sia una norma di diverso tenore all'interno del codice del processo amministrativo. La clausola di riserva opera in tutte le ipotesi in cui un medesimo fatto rientri nell'ambito di applicabilità di entrambe le norme, cioè in ipotesi di antinomia normativa, in cui coesistono due norme, entrambe in vigore, ma fra loro incompatibili. In caso di antinomia, in sostanza, prevarrà senz'altro la norma contenuta nel codice del processo amministrativo; le norme del codice di procedura civile troveranno applicazione solo in caso di lacuna o, meglio, di mancata regolazione del fatto all'interno del codice del processo amministrativo. Con la clausola di salvezza, il legislatore indica uno specifico criterio per risolvere l'antinomia normativa, differente dai tradizionali strumenti (criterio gerarchico, criterio cronologico, specialità, competenza), disponendo espressamente che, qualora due norme prevedano una differente disciplina per regolare un medesimo fatto, prevalga senz'altro la norma non compresa nel Libro II del codice del processo amministrativo. Il legislatore stabilisce espressamente l'applicabilità di una determinata norma sostituendo il proprio giudizio ai criteri generalmente utilizzati per risolvere le antinomie normative.

Segue. Il giudizio di compatibilità

Il legislatore, tramite la preposizione disgiuntiva «o» sembra poi richiedere, ai fini dell'applicabilità della norma del codice di procedura civile, la sussistenza, in via alternativa, della compatibilità tra la norma da applicare e il destinatario dell'applicazione ovvero del fatto che la norma costituisca espressione di un principio generale. A fronte di una ricostruzione, coerente con il dato testuale, diretta a richiedere la sussistenza in via alternativa dei due presupposti, è dato riscontrare un diverso orientamento che ritiene che entrambi i limiti debbano coesistere al fine di consentire l'applicazione della norma del codice di procedura civile al processo amministrativo.

Il giudizio di compatibilità costituisce un limite all'applicabilità delle norme del codice di procedura civile (Tommaseo) ed è variamente utilizzato dal legislatore al fine di limitare l'estensione di norme che hanno di per sé portata generale e, quindi, una naturale forza espansiva (si pensi all' art. 1324 c.c., all' art. 11, comma 2, della l. 7 agosto 1990, n. 241, all' art. 669-quaterdecies c.p.c.). Per valutare, quindi, se una determinata norma debba o meno trovare applicazione al processo amministrativo, l'interprete deve svolgere un giudizio valutativo di non contraddittorietà della norma con le caratteristiche della materia o di un determinato atto, da attuarsi in concreto e di norma in norma. Nell'individuare la corretta estensione del criterio in esame si deve rilevare che esso si configura come un criterio di segno essenzialmente negativo in quanto esclude l'applicabilità di una regola in principio consentita. La compatibilità si rivela, quindi, come il criterio selettivo delle norme non utilizzabili al di fuori del codice di procedura civile e si sostanzia nella non contraddittorietà dell'applicazione della singola norma con le caratteristiche della materia cui deve essere applicata (Irti). Individuate le modalità operative del giudizio in esame, occorre indicare quale sia il canone o il criterio in base al quale stabilire l'incompatibilità tra norme dirette a regolare il processo civile con le norme dirette a regolare il processo amministrativo. La conclusione non potrà essere generale, ma dovrà svolgersi con riferimento alla singola norma muovendo dalle differenze tra i due processi e, quindi, dalle peculiarità del processo amministrativo rispetto a quello civile. A titolo esemplificativo, in caso di lacuna, non potranno ritenersi applicabili le disposizioni che presuppongono l'introduzione del giudizio mediante citazione, se si considera che il processo amministrativo si apre con ricorso.

Segue. I principi generali

Il legislatore stabilisce, poi, l'applicabilità di norme che costituiscono espressione di principi generali. Si ritiene, pertanto, che si estendano: l' art. 112 c.p.c. in base al quale il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti ( Cons. St.Ad. plen., n. 4/2015; Cons. St. V, n. 3373/2015); l' art. 113, comma 1, c.p.c. in base al quale nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità.

I principi della domanda, di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e della rilevabilità d'ufficio di talune eccezioni sono enunciati negli artt. 99 e 112 c.p.c. e nell' art. 2907 c.c., al quale l' art. 99 c.p.c. è strettamente collegato, perché sancisce che alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità giudiziaria su domanda di parte; tali principi non sono riprodotti espressamente e singolarmente nel codice del processo amministrativo, anche se l'art. 34, comma 1 stabilisce, in perfetta consonanza con essi, che in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda, eroga le varie forme di tutela ivi disciplinate. Tali principi processualcivilistici sono applicabili al processo amministrativo in virtù del rinvio esterno ex art. 39, comma 1 ( Cons. St.Ad. Plen., n. 5/2015).

In applicazione di principi generali, la giurisprudenza ha, così, ritenuto che non è inammissibile l'appello se non è stata impugnata l'aggiudicazione definitiva (ovvero, una nuova aggiudicazione) pronunciata in esecuzione della sentenza di primo grado; il principio dell'effetto espansivo esterno della riforma della sentenza appellata, posto in tema d'impugnazioni dall' art. 336, comma 2, c.p.c. a norma del quale la riforma o la cassazione della sentenza estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, è infatti un principio generale del processo applicabile, come tale, al processo amministrativo in forza del rinvio esterno dell'art. 39 ed implica, nel caso di accoglimento dell'appello, l'automatica caducazione della aggiudicazione medio tempore disposta in dichiarata esecuzione della sentenza esecutiva di primo grado (Cons. St. V, n. 4182/2016). Allo stesso modo, l'interesse ad agire, individuato quale presupposto dell'azione dall' art. 100 c.p.c., da sempre applicabile anche al processo amministrativo, ora anche in virtù del rinvio esterno operato dall'art. 39, comma 1, è scolpito nella sua tradizionale definizione di concreto bisogno di tutela giurisdizionale (Cons. St. IV, n. 3167/2015).

Casistica

La giurisprudenza fa costante applicazione del rinvio esterno al fine di determinare le disposizioni applicabili al processo amministrativo, così è stato ritenuto che: ai sensi dell' art. 329, comma 2, c.p.c., applicabile anche nel processo amministrativo in virtù del rinvio esterno di cui all'art. 39, comma 1, l'appello parziale comporti acquiescenza alle parti o ai capi della sentenza non espressamente impugnati (Cons. St. IV, n. 4095/2016); nel processo amministrativo, in assenza di una specifica disciplina sulla litispendenza, ma ponendosi comunque la medesima esigenza di evitare decisioni contrastanti sulla medesima res litigiosa, oltre che di duplicare inutilmente l'attività giurisdizionale, si applicano, in virtù del rinvio esterno operato dall'art. 39, comma 1, le regole del processo civile (T.A.R., Friuli-Venezia Giulia, n. 164/2016;T.A.R. Lazio (Roma) n. 2339/2016); il termine breve di impugnazione decorre dalla notificazione della sentenza di primo grado ai sensi dell'art. 92, comma 1 e, dunque (in virtù del rinvio esterno contenuto nell'art. 39), dal compimento delle formalità prescritte dall' art. 285 c.p.c., secondo cui la notificazione della sentenza, al fine della decorrenza del termine per l'impugnazione, si fa a istanza di parte a norma dell' art. 170 c.p.c., con sentenza munita di visto di conformità all'originale da parte del segretario (Trib. reg. giust. amm., n. 589/2015); l' art. 310, comma 2, c.p.c. dispone che l'estinzione del processo rende inefficaci gli atti compiuti ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo, le quali quindi, ove oggetto di riserva, diventano immediatamente impugnabili ai sensi dell' art. 129, comma 3, disp. att. c.p.c., applicabile anche al giudizio amministrativo in virtù del rinvio esterno di cui all'art. 39, con l'avvertenza che l'improcedibilità per mancata integrazione del contraddittorio è da equipararsi all'estinzione in virtù del combinato disposto degli artt. 35 e 85 (Trib. reg. giust. amm., n. 583/2015); il giudice amministrativo di appello può separare le cause in applicazione dell’art. 103, comma 2, c.p.c. (Cons. St. V, n. 5385/2018).

Il principio del ne bis in idem, ricavabile dagli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c., in applicazione del quale è vietato al giudice di pronunciare due volte sulla medesima controversia, è applicabile anche al processo amministrativo, in virtù del rinvio esterno contenuto nell'art. 39 comma 1, perché espressivo di esigenze comuni a qualsiasi ordinamento processuale, consistenti nel prevenire l'inutile ripetizione di attività processuali e possibili contrasti di giudicati; di conseguenza, il divieto di giudicare due volte sulla medesima regiudicanda si traduce nell'onere per il ricorrente di dedurre in giudizio il dedotto ed il deducibile, e cioè di formulare tutte le domande necessarie a tutelare la posizione giuridica azionata, sulla quale è destinato a formarsi il giudicato ai sensi dell' art. 2909 c.c. e, in applicazione dello stesso, è preclusa non solo la riproposizione di domande già definite con la sentenza passata in giudicato, ma anche la proposizione per la prima volta di quelle che di tale giudicato costituiscono il presupposto logico e indefettibile e, come tali, sono assoggettate all'effetto previsto dal suddetto art. 2909 c.c. (Cons. St. V, n. 1558/2015).

In ogni caso, l'art. 39 codifica un principio già da tempo elaborato dalla giurisprudenza del giudice amministrativo, secondo cui le norme del codice di procedura civile trovano applicazione nel giudizio amministrativo non solo quando sono richiamate dalle disposizioni regolatrici di quest'ultimo, ma anche quando contengano l'enunciazione di principi generale di diritto valevoli per ogni tipo di processo (Cons. St. V, n. 1234/1978).

I rapporti tra il rinvio interno e il rinvio esterno. La sospensione cautelare nel giudizio di ottemperanza

Con la clausola di salvezza, il Legislatore stabilisce espressamente l’applicabilità di una determinata norma sostituendo il proprio giudizio ai criteri generalmente utilizzati per risolvere le antinomie normative.

È bene considerare che, in relazione all’art. 39 c.p.a., tra le clausole deroganti e, quindi, prevalenti rispetto alle norme del c.p.c. deve ritenersi compreso anche il rinvio interno di cui all’art. 38 c.p.a., con la conseguenza che l’applicazione del rinvio esterno sarà subordinata logicamente e cronologicamente al rinvio interno. In pratica la norma esterna sarà applicabile solo nel caso in cui non si riesca a rinvenire nel sistema interno una norma applicabile.

L’art. 624 c.p.c. disciplina una particolare forma di sospensione del processo esecutivo per opposizione all’esecuzione delle parti o di terzi, attribuendo al giudice dell’esecuzione il potere di sospendere il processo qualora concorrano gravi motivi. Il punto centrale dell’istituto, oltre all’istanza di parte, è rappresentato dal ruolo dei gravi motivi e, secondo il prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale, occorrerebbe attribuire a tale forma di sospensione natura cautelare. Occorre valutare se tale disposizione risulti applicabile nel giudizio amministrativo.

In un caso pervenuto alla cognizione del Consiglio di Stato: con decreto ingiuntivo Tizio era stato condannato a pagare una somma di denaro in favore di Caio per crediti insoluti vantati per forniture di materiali e noleggi di macchinari nell’ambito dell’esecuzione di un contratto di appalto di lavori pubblici concluso tra il Comune Alfa e Tizio. Caio trascorso il termine aveva iniziato una procedura di espropriazione presso terzi e, in particolare, nei confronti del Comune Alfa per i crediti di cui Tizio era titolare nei confronti del comune. Il comune rendeva dichiarazione positiva specificando l’ammontare del credito vantato da Tizio e il tribunale civile assegnava in pagamento la somma richiesta. Pochi giorni dopo Tizio depositava una domanda di ammissione a concordato preventivo chiedendo la sospensione della procedura di pignoramento e la sospensione del pagamento; la richiesta era comunicata a Caio e al Comune. Il Comune a questo punto: pagava una parte delle somme; evidenziava l’esistenza di un residuo credito di cui era titolare Tizio; risolveva consensualmente il contratto; si impegnava a trattenere presso la somma da liquidare a titolo di saldo oggetto dell’ordinanza di assegnazione del giudice dell’esecuzione impegnandosi ad effettuare il pagamento al soggetto che sarebbe stato individuato come legittimato. Tizio chiedeva dichiararsi l’inefficacia del pagamento effettuato dal Comune a Caio, essendo Tizio in concordato preventivo e chiedeva la restituzione delle somme. Il giudice ordinario accoglieva la domanda di Tizio e dichiarava inefficace il pagamento effettuato condannando il Comune e Caio alle restituzioni. Il provvedimento era appellato e la Corte d’Appello sospendeva il provvedimento di primo grado.

Nel frattempo Caio introduceva giudizio di ottemperanza nei confronti del Comune per il pagamento delle residue somme indicate nell’ordinanza di assegnazione del Tribunale civile e non corrisposte dal Comune.

Il primo problema che si è posto nella questione decisa dal Consiglio di Stato attiene al rapporto tra il giudizio di ottemperanza e quello pendente dinanzi al giudice civile e avente ad oggetto la dichiarazione di inefficacia del pagamento. Se la stessa causa pende davanti a g.a. e g.o. occorre analizzare l’ambito applicativo dell’art. 79 c.p.a che nel disciplinare in generale la sospensione rinvia al c.p.c. senza distinguere tra le categorie o forme di sospensione. Ne discende che se è applicabile l’art. 295 c.p.c. il rinvio deve essere inteso anche alle altre ipotesi di sospensione e per quanto interessa all’art. 624 c.p.c. e all’art. 337 comma 2 c.p.c., secondo il quale quando l’autorità di una sentenza è invocato in un diverso processo questo può essere sospeso se il processo è impugnato. Secondo il Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., n. 806/2015) il giudizio di ottemperanza presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata, altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della p.a., altre ancora aventi natura di cognizione, e che trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente.

In considerazione della composita natura del giudizio di ottemperanza, secondo il Collegio la richiesta di sospensione è qualificabile come istanza di sospensione della esecuzione per gravi motivi ai sensi dell’art. 624, primo comma, c.p.c. Più in particolare, nel momento in cui si ritiene che il giudizio di ottemperanza sia caratterizzato da un profilo prettamente esecutivo è possibile senz’altro applicare il 624 c.p.c. sulla base dell’art. 79 c.p.c. con due precisazioni: nel momento in cui viene applicato l’art. 624 occorre fare riferimento a tutti i relativi presupposti applicativi e, quindi, in particolare ai gravi motivi intesi in senso cautelare dalla giurisprudenza e dottrina prevalente; sotto un profilo sistematico occorre considerare che l’art. 79 è disciplinato nel libro II dedicato al “processo amministrativo di primo grado”, quindi l’applicabilità dell’art. 79 c.p.a. al giudizio di ottemperanza avviene per il tramite del rinvio interno contenuto nell’art. 38 c.p.a., il quale stabilisce che le disposizioni del Libro II si applicano anche alle impugnazioni e ai riti speciali, inserendo un unico limite rappresentato dalla clausola di salvezza “se non espressamente derogate”.

Occorre considerare, come anticipato, che l’art. 39 c.p.a. rinviene un limite applicativo nello stesso art. 38 c.p.a., con la conseguenza che l’accertamento della sussistenza di una lacuna rilevante ai sensi dell’art. 39 c.p.a. presuppone che non si siano rinvenute norme applicabili all’interno del c.p.a. Ne discende che, secondo un orientamento (Tuccillo), posta la priorità logica e cronologica del rinvio interno rispetto a quello esterno in quanto positivamente posta e muovendo dal carattere cautelare della sospensione di cui all’art. 624 c.p.c., potrebbe concludersi che lo strumento cautelare deve essere prioritariamente rinvenuto nel c.p.a. e, quindi, negli artt. 55 ss. c.p.a. applicabili al giudizio di ottemperanza per il tramite dell’art. 38 c.p.a. Tuttavia la struttura del procedimento cautelare del codice del processo amministrativo appare orientata sulla posizione del ricorrente e non del resistente che è il soggetto interessato ad ottenere nel giudizio di ottemperanza la sospensione del titolo attivato.

Segue . Giudizio di ottemperanza e intervento in giudizio

Un altro aspetto che interessa i rapporti tra processo civile e giudizio di ottemperanza concerne l’intervento di altro creditore all’interno del giudizio di ottemperanza da altri instaurato. Secondo un precedente giurisprudenziale (T.A.R. Campania, n. 3603/20117), l’intervento di altro creditore nel giudizio di ottemperanza deve essere dichiarato inammissibile in quanto: nel processo amministrativo è inammissibile l’intervento adesivo autonomo, cioè l’intervento nel giudizio già istaurato da altri volto a far valere lo stesso interesse sotteso nel ricorso principale e l’intervento in un giudizio per far valere un interesse o un diritto diverso da quello azionato con il ricorso originario ma con questo connesso; la specificità del rito dell’ottemperanza e del suo oggetto, per il quale nessuna norma prevede l’intervento; non vi è compatibilità, ai sensi dell’art. 39 c.p.a., tra giudizio di ottemperanza e le disposizioni contenute negli artt. 499 c.p.a.

Il giudizio di ottemperanza è basato sul potere del giudice di disporre mediante commissario ad acta un’attività sostitutiva della p.a. nell’ambito di una giurisdizione di merito e si differenzia quindi profondamente da quello dell’esecuzione processualcivilistica, in cui è previsto l’intervento del creditore, incentrato sull’aggressione di beni del debitore al fine di soddisfare il credito. La soluzione appare coerente anche con un’interpretazione sistematica delle norme del c.p.a. Oltre al giudizio di compatibilità, l’art. 39 c.p.a. richiede una valutazione probabilmente di carattere preliminare espressa nella clausola di salvezza “per quanto non disciplinato nel presente codice” (Tuccillo). L’eventuale dubbio ermeneutico o applicativo è risolto dal legislatore attribuendo senz’altro prevalenza al c.p.a. rispetto al c.p.c. Il rinvio interno precede quello esterno e ne comprime l’ambito applicativo. Occorre tenere presente che l’art. 38 c.p.a. stabilisce che il processo amministrativo si svolge secondo le disposizioni del Libro II che, se non espressamente derogate, si applicano anche alle impugnazioni e ai riti speciali. Questo “se non espressamente derogate” sembra imporre al giudice che applica il rito speciale di valutare la sussistenza di un’antinomia tra impugnazione o rito speciale e processo amministrativo di primo grado: in tal caso occorrerà attribuire senz’altro prevalenza alla norma diretta a disciplinare le impugnazioni o i riti speciali. Tuttavia in caso di lacuna occorrerà applicare anche all’impugnazione o al rito speciale la disciplina prevista per il processo di primo grado. Il rinvio di cui all’art. 39 al c.p.c. per quanto riguarda riti speciali e impugnazioni, è subordinato a un limite ulteriore oppure, preferibilmente, ad un’interpretazione estesa della clausola di salvezza contenuta nell’art. 39 stesso “per quanto non disciplinato dal presente codice”. Occorre quindi verificare se una tale circostanza sia preclusa dall’art. 50 c.p.a. ovvero dall’art. 28 c.p.a. in tema di intervento nel giudizio amministrativo (norma questa contenuta nelle disposizioni generali e quindi applicabile a tutti i giudizi disciplinati nel c.p.a.). Ciò che emerge dalla lettura del secondo comma dell’art. 28 c.p.a. è che non possa intervenirvi la parte né colui che è decaduto dall’esercizio delle relative azioni, con ciò in particolare alludendo alle azioni di annullamento. Secondo una diversa prospettiva, al contrario, l’atto di intervento reso in tal modo in sede di ottemperanza non sarebbe inammissibile in quanto non incompatibile con l’art. 50 c.p.a. e non vietato dall’art. 28 c.p.a. Malgrado il prevalente orientamento giurisprudenziale negativo, fondato sulla tradizionale inammissibilità dell’intervento autonomo in giudizio, oggi l’unico limite che sembra emergere dalla lettura dell’art. 28, comma 2, c.p.a., come sottolineato dalla dottrina, è rappresentato dall’intervenuta decadenza dall’esercizio delle relative azioni. In mancanza di decadenza sembrerebbe ammissibile un tale intervento con le regole proprie del c.p.a. piuttosto che del c.p.c. alla luce del rapporto tra art. 38 e 39 c.p.a.

Bibliografia

Cattanella, Derogazione delle leggi, in D.I. IX, 2, Torino, 1898-1901, 185 ss.; Irti, Per una lettura dell'art. 1324 cod. civ., in Riv. dir. civ., 1994, I, 563; Rescigno, Deroga (in materia legislativa), in Enc. dir., XII, Milano, 1964, 303 ss.; Tommaseo, Variazioni sulla clausola di compatibilità, in Riv. dir. proc. 1993, 701 ss.; Tuccillo, Giudice amministrativo e provvedimenti del giudice civile: limiti, tecniche, accorgimenti, problematicità, in AA.VV., Esecuzionne civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della P.A., a cura di Capponi e Storto, Napoli, 2018, 87 ss.

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