Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 2 - Giusto processo

Roberto Chieppa

Giusto processo

 

1. Il processo amministrativo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall'articolo 111, primo comma, della Costituzione.

2. Il giudice amministrativo e le parti cooperano per la realizzazione della ragionevole durata del processo.

Inquadramento

È codificato il principio del giusto processo amministrativo, non limitato alla ragionevole durata, ma esteso a tutto il contenuto dell' art. 111 Cost.: parità delle parti e contraddittorio.

La ragionevole durata del processo è attuata attraverso la cooperazione del giudice con le parti.

Il giusto processo amministrativo

Il giusto processo è stato tradotto, oltre che nel principio della ragionevole durata, nella essenziale regola della parità delle parti che deve essere effettiva e garantita in ogni stato e grado della controversia.

Si ricorda che l' art. 111 Cost., come modificato dalla l. cost. 23 novembre 1999 n. 2, ha formalmente introdotto nell'ordinamento italiano il principio del c.d. «giusto processo».

La dottrina ha subito ricordato che non si è trattato di un principio nuovo: come è noto, il diritto ad un processo giusto era stato già contemplato dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo del 1950 (ratificata in Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848), che all'art. 6 stabilisce che ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge ed in forma pubblica (Cerrina Ferroni, 37). Stessa dottrina ricorda che già da molti anni la dottrina aveva ritenuto esistente nel nostro ordinamento un principio di natura costituzionale in grado di condizionare la legittimità della disciplina di ogni tipo di processo (Calamandrei, 46 ss.), sovente individuandolo nell' art. 24 Cost., interpretato secondo i contenuti del c.d. «due process of law» di tradizione anglosassone (Couture, 81 ss.), come pure in tutta una serie di altre norme costituzionali (artt. 3, 25, 101-104, 107-108, 111, 112, 113) che con l'art. 24 si riteneva avrebbero dovuto essere lette. Se ne deduceva, che il «giusto processo» fosse fondato su un complesso di principi, quali l'uguaglianza e il contraddittorio delle parti davanti al giudice, il giudice naturale, la soggezione del giudice alla legge, il divieto di giudici straordinari o speciali, l'indipendenza e l'imparzialità degli organi giurisdizionali (Comoglio, 155 ss.), ovvero che detti principi tendessero tutti ad uno scopo fondamentale, cioè «quello di assicurare alle parti la “parità delle armi” e quindi la parità dei risultati astrattamente conseguibili nei processi di ogni tipo» (Barile, 287).

Ancor prima della modifica dell' art. 111 Cost. il giudice delle leggi aveva conferito rango costituzionale al principio del giusto processo (Corte cost. n. 371/1996; Corte cost. n. 307/1997; Corte cost. n. 290/1998; Corte cost. n. 178/1999).

È stato rilevato che il giusto processo è il principio guida nella interpretazione di tutte le norme contenute nel Codice e rappresenta; è la “Grundnorm” della giurisdizione amministrativa (Merusi, 7).

E’ stato anche sottolineato come nessuna riflessione sul giusto processo potrebbe dirsi compiuta se non abbracciasse anche il tema della sentenza giusta, che tuttavia non può essere la sentenza che decide la controversia secondo il sapiente, ma fatalmente arbitrario, apprezzamento del giudice, bensì quella che rispetta la legalità, anche attraverso l’incidente di costituzionalità (Luciani).

Sono stati invece espunti dal Governo i richiami al pieno accesso agli atti rilevanti per la controversia e alla piena conoscenza dei fatti, al rispetto del principio del contraddittorio e al rilievo anche costituzionale degli interessi azionati, da tenere in considerazione da parte del giudice per una rapida definizione dei giudizi.

Terzietà, indipendenza e imparzialità del giudice.

Il principio del giusto processo impone che le controversie siano esaminate da un giudice terzo, indipendente e imparziale.

Tale è il giudice amministrativo.

L' art. 100 Cost. stabilisce che il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico amministrativa e di tutela della giustizia nell'amministrazione.

Tale formulazione e la compresenza nell'organo di vertice della giustizia amministrativa di funzioni consultive e giurisdizionali aveva portato ad esprimere dubbi sulla natura di giudice terzo, indipendente e imparziale del Consiglio di Stato.

Tale dubbi vanno radicalmente esclusi e, a tal fine, è utile descrivere in sintesi il percorso attraverso cui si è giunti all'attuale sistema di giustizia amministrativa (le origini storiche della giustizia amministrativa).

Negli ordinamenti preunitari una serie di controversie con la pubblica amministrazione erano sottratte al giudice ordinario ed attribuite ai tribunali per il contenzioso.

Successivamente, con la legge 20 marzo 1865, n. 2248 All. E (legge abolitrice del contenzioso amministrativo) prevalse l'idea di attribuire la tutela del cittadino ad un unico giudice (ordinario), abolendo, quindi, i tribunali speciali del contenzioso amministrativo.

Nella ricerca di un punto di equilibrio fra la libertà del cittadino e quella dell'amministrazione, la tutela del primo venne garantita in tutte le materie “nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico”.

Il giudice ordinario non poteva demolire (annullare) il provvedimento amministrativo, ma lo poteva disapplicare, ossia poteva “conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto dedotto in giudizio” (art. 4) e applicare “gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi” (art. 5).

In tal modo, la posizione del privato veniva tutelata nei limiti della qualificazione della stessa in termini di diritto soggettivo e si lasciavano scoperte dal sistema di tutela tutta una serie di situazioni, qualificate in termini di interesse legittimo e rimesse esclusivamente alle autorità amministrative.

Per verificare la sola possibilità di accesso alla tutela, il giudice ordinario doveva prima accertare in via pregiudiziale la sussistenza di un diritto e solo successivamente poteva erogare la tutela, eventualmente disapplicando l'atto amministrativo, incidente su tale diritto; qualora, invece, la posizione non veniva qualificata come diritto soggettivo, non vi era spazio per la tutela giurisdizionale.

Per eliminare l'inconveniente di un sistema che, tutelando solo i diritti, lasciava senza tutela gli “affari non compresi”, la l. 31 marzo 1889, n. 5992, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, attribuì a quest'ultima la competenza a “decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione o alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali”.

Alla IV sezione del Consiglio di Stato non venne riconosciuta subito natura giurisdizionale e tale natura si affermò in via interpretativa e trovò una definitiva consacrazione con la l. 7 marzo 1907 n. 62, istitutiva della V Sezione del Consiglio di Stato, cui fece seguito il r.d. 17 agosto 1907 n. 642 (Regolamento per la procedura dinnanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato).

Da tale excursus emerge come la giustizia amministrativa non sia nata come giustizia minore in modo da privilegiare la P.A. e sottrarre i suoi atti al controllo del giudice ordinario, ma per riempire uno spazio, in cui la tutela del privato era assente in quanto già sottratta alla giurisdizione ordinaria.

A conferma delle ragioni della nascita della giustizia amministrativa, significativi sono alcuni passaggi dei lavori dell'assemblea costituente, richiamati nella sentenza dellaCorte cost. n. 204/2004: « il Consiglio di Stato non ha mai tolto nulla al giudice ordinario » (così Bozzi) in quanto la giurisdizione amministrativa è sorta « non come usurpazione al giudice ordinario di particolari attribuzioni, ma come conquista di una tutela giurisdizionale da parte del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione; quindi non si tratta di ristabilire la tutela giudiziaria ordinaria del cittadino che sia stata usurpata da questa giurisdizione amministrativa, ma di riconsacrare la perfetta tradizione di una conquista particolare di tutela da parte del cittadino » (Leone).

Il contestuale esercizio di funzioni consultive e funzioni giurisdizionali, previsto dalla Costituzione (art. 100), non incrina il ruolo di indipendenza ed autonomia del Consiglio di Stato.

Infatti, attraverso l'espressione di pareri, il Consiglio di Stato esercita un'attività di pura e semplice applicazione del diritto oggettivo, avente la finalità di verificare la legalità delle scelte dell'amministrazione, e non certo di fornire una consulenza tecnico-legale all'amministrazione, che è ruolo tipico dell'Avvocatura dello Stato.

La funzione consultiva condivide, quindi, la natura della funzione giurisdizionale nel senso che è anch'essa un'attività neutrale di garanzia svolta, come quella giurisdizionale, secondo canoni di assoluta indipendenza. Le due funzioni sono, inoltre, complementari; le funzioni consultive, svolte ‘nell'interesse pubblico' (e non ‘nell'interesse della pubblica amministrazione'), perseguono, in via preventiva, il medesimo scopo di garanzia della legittimità dell'agire dell'amministrazione che poi il giudice persegue ex post, su istanza del cittadino che si dichiara leso da provvedimenti o comportamenti illegittimi. Una funzione di prevenzione del contenzioso, quindi, che giova alla funzione giurisdizionale ed è ad essa strettamente connessa (Cons. St., sez. cons. atti norm., n. 515/2016).

La Corte Europea dei diritti dell'uomo ha escluso che la compresenza di funzioni consultive e giurisdizionali in capo ad organi di giustizia amministrativa sia in sé incompatibile con l' art. 6 della Cedu, ed in particolare con il diritto di ciascuno ad un giudice “indipendente ed imparziale” (CorteEdu, 9 novembre 2006, Sacilor-Lormines c. Francia; CorteEdu, 6 maggio 2003, Kleyn c. Olanda).

Del resto, la Corte di giustizia ha ritenuto che il Consiglio di Stato in sede consultiva, nel rendere parere su un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, deve essere considerato come “giurisdizione” e, come tale, legittimato a porre questioni pregiudiziali ex art. 234, del Trattato (Corte giustizia CE, 16 ottobre 1997, nelle cause riunite da C-69/96 a C-79/96, che ha fatto riferimento proprio agli elementi dell'indipendenza dell'organo chiamato ad esprimere il parere, dell'obbligatorietà del parere da rendere in un procedimento basato sul contraddittorio, dell'attività di pura e semplice applicazione del diritto oggettivo; anche se Corte cost. n. 254/2004 ha ritenuto che le sezioni consultive del Consiglio di Stato non possono sollevare incidente di costituzionalità in sede di parere sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, attesa la natura amministrativa di tale rimedio, desunta principalmente dalla possibilità di decisione difforme rispetto al parere del Consiglio di Stato; possibilità venuta meno a seguito della modifica dell' art. 14 del d.P.R. n. 1199/1971, operata dalla legge n. 69/2009, con cui è stata anche prevista la possibilità di sollevare questione di costituzionalità da parte del Consiglio di Stato in sede di espressione del parere su ricorso straordinario).

La ragionevole durata del processo

L'effettività si traduce nella essenziale questione del rispetto della ragionevole durata del processo.

Il processo può essere ingiusto per il sol fatto che dura, lo è certamente quando dura troppo, di sicuro è arbitrario quando consente alla pubblica amministrazione che gode del potere di autotutela esecutiva, di consolidare illegittimamente situazioni di vantaggio senza assicurare tutela al cittadino che abbia visto leso un suo interesse legittimo o diritto soggettivo.

La legge processuale è — in questa chiave — una variabile importante per assicurare la ragionevole durata del processo.

Una legge processuale che mira all'economia dei mezzi, che sia semplice e chiara, pone le premesse per affrontare il problema della durata dei giudizi.

Sotto questo profilo il fatto stesso della codificazione rappresenta un significativo passo in avanti verso la maggior chiarezza delle regole processuali.

La ragionevole durata non si consegue, peraltro, senza la cooperazione di tutti i soggetti del processo.

In molti settori sottoposti alla giurisdizione amministrativa il divario tra “tempo giuridico” e “tempo reale” costituisce un problema rilevante e si deve evitare che le decisioni del giudice giungano “fuori tempo massimo”, quando l'innovazione ha reso obsolete le azioni contestate o ha già radicalmente modificato il mercato, sul quale si intendeva ripristinare la legalità.

Anche grazie ai riti abbreviati, la giurisdizione amministrativa è stata spesso in grado di garantire la ragionevole durata del processo, anche in presenza di controversie particolarmente complesse.

Tuttavia, la ragionevole durata del processo deve essere assicurata al cittadino per ogni tipologia di controversia, anche non rientrante in quelle assoggettate dal legislatore ad un rito più veloce.

I richiamati principi devono essere garantiti anche per quelle controversie, che all'occhio del giudice (o del legislatore) possono sembrare minori, ma che tali non sono per il ricorrente, che può anche avere torto, ma se si rivolge al giudice lo fa per chiedere giustizia. E il compito del giudice amministrativo è appunto quello di rendere giustizia.

In questo senso andava inteso il riferimento (poi espunto dal testo dal Governo) al rilievo anche costituzionale degli interessi azionati, da tenere in considerazione da parte del giudice per una rapida definizione dei giudizi.

E’ stato evidenziato che il legislatore ha disseminato il processo amministrativo di riti abbreviati o accelerati, ora menzionati (ma purtroppo con elencazione non tassativa) dall’art. 119. La proliferazione di tali riti non aumenta necessariamente il tasso di efficienza del sistema delle tutele, non solo perché l’accelerazione di una controversia implica il rallentamento di un’altra, ma anche perché se le procedure accelerate sono troppe anche l’accelerazione finisce per non funzionare più, a fronte di risorse (umane e materiali) che restano cronicamente limitate (Luciani).

Equa riparazione per la violazione del termine ragionevole di durata del processo.

La violazione del termine ragionevole di durata del processo determina l'insorgere del diritto ad una equa riparazione, disciplinato dalla legge n. 89/2001.

Tale legge stabilisce che la parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi alla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, par. 1, della Convenzione stessa e che chi, pur avendo esperito i rimedi preventivi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell'irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione.

Si considera rispettato il termine ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Ai fini del computo della durata il processo si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell'atto di citazione. Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.

Ai fini del computo non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso e di quello intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l'impugnazione e la proposizione della stessa.

La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al presidente della corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto.

La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva.

Il giudice liquida a titolo di equa riparazione, di regola, una somma di denaro non inferiore a euro 400 e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. La somma liquidata può essere incrementata fino al 20 per cento per gli anni successivi al terzo e fino al 40 per cento per gli anni successivi al settimo.

Come già evidenziato, è inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all'irragionevole durata del processo.

Nei giudizi dinanzi al giudice amministrativo costituisce rimedio preventivo la presentazione dell'istanza di prelievo di cui all'articolo 71, comma 2 almeno sei mesi prima che siano trascorsi i predetti termini di durata del processo.

Sull'istanza di prelievo vedi il commento agli artt. 71 e 71-bis.

Con l'art. 71-bis è stato previsto che «A seguito dell'istanza di cui al comma 2 dell'articolo 71, il giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell'istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata».

La disposizione, pur limitandosi ad introdurre una semplificazione nella definizione dei giudizi, oggetto di istanze di prelievo, va letta unitamente alle correlate disposizioni contenute nella legge di stabilità 2016, che ha introdotto il nuovo articolo.

Infatti, l' art. 1, comma 777, l. n. 208/2015 (l'art. 71-bis è stato introdotto dal comma 781 dello stesso articolo) ha modificato la l. n. 89/2001 (previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo), prevedendo che:

- la parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi alla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della l. 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione stessa;

- chi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all'articolo 1-ter, ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell'irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione;

- nei giudizi dinanzi al giudice amministrativo costituisce rimedio preventivo la presentazione dell'istanza di prelievo di cui all' articolo 71, comma 2, del codice del processo amministrativo, di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis;

- è inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all'irragionevole durata del processo.

Sulle critiche all'art. 71-bis vedi il relativo commento.

Va segnalato che è stata oggetto di rimessione alla Corte di Giustizia la compatibilità con il diritto dell'U.E. di una serie di obblighi imposti dalla riforma della c.d. Legge Pinto di cui alla legge di stabilità 2016 (T.A.R. Umbria I, ord. 16 novembre 2016, n. 705).

La parità delle parti del processo

Nel processo amministrativo vi è stato spesso un problema di effettiva parità delle parti; soprattutto nel passato, l'amministrazione ha conservato anche in sede processuale una posizione di preminenza non giustificata.

Nel diritto amministrativo sostanziale, ossia nell'attività amministrativa, la preminenza della P.A. è dovuta dalla natura del nostro ordinamento (a diritto amministrativo), in cui il soggetto pubblico si pone in posizione di supremazia rispetto al cittadino, potendo esercitare poteri autoritativi e unilaterali, idonei a incidere sulla posizione giuridica dei privati, anche senza il loro consenso.

Una volta esercitato il potere, godendo di tale supremazia, non vi è alcuna ragione per attribuire alla amministrazione posizioni di vantaggio in sede processuale, come a volte avvenuto in passato (ad esempio, con il riconoscimento della possibilità di eccepire la prescrizione d'ufficio da parte del giudice o in appello; principio poi rimeditato dalla giurisprudenza, come chiarito oltre).

Anzi, in sede processuale sussistono in alcuni casi ragioni opposte, dirette a ristabilire una posizione di parità a vantaggio del privato, il quale, soprattutto nei giudizi di annullamento, ha maggiori difficoltà ad acquisire gli elementi probatori che sono nella disponibilità della P.A. (da qui, l'esigenza di temperare il principio dispositivo in materia probatoria con il metodo acquisitivo).

Per tali ragioni, il richiamo alla parità delle parti, contenuto nell'art. 2 del Codice, assume una straordinaria importanza.

L'affermazione del principio è collocata nell'ambito di un diretto richiamo all' art. 111 della Costituzione, che include nel giusto processo il rispetto del contraddittorio, la parità delle parti davanti ad un giudice terzo e imparziale, oltre che la ragionevole durata.

Alla luce della disciplina introdotta dal c.p.a., anche nel giudizio amministrativo deve ritenersi ammissibile l'interrogatorio libero delle parti: la sua ammissibilità, infatti, oltre a non essere preclusa dal carattere formale dell'attività amministrativa procedimentale (come si desume dall'ammissibilità della testimonianza scritta e dalla possibilità del Giudice di desumere argomenti di prova anche dal comportamento delle parti nel corso del processo, ex art. 64, comma 4, c.p.a.), si impone sia in considerazione della pari dignità delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte (che impone di evitare disparità di tutela sul terreno probatorio tra la sede giurisdizionale ordinaria e quella amministrativa); sia in ossequio al principio di parità delle parti ( art. 2 c.p.a.), concretizzando la facoltà della parte privata di formulare chiarimenti (non a caso l'art. 63, comma 1, riferisce il potere del Giudice di chiedere chiarimenti “alle parti”) T.A.R. Lombardia (Milano) III, 6 aprile 2011, n. 904.

L'art. 37, nella parte in cui stabilisce che la rimessione in termini per errore scusabile può essere disposta solo in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto, è norma di stretta interpretazione, dal momento che un uso eccessivamente ampio della discrezionalità giudiziaria che essa presuppone, lungi dal rafforzare l'effettività della tutela giurisdizionale, potrebbe alla fine risolversi in un grave vulnus del pari ordinato principio di parità delle parti richiamato dall'art. 2, comma 1, dello stesso Codice, sul versante del rispetto dei termini perentori stabiliti dalla legge processuale ( Cons. St. Ad. plen., n. 3/2010).

E’ stato anche affermato che in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, la dichiarazione di perenzione del giudizio da parte del giudice amministrativo non consente di ritenere insussistente il danno per disinteresse delle parte a coltivare il processo, in quanto, altrimenti, verrebbe a darsi rilievo ad una circostanza sopravvenuta - la dichiarazione di estinzione del giudizio - successiva rispetto al superamento del limite di durata ragionevole del processo. Tale principio trova applicazione anche nell’ipotesi in cui l’istanza di prelievo sia stata presentata una sola volta e in epoca risalente rispetto alla conclusione del giudizio, atteso che nessuna norma e nessun principio processuale impongono la reiterazione dell’istanza di prelievo ad intervalli più o meno regolari (Cass. II, n. 63/2018).

Il contraddittorio

Il principio del contraddittorio ha valenza costituzionale ed è sancito dall' art. 111 Cost., che stabilisce che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale.

L' art. 101 c.p.c. stabilisce che il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa.

Le eccezioni a tale principio riguardano essenzialmente le ipotesi di tutela cautelare anticipata, in cui l'irreparabilità del pregiudizio non consente di attendere una pronuncia del giudice emessa nel contraddittorio delle parti e rende necessaria la tutela ante causam o, comunque, inaudita altera parte. Ed infatti, l'art. 27 del codice conferma che nelle more dell'integrazione del contraddittorio il giudice può pronunciare provvedimenti cautelari interinali.

Nel processo amministrativo non sempre un difetto del contraddittorio conduce alla sua integrazione; infatti, rispetto al sistema processualcivilistico, il processo amministrativo è caratterizzato da oneri di notificazione degli atti ai litisconsorzi necessari, previsti a pena di decadenza.

La sanzione della decadenza è connessa al termine di decadenza previsto per impugnare gli atti amministrativi e, quindi, alla tipica azione di annullamento e, di conseguenza, la notifica, a pena di decadenza, all'amministrazione e ad almeno un controinteressato è prevista per la sola azione di annullamento.

Il principio del contraddittorio è stato rafforzato da diverse disposizioni del Codice; ad esempio, l'introduzione sia in relazione all'udienza cautelare che a quella di merito di precisi termini a difesa (anche di replica per l'udienza di merito) costituisce una garanzia dell'effettivo rispetto del contraddittorio.

Allo stesso scopo, una disposizione del tutto innovativa è stata introdotta con l'art. 73, comma 3, del Codice, che stabilisce che il giudice, se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, deve indicarla in udienza dandone atto a verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest'ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie.

Il contraddittorio opera, quindi, anche rispetto ai poteri officiosi del giudice, in modo che le parti possano appunto contraddire sui presupposti per l'esercizio di tali poteri e sulla questione rilevata d'ufficio.

La soluzione individuata dal Codice era stata anticipata da un pronuncia del 2000 dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che però non aveva avuto piena attuazione da parte della successiva giurisprudenza; la Plenaria aveva già affermato, infatti, che il giudice amministrativo, prima di decidere una questione rilevata d'ufficio, deve indicarla alle parti, per consentirne la trattazione, in attuazione del principio del contraddittorio (Cons. St.Ad. plen., n. 1/2000).

In tale occasione, era stato osservato che in un sistema processuale come quello vigente fondato sul principio del contraddittorio la rilevabilità d'ufficio di una questione da parte del giudice non significa che, per ciò stesso, tale questione possa essere decisa d'ufficio senza esser sottoposta al contraddittorio delle parti.

In questa prospettiva, “rilevare d'ufficio” sta per “indicare d'ufficio alle parti” (arg. ex art. 183, comma 3, c.p.c., secondo cui il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione, ed ex art. 184, comma 3, c.p.c., secondo cui nel caso in cui vengano disposti d'ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi).

Il Codice ha codificato tale regola.

Bibliografia

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