Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 12 - Rapporti con l'arbitrato

Rita Tuccillo

Rapporti con l'arbitrato

 

1. Le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile 1.

Note operative

Tipologia di atto Termine Decorrenza
Notificazione impugnazione per nullità del lodo 90 giorni dalla notificazione del lodo
1 anno dall'ultima sottoscrizione del lodo
Revocazione e opposizione di terzo ex art. 404, comma 2, c.p.c. 30 giorni dalla scoperta del dolo, della falsità, della collusione o dal recupero di documenti
Giudizio di ottemperanza 10 anni dal passaggio in giudicato del lodo

Inquadramento

Il ricorso allo strumento arbitrale nelle controversie che coinvolgono la pubblica amministrazione è oggetto di un dibattito antico, ma mai sopito.

Il principale ostacolo alla diffusione dello strumento arbitrale per tali controversie è stato storicamente ravvisato nella indisponibilità delle situazioni giuridiche soggettive connesse alla tutela di un interesse pubblico e, dunque, nella ritenuta generale indisponibilità del potere amministrativo. Peraltro, la riconducibilità dell'arbitrato, in sede di impugnazione del lodo, nell'alveo della giurisdizione ordinaria, determinando una deroga alla giurisdizione del giudice amministrativo, era considerata – fintantoché l'ordinamento non ne prevedesse altri esempi — difficilmente compatibile con la regola, allora piuttosto rigida, del riparto di giurisdizione.

L' art. 6 della l. n. 205/2000 ha determinato il superamento del principio di inammissibilità dell'arbitrato nelle materie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, consentendo il ricorso a tale strumento, purché rituale e di diritto, per la risoluzione delle controversie riguardanti diritti soggettivi, a prescindere dalla loro tutelabilità innanzi al giudice ordinario o a quello amministrativo. Con tale disposizione, il criterio formale dell'ammissibilità dell'arbitrato fondato sul giudice cui è devoluta la controversia è stato, quindi, sostituito dal criterio sostanziale della natura della situazione giuridica fatta valere in giudizio.

Il citato art. 6 l. n. 205/2000 conteneva, dunque, due limiti posti a confine dell'uso dell'arbitrato nel diritto amministrativo: un limite esterno di carattere oggettivo, nella misura in cui si provvedeva a circoscrivere l'ambito di applicazione dell'arbitrato alle sole controversie concernenti diritti soggettivi; e un limite interno relativo alla tipologia di arbitrato, che poteva, e può, essere solo quello rituale e di diritto, escludendo, dunque, il ricorso all'arbitrato irrituale e a quello secondo equità.

Il d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, riproducendo il contenuto del citato art. 6, l. n. 205/2000, contempla l'arbitrato rituale di diritto, ai sensi degli artt. 806 e seguenti c.p.c., fra gli strumenti di risoluzione delle controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo.

L'art. 12 in esame, nella sua versione originaria, mancava di disciplinare espressamente il procedimento arbitrale, così lasciando irrisolti tutti i problemi esegetici posti dal citato articolo 6 l. 21 luglio 2000 n. 205, tra cui quello dell'esecutività del lodo, ex art. 825 c.p.c., e quello dei mezzi di impugnazione, ex art. 827 c.p.c. Tale lacuna è stata colmata, a seguito del d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 contenente disposizioni correttive e integrative, con l'introduzione nell' art. 12 del c.p.a. dell'espressione «ai sensi degli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile», con cui si è chiarito che la disciplina del procedimento arbitrale contemplato dal citato art. 12 è quella dettata dal codice di procedura civile.

In tal modo, il codice del processo amministrativo ( d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104), ha introdotto una disposizione generale sull'arbitrato, che ha istituito tale strumento procedimento sostitutivo della giurisdizione, per le questioni attinenti a diritti soggettivi, applicabile anche alle controversie rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo.

Le controversie compromettibili in arbitrato

L'art. 12 stabilisce che possono essere risolte mediante un arbitrato rituale di diritto le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Se ne ricava dunque che, in linea di principio, il ricorso all'arbitrato deve ritenersi escluso per la risoluzione di controversie aventi ad oggetto interessi legittimi, ovvero aventi ad oggetto situazioni giuridiche soggettive che si confrontano con un potere autoritativo, più o meno discrezionale, esercitato dalla pubblica amministrazione nell'esercizio di una funzione espressamente attribuita alla cura di quest'ultima da una norma di legge.

In tali casi, infatti, il requisito della disponibilità della res litigiosa, presupposto per la compromettibilità delle liti, sancito dall' art. 806 c.p.c., non potrebbe ritenersi sussistente, atteso che la legittimità dell'azione amministrativa, su cui l'interesse legittimo fonda la propria tutela, è indisponibile e irrinunciabile tanto per la pubblica amministrazione quanto per il privato. In altre parole, se la spettanza del bene della vita cui (o alla cui conservazione) il privato ambisce può essere compressa secundum ius, in nome dell'interesse pubblico, non si può rinunciare alla legittimità dell'esercizio del potere (che compressione determina) senza violazione di legge.

L'impostazione è stata confermata dalla Corte di Cassazione che con la sentenza a Sezioni Unite n. 25508/2006 (Cass.S.U., n. 25508/2006), riferita all' art. 6 l. n. 205/2000, ha chiarito che mentre possono formare oggetto di compromesso le controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi devolute al giudice amministrativo, resta preclusa la compromettibilità in arbitri delle liti su interessi legittimi (conf. Cass. n. 2126/2014).

Autorevole dottrina ha, tuttavia, affermato che dalla lettera dell' art. 6 l. n. 205/2000 non sia ricavabile l'esclusione implicita delle controversie in tema di interessi legittimi dall'insieme di quelle deferibili ad arbitri (Delsignore). Il riferimento contenuto nell' art. 806 c.p.c., così come quello contenuto nell'art. 12 in commento, ai “diritti” dovrebbe intendersi come riassuntivo di tutte le situazioni giuridiche soggettive, compresi gli interessi legittimi.

La disposizione in commento pone dubbi sull'ambito di applicazione del procedimento arbitrale, in particolare: sulla compromettibilità in arbitri delle controversie relative a diritti soggettivi riconducibili alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo e di quelle relative al risarcimento del danno conseguente alle lesione di interessi legittimi.

Sotto il primo aspetto, la tesi prevalente, in dottrina e giurisprudenza, in relazione al previgente art. 6, comma 2, l. n. 205/2000, era quella di ammettere la devoluzione ad arbitri delle sole controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Ciò in quanto la disposizione conteneva una deroga alla giurisdizione, avendo l'effetto di affidare al giudice ordinario, in sede di impugnazione del lodo, le controversie che, in assenza del compromesso, sarebbero state affidate alla giurisdizione del giudice amministrativo e, dunque, doveva reputarsi di stretta interpretazione ( Cass.S.U., n. 14090/2004; Cass.S.U., n. 22903/2205; Cass.S.U., n. 25508/2006). Tale impostazione era, peraltro, confermata dalla interpretazione sistematica dell' art. 6 l. n. 205/2000, che si inseriva in un corpo di norme teso a disciplinare specificamente i poteri del giudice amministrativo in seno alla giurisdizione esclusiva.

Con l'entrata in vigore dell'art. 12 in esame la giurisprudenza ha espresso un duplice orientamento: (i) in alcune recenti sentenze si è affermato che l'art. 12 deve essere interpretato in senso estensivo rispetto al previgente sistema normativo, in quanto ha consentito di risolvere mediante arbitrato rituale di diritto le controversie concernenti diritti soggettivi, a prescindere dalla loro possibilità di tutela dinanzi al giudice ordinario o al giudice amministrativo (T.A.R. Campania (Napoli), n. 1290/2016); (ii) al contrario altro orientamento giurisprudenziale reputa l'art. 12 norma di natura eccezionale e, dunque, di necessaria stretta interpretazione, atteso che l'accordo delle parti, espresso nel patto compromissorio, può comportare una deroga indiretta alla giurisdizione, laddove la controversia riguardi una materia per la quale il legislatore abbia previsto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (T.A.R. Campania (Napoli), n. 5553/2016).

Secondo un orientamento dottrinale l'art. 12, benché abbia sostanzialmente riprodotto il contenuto del citato art. 6 l. n. 205/2000, si pone all'interno del Codice del processo amministrativo, d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, in un contesto differente (Libro I, Titolo I, Capo III), tale da attribuire alla disposizione in questione una portata più generale, estesa non solo alla giurisdizione esclusiva ma a tutta la giurisdizione amministrativa. La collocazione sistematica dell'art. 12 e la funzione di riordino e di disciplina della giurisdizione amministrativa perseguita dal d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104 inducono a ritenere che tra le controversie compromettibili si possano ammettere anche quelle relative ai diritti patrimoniali consequenziali che rientrano nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo (Sandulli; Picozza).

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione in una recentissima pronuncia (Cass. S.U., n. 1392/2022) hanno evidenziato che al fine di valutare la compromettibilità in arbitrato di una controversia derivante dall’esecuzione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento amministrativo, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, occorre valutare la natura delle situazioni giuridiche azionate, potendosi ricorrere allo strumento arbitrale solo se tali situazioni abbiano la consistenza di diritto soggettivo, ai sensi dell’art. 12 c.p.a., e non invece la consistenza di interesse legittimo. In questo modo confermando che il criterio per la valutazione della compromettibilità in arbitri di una controversia in cui è parte la P.A.  risiede esclusivamente nella natura della posizione giuridica di cui si domanda la tutela, non rilevando l’eventuale sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

La medesima impostazione è stata adottata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza dell’11 maggio 2021, n. 12428 secondo la quale la convenzione urbanistica, quale accordo sostitutivo ex art. 11 l. n. 241/1990, non è suscettibile - per tutto ciò che non è disposto dal regolamento contrattuale – di produrre obblighi per la pubblica amministrazione correlati a diritti soggettivi del privato attraverso l'integrazione legale dell'accordo, in ragione della incompatibilità del principio di integrazione del contratto sulla base della buona fede con la norma attributiva del potere amministrativo. Pertanto la controversia derivante dalla mancata adozione di provvedimenti da parte della pubblica amministrazione che abbia determinato la non eseguibilità della convenzione urbanistica non può essere risolta mediante arbitrato rituale in quanto è afferente ad interessi legittimi. Al contrario, la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell'affidamento del privato nell'emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, in quanto concernente diritti soggettivi, può essere compromessa mediante arbitrato rituale. Ciò a condizione che sia identificabile un comportamento della pubblica amministrazione, diverso dalla mera inerzia o dalla mera sequenza di atti formali di cui si compone il procedimento amministrativo, che abbia cagionato al privato un danno in modo indipendente da eventuali illegittimità di diritto pubblico ovvero che abbia indotto il privato a non esperire gli strumenti previsti per la tutela dell'interesse legittimo pretensivo a causa del ragionevole affidamento riposto nell'emanazione del provvedimento non più adottato.

Altro aspetto problematico attiene alla compromettibilità in arbitri delle controversie riguardanti il risarcimento del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi o dal ritardo nell'esercizio della funzione pubblica.

Secondo un orientamento dottrinale l'art. 12 avrebbe inteso consentire la risoluzione mediante arbitrato rituale di tutte le controversie risarcitorie e, dunque, anche di quelle relative a interessi legittimi. In tali circostanze, infatti, agli arbitri non verrebbe affidata una questione concernente un interesse legittimo, bensì solo le conseguenze patrimoniali dell'illegittimo o mancato esercizio del potere amministrativo che a quell'interesse legittimo corrisponde (Sandulli).

Altra tesi esclude invece la possibilità di una simile estensione dell'ambito applicativo del procedimento arbitrale, in quanto il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi costituisce pur sempre una forma di tutela di tale situazione giuridica soggettiva, seppur per equivalente e non in forma specifica (Pajno).

Tale ultima lettura, peraltro, è in linea con la pronuncia della Corte costituzionale n. 204/2004, secondo la quale il potere del giudice amministrativo di disporre il risarcimento del danno ingiusto non costituisce una nuova materia attribuita al giudice amministrativo, bensì solo una forma ulteriore di tutela.

Al contrario, possono formare oggetto di arbitrato le controversie relative a situazioni nelle quali l'amministrazione abbia agito iure privatorum. Ove l'amministrazione non spende il potere ad essa attribuito per il perseguimento dell'interesse pubblico, il regime giuridico che ne regola l'azione — e il regime giuridico delle controversie che la riguardano — non si differenzia da quella di ogni altro soggetto dell'ordinamento: la mera circostanza che la pubblica amministrazione sia parte di un giudizio non determina conseguenze processuali, se non l'applicazione delle disposizioni riguardanti la rappresentanza in giudizio e il foro competente.

In tali ipotesi, dunque, le amministrazioni pubbliche, come oggi ricordato dall' art. 1-bis l. 7 agosto 1990 n. 241, sono sottoposte al diritto comune e non vi sarà neppure spazio per un vero e proprio arbitrato amministrativo, dovendo trovare applicazione l'istituto arbitrale di diritto comune (Cassese).

Allo stesso modo, devono reputarsi transigibili e arbitrabili le controversie, su diritti soggettivi, riguardanti i danni subiti dal privato in relazione ad attività meramente esecutiva della Pubblica Amministrazione, svolta al di fuori della valutazione attinente alla ponderazione di interessi pubblici, che sono sottratte alla giurisdizione del giudice amministrativo ed attribuite alla cognizione del giudice ordinario (Cass.S.U., n. 22521/2006).

La convenzione arbitrale

Le parti possono deferire la decisione di una controversia tra loro insorta, insorgenda o solo eventuale, mediante la conclusione di un accordo denominato “convenzione arbitrale”, che può assumere la forma del compromesso o della clausola compromissoria.

Alla convenzione arbitrale è riconosciuta natura di negozio comune di diritto privato. Le peculiarità della funzione del negozio o della sua causa hanno però indotto autorevoli autori ad inquadrare la convenzione tra i contratti di natura speciale o tra i contratti processuali o ad effetti processuali. Il contratto di arbitrato spiega, infatti, la sua efficacia nel processo futuro o pendente, impedendo la costituzione di un rapporto processuale e sostituendo al processo la definizione delle controversie con un giudizio altrui (Chiovenda). Tuttavia permangono dubbi sulla qualificazione giuridica della convenzione arbitrale e sulla riconducibilità della stessa al contratto, attesa l'assenza del requisito della patrimonialità della prestazione, elemento caratterizzante il contratto come disciplinato dall' art. 1321 c.c. (Carnelutti). La convenzione arbitrale dovrebbe, quindi, essere ricondotta alla generale categoria degli atti con struttura bilaterale, dei quali il contratto rappresenta solo una specie (R. Tuccillo).

Il compromesso è un contratto stipulato tra le parti con il quale le stesse si obbligano affinché quanto oggetto del compromesso sia sottratto alla cognizione della giurisdizione ordinaria per rientrare nella cognizione del giudizio arbitrale. È un contratto di diritto privato con il quale le parti sottraggono la controversia già insorta alla cognizione del giudice ordinario e deferiscono la decisione agli arbitri, i quali emetteranno il lodo.

La clausola compromissoria è un accordo, inserito in un contratto, con cui le parti, preventivamente, si impegnano affinché una probabile e futura controversia che possa tra loro insorgere venga decisa da arbitri. Pertanto mentre il compromesso si riferisce a controversie già insorte tra le parti, la clausola compromissoria riguarda una lite non ancora insorta.

La convenzione arbitrale, sia nella forma del compromesso che nella forma della clausola compromissoria, può essere oggetto di rinuncia che può essere esplicita oppure implicita: quest'ultimo caso si verifica allorquando le parti, concordemente, si rivolgano al giudice ordinario.

Tanto il compromesso quanto la clausola compromissoria devono rivestire la forma scritta, a pena nullità e determinare l'oggetto della controversia. La validità della convenzione arbitrale è, quindi, subordinata alla sussistenza di due requisiti: (i) la forma scritta e (ii) la descrizione dell'oggetto.

Il requisito della forma scritta (i) è reputato elemento di certezza e di responsabilizzazione delle parti stipulanti, anche se non necessariamente deve esserci contestualità nella predisposizione del documento (Punzi). Risulta, dunque, evidente che il requisito formale è previsto ad substantiam ed il mancato rispetto comporta l'inesorabile nullità dell'atto di compromesso.

Tra le forme scritte ritenute valide sono comprese, in aggiunta al telegrafo e alla telescrivente, il fax e i messaggi telematici, con espresso richiamo alla normativa, anche regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti trasmessi in via telematica. Tale previsione costituisce il necessario adeguamento della normativa interna alle convenzioni internazionali in materia di arbitrato, in particolare alla Convenzione di New York del 1958 e alla Convenzione di Ginevra del 1961, nonché alla legge modello sull'arbitrato dell'UNCITRAL, che hanno riconosciuto la facoltà di ricorrere alla forma elettronica e la equipollenza di tale forma a quella scritta.

Ulteriore requisito richiesto ad substantiam è rappresentato dalla determinazione dell'oggetto (ii), ossia dalla indicazione delle controversie devolute alla cognizione degli arbitri e nella formulazione dei quesiti, contenenti gli elementi propri della domanda giudiziale e costituiscono il limite della competenza degli arbitri.

L'oggetto deve essere formulato in specifici quesiti che verranno sottoposti agli arbitri, in questo modo definendo l'ambito di cognizione degli stessi. Secondo la dottrina, tuttavia, la formulazione specifica non è necessaria essendo sufficiente che le parti indichino nel compromesso l'oggetto del contendere, formulando in seguito specifici quesiti (Redenti). Ciò che il compromesso deve necessariamente indicare è la prospettazione di parte del problema sottoposto al giudizio degli arbitri e la richiesta al collegio di risolverlo in un determinato senso.

La convenzione arbitrale deve, inoltre, contenere la nomina degli arbitri o stabilire il numero di essi e il modo di nominarli. Le parti devono, quindi, indicare gli arbitri chiamati a risolvere la controversia insorta o quanto meno stabilire le modalità di nomina ed il numero degli stessi. La determinazione di tali modalità non è però richiesta ad substantiam, infatti nel caso di mancata indicazione del numero degli arbitri è il legislatore a stabilire che gli arbitri sono tre e, in mancanza di nomina e di accordo tra le parti, vi provvede il presidente del tribunale nei modi previsti dall' articolo 810 c.p.c.

La nomina degli arbitri

La convenzione arbitrale dcontiene, di regola, la nomina degli arbitri, o quantomeno il numero degli stessi e il modo o la procedura per nominarli.. Laddove la convenzione arbitrale non contenga già la nomina degli arbitri, ciascuna parte può provvedere mediante atto notificato per iscritto, nel quale rende noto all'altra l'arbitro o gli arbitri che essa nomina, con invito a procedere alla designazione dei propri, nei venti giorni successivi. In mancanza, la parte che ha fatto l'invito può chiedere, mediante ricorso, che la nomina sia fatta dal presidente del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato. Se le parti non hanno ancora determinato tale sede, il ricorso è presentato al presidente del tribunale del luogo in cui è stata stipulata la convenzione d'arbitrato oppure, se tale luogo è all'estero, al presidente del tribunale di Roma. Nonostante ci siano voci contrarie, appare prevalente la tesi che considera questa disposizione normativa integralmente applicabile anche all’arbitrato di cui all’art. 12 c.p.a. e dunque riconosce al presidente del tribunale il compito di provvedere alla nomina dell’arbitro o degli arbitri in caso di inerzia di una o più parti. In tale ipotesi, infatti, le funzioni attribuite al presidente del tribunale appaiono tipicamente riconducibili alla funzione di volontaria giurisdizione, senza alcuna incisione sullo sviluppo del procedimento e della decisione finale della controversia.

Come anticipato, in ogni caso la convenzione arbitrale deve stabilire, quantomeno, il numero degli arbitri e il modo di nominarli. Le parti devono, quindi, indicare gli arbitri chiamati a risolvere la controversia insorta o quanto meno stabilire le modalità di nomina ed il numero degli stessi. La determinazione di tali modalità non è però richiesta ad substantiam per la validità della convenzione arbitrale, infatti nel caso di mancata indicazione del numero degli arbitri è il legislatore a stabilire che gli arbitri sono tre e, in mancanza di nomina e di accordo tra le parti, vi provvede il presidente del tribunale nei modi previsti dall'articolo 810 c.p.c.

Il Decreto legislativo del 10 ottobre 2022, n. 149 “Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonchè in materia di esecuzione forzata” all’art. 3, commi 51 e 52, ha introdotto alcune rilevanti novità in tema di scelta e nomina degli arbitri.

In particolare, l’art. 810 c.p.c. nella sua attuale formulazione prevede che la nomina degli arbitri ad opera del presidente del tribunale territorialmente competente avvenga nel rispetto di criteri “che assicurano trasparenza, rotazione ed efficienza e, a tal fine della nomina viene data notizia sul sito dell’ufficio giudiziario”. Con tale disposizione si introduce un principio di rotazione nelle nomine e di maggiore pubblicità e trasparenza, a garanzia del buon funzionamento del procedimento di nomina. Alle medesime finalità è funzionalmente volta anche la modifica degli artt. 813 e 815 c.p.c. che introduce l’obbligo per gli arbitri di presentare una dichiarazione, a pena nullità, sulle eventuali circostanze che potrebbero essere suscettibili di valutazioni problematiche sul piano dell’indipendenza e dell’imparzialità.

Interpretazione della convenzione arbitrale

Il d.lgs. n. 40/2006 ha introdotto l' art. 808-quater c.p.c. che statuisce, nel caso di dubbio sull'interpretazione della convenzione arbitrale, che la stessa si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto a cui la convenzione si riferisce.

La disposizione, espressione del favor arbitrati che ha caratterizzato la riforma del codice di procedura civile del 2006, rafforza l'investitura dell'arbitro, atteso che ove sorgano dubbi sul potere degli arbitri di conoscere taluni aspetti della lite, la disposizione stabilisce che tutte le controversie derivanti dal contratto o dal rapporto devono essere conosciute e decise dagli arbitri stessi. Il presupposto di applicabilità della norma interpretativa è il dubbio sulla esclusione o sulla inclusione della controversia dall'ambito di applicazione della convenzione arbitrale, di cui il legislatore ha fornito il criterio di risoluzione. La norma stabilisce, infatti, il criterio di soluzione del dubbio sull'oggetto della convenzione arbitrale, stabilendo l'estensione della competenza arbitrale a tutte le controversie derivanti dal contratto o dal rapporto a cui la convenzione si riferisce (R. Tuccillo).

Il rinvio contenuto nell'art. 12 in commento agli artt. 806 e ss. c.p.c. consente, senza dubbio, di ritenere applicabile anche agli arbitrati in cui è parte la pubblica amministrazione la disposizione contenuta nell' art. 808-quater c.p.c. L'applicazione dell' art. 808-quater c.p.c. incontra pur sempre il limite della arbitrabilità delle controversie che coinvolgono la pubblica amministrazione, ossia l'avere ad oggetto diritti soggettivi. Laddove nel giudizio arbitrale sorgano questioni attinenti ad interessi legittimi, le stesse non potranno essere decise dagli arbitri: l' art. 808-quater c.p.c. incontrerebbe, in tali ipotesi, ostacolo invalicabile nella lettera dell' art. 12 c.p.a. che consente il ricorso all'arbitrato solo per le liti aventi ad oggetto diritti soggettivi.

Capacità di concludere la convenzione arbitrale

La legittimazione a compromettere in arbitri si riferisce al potere di disporre in relazione al rapporto controverso. Deve, quindi, reputarsi superata la concezione della convenzione arbitrale alla stregua di un atto di straordinaria amministrazione, a prescindere dalle situazioni giuridiche coinvolte: il potere di stipulare il compromesso e la clausola compromissoria deriva dalla capacità di disporre del rapporto controverso. Dalla natura giuridica del rapporto controverso dipende altresì la qualificazione del compromesso e della clausola compromissoria quale atto di straordinario o ordinaria amministrazione.

La capacità di essere parte del compromesso spetta, quindi, a tutte le persone fisiche e giuridiche, secondo le ordinarie regole dettate per la conclusione dei contratti ( art. 2 c.c. e artt. 2384 e 2475-bis c.c.), attivamente o passivamente legittimate rispetto all'azione — pretesa che forma oggetto della controversia (ai sensi dell' art. 100 c.p.c.).

Con riguardo alla pubblica amministrazione si ritiene che il soggetto investito del potere di rappresentanza sostanziale è munito altresì del potere di stipulare patti compromissori. In relazione alle amministrazioni dello Stato si deve escludere che la legittimazione a stipulare compromessi competa alla Avvocatura dello Stato, che dell'amministrazione ha solo la rappresentanza processuale e non quella sostanziale

La domanda arbitrale

Il D.lgs. n. 149/2022 ha introdotto l'art. 816 bis 1 stabilendo che la “domanda di arbitrato produce gli effetti sostanziali della domanda giudiziale e li mantiene nei casi previsti dall'art. 819 quater”, che dal canto suo regola la continuazione del giudizio arbitrale davanti al giudice, laddove la causa, dopo la dichiarazione di incompetenza degli arbitri, venga riassunta in modo rituale. Le nuove disposizioni prevedono che la domanda proposta davanti al giudice continua a produrre effetti sostanziali e processuali se ritualmente coltivata, mercè l'avvio della procedura arbitrale, dopo una pronuncia di incompetenza in ragione dell'esistenza di una clausola arbitrale.

La riforma ha, quindi, disciplinato in modo espresso il fenomeno della cd. translatio iudicii tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario, e tra giudizio ordinario e giudizio arbitrale, prevedendo la possibilità, in tutte le ipotesi di declaratoria di competenza, di mantenere salvi gli effetti della domanda attraverso la predisposizione ad opera delle parti di tutte le attività necessarie all'avvio del processo. Nell'ipotesi in cui sia stato il giudice ordinario a dichiarare la propria incompetenza, le parti saranno onerate di procedere alla nomina degli arbitri, ai sensi dell'art 810 c.p.c; nel caso in cui, al contrario, la declinatoria di competenza sia contenuta nel lodo (o nella sentenza o ordinanza che definisce sulla impugnazione del lodo), le parti saranno tenute a procedere alla riassunzione della causa secondo quanto disposto dall'art. 125 disp att. c.p.c. Tali attività dovranno essere compiute nel termine di tre mesi decorrente dalla data del passaggio in giudicato della pronuncia di incompetenza o dall'avvenuto definitivo compimento delle possibili impugnazioni, in conformità a quanto previsto dall'art. 50 c.p.c. Al fine poi di assicurare l'efficacia della translatio disciplinata e dunque il coordinamento tra i processi, si prevede che le prove raccolte nel processo davanti al giudice o all'arbitro dichiarato incompetente possono essere valutate come argomenti di prova nel processo riassunto.

Considerata l'assenza di una disciplina ad hoc nel c.p.a. sulla trasmigrazione del procedimento dal giudice amministrativo agli arbitri, e viceversa, la disciplina descritta può ritenersi compatibile, in via integrativa, con la ovvia precisazione che i riferimenti contenuti nelle norme richiamate a tipologie di atti tipicamente civilistici devono essere interpretati in modo conforme alle forme e alle tipologie di atti previsti dal codice del processo amministrativo.

Il rito

La norma in commento stabilisce che le controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, possono essere deferite ad arbitri, mediante il ricorso all'arbitrato rituale di diritto.

L'espresso richiamo all'arbitrato rituale pone fine al dibattito giurisprudenziale sorto, in seguito all'entrata in vigore dell' art. 6 l. n. 205/2000, sulla ammissibilità del ricorso all'arbitrato irrituale o libero.

La ratio della scelta si rinviene nella rilevanza degli interessi pubblici coinvolti nelle materie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che, anche quando opera sul piano negoziale, la pubblica amministrazione è pur sempre portatrice di un interesse pubblico a cui il suo agire deve ispirarsi. Ne consegue l'inammissibilità del ricorso allo strumento dell'arbitrato libero, che non assicurerebbe adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta degli arbitri, nonché dell'iter procedimentale per la definizione della controversia (T.A.R. Sicilia (Catania), n. 621/2010).

Le ragioni della preclusione si rinvengono anche nella tradizionale concezione dell'arbitrato irrituale come uno strumento fondato esclusivamente sull'autonomia privata che, per tale sua natura, si conclude con un lodo avente valore contrattuale e con il quale le parti esprimono la volontà di attribuire a terzi non già il potere di decidere una controversia tra loro insorta, bensì il potere di concludere un atto negoziale volto alla composizione della lite (Cass. n. 19182/2013; Cass. n. 7574/2011; Cass. n. 24558/2015).

In questo senso si sono espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 8987/2009 ( Cass. S.U.,n. 8987/2009), in relazione ad un appalto di lavori, laddove hanno negato la possibilità di compromettere in arbitrato irrituale le controversie nelle quali è coinvolta una pubblica amministrazione. Ricorrendo all'arbitrato irrituale, l'amministrazione pubblica verrebbe, infatti, a trovarsi vincolata al rispetto di una decisione definita sulla base di criteri che non necessariamente sono stati preventivamente definiti, e ciò in contrasto con i principi che regolano l'agire della pubblica amministrazione, in forza dei quali non é consentito delegare a terzi estranei la formazione della volontà negoziale della pubblica amministrazione (in questo senso T.A.R. Lombardia (Milano), n. 1607/2014).

Tuttavia, un orientamento dottrinale reputa possibile il ricorso all'arbitrato irrituale per le controversie nelle quali la pubblica amministrazione agisce iure privatorum. L'art. 12, infatti, nel prevedere il ricorso esclusivamente all'arbitrato rituale in relazione alle controversie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, consentirebbe nei restanti casi, ossia in relazione alle controversie devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, il ricorso all'arbitrato irrituale. Tale impostazione sarebbe suffragata dalla affievolita distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale, stante l'identità di funzioni tra arbitri – rituali e irrituali – ai quali viene affidato il compito di giudicare e decidere una lite con un lodo che, a prescindere dalla natura, ha pur sempre gli effetti di un negozio stipulato tra le parti (Goisis; Angelini – Sigona; in senso contrario alla possibilità di ricorre all'arbitrato irrituale per le pubbliche amministrazioni Cassese; De Lise).

Al contrario, la giurisprudenza è prevalentemente orientata ad escludere la possibilità di ricorrere all'arbitrato irrituale per le controversie in cui sia parte una pubblica amministrazione anche se devolute alla giurisdizione del giudice ordinario. Il principio è stato chiarito dalla citata sentenza Cass. S.U.,n. 8987/2009, a tenore della quale la pubblica amministrazione, nel suo operare negoziale, non assume una posizione equiparata a quella del privato, anche quando agisce come privato.

Anche di recente, la Corte di Cassazione, III, con l'ordinanza n. 7759/2020 , ha ribadito che la Pubblica Amministrazione non può avvalersi, per la risoluzione delle controversie derivanti da contratti conclusi con privati, dello strumento del cd. arbitrato irrituale o libero poiché, in tal modo, il componimento della vertenza verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali) che, oltre ad essere individuati in difetto di qualsiasi procedimento legalmente determinato e, pertanto, senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta, sarebbero pure destinati ad operare secondo modalità parimenti non predefinite e non corredate dalle dette garanzie.

Questa tesi, che afferma la inammissibilità dell'arbitrato irrituale ove sia parte del procedimento una pubblica amministrazione è condivisa anche dalla prevalente dottrina. Gli argomenti addotti a supporto di tale si basano sulla natura “negoziale” dell'arbitrato libero: che, risolvendosi in una delega a terzi (gli arbitri-mandatari) della formazione della volontà dell'amministrazione, sarebbe incompatibile con i princìpi che regolano l'agere amministrativo nella misura in cui consentirebbe che il perseguimento del pubblico interesse sia affidato a soggetti estranei alla p.a., individuati «senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta», «destinati a operare secondo modalità parimenti non predefinite » e, per di più, «sottratti a ogni controllo, con l'effetto di rendere evanescente anche l'eventuale individuazione di qualsiasi conseguente responsabilità» (G. Tota).

La chiara formulazione dell'art. 12, in commento, consente altresì di escludere il ricorso all'arbitrato secondo equità nelle controversie riguardanti diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo. La preclusione sembra fondarsi sulla opportunità che gli interessi pubblici di cui è portatrice la pubblica amministrazione siano oggetto di una decisione stricto iure (Verde). Il giudizio secondo equità, infatti, non essendo basato sulla applicazione di regole astratte predeterminate per legge e conosciute o conoscibili da tutti, contrasterebbe con il dovere di trasparenza cui è sottoposta la pubblica amministrazione.

Il D.lgs. n. 149/2022 ha modificato altresì l'art. 822 c.p.c. disponendo che qualora gli arbitri siano chiamati a dirimere la controversia secondo diritto, è devoluta alla volontà delle parti, espressa nella clausola compromissoria o in un atto separato comunque antecedente all'instaurazione del procedimento, la facoltà di scegliere liberamente la legge applicabile alla controversia, con l'ulteriore specificazione che, in assenza di indicazione, gli arbitri decideranno secondo le norme o la legge individuate in base ai criteri di conflitto ritenuti applicabili. Stante il rinvio contenuto nell'art. 12 c.p.a. agli artt. 806 e ss. non sembrerebbe doversi escludere la possibilità anche nell'arbitrato in materia che le parti scelgano le norme o la legge da applicare al giudizio per la risoluzione della controversia insorta.

Impugnazione del lodo arbitrale

La norma in esame ha risolto anche le questioni sottese al cd. convogliamento del procedimento arbitrale in sede giurisdizionale e dell'impugnazione del lodo arbitrale. Benché la disposizione non abbia espressamente disciplinato l'integrazione, l'esecuzione e l'impugnazione del lodo, il rinvio espresso agli artt. 806 ss. c.p.c. induce a ritenere che debbano trovare applicazione anche gli artt. 825-831 c.p.c., con conseguente estensione agli arbitrati in cui è parte la pubblica amministrazione delle norme sulla esecuzione e impugnazione del lodo dettate dal codice di rito.

Ne consegue che competente a conoscere dell'impugnazione del lodo pronunciato su diritti soggettivi devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo è la Corte d'Appello territorialmente competente, ossia quella nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato, ai sensi dell' art. 828 c.p.c.

Con tale disposizione il legislatore ha inteso garantire la preservazione dell'arbitrato come strumento di diritto comune, assicurando l'unità del rito arbitrale, sia per le controversie devolute al giudice ordinario che al giudice amministrativo.

Tale impostazione è stata condivisa dal prevalente orientamento giurisprudenziale secondo cui l'impugnazione di lodi arbitrali rituali, compresi quelli pronunciati nell'ambito di controversie riconducibili alla sfera dell' art. 12 c.p.a., così come quella di ogni altro lodo arbitrale rituale, deve essere proposta dinanzi alla Corte d'Appello (T.A.R. Campania (Napoli), n. 5553/2016). Risulta, dunque, ad oggi, pacifica la devoluzione del giudizio di impugnazione avverso il lodo rituale, anche ove sia parte una pubblica amministrazione, alla Corte d'Appello territorialmente competente. La chiarezza del rinvio contenuto nell'art. 12 in commento alle disposizioni del codice di procedura civile non consente la sopravvivenza di ulteriori dubbi interpretativi circa la devoluzione del giudizio di impugnazione del lodo dinanzi al Consiglio di Stato (o al Tar secondo un minoritario orientamento).

Prima dell'introduzione del codice del processo amministrativo, giurisprudenza e dottrina si erano divise sulla necessità che del giudizio di impugnazione del lodo conoscesse il Consiglio di Stato o la Corte d'Appello.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, prima con l'ordinanza n. 15204/2006 (Cass. S.U., n. 15204/2006) e in seguito con la sentenza Cass. S.U., n. 16887/2013, hanno affermato che l'impugnazione di lodi arbitrali rituali pronunciati nell'ambito di controversie riconducibili alla sfera dell' art. 6 l. n. 205/2000, deve essere proposta dinanzi alla Corte d'Appello. A tale conclusione si giungerebbe dalla interpretazione sistematica delle norme dettate in tema di arbitrato rituale: l'unica disposizione volta alla determinazione del giudice competente su detta impugnazione è l' art. 828 c.p.c., da cui deve escludersi che la giurisdizione, in tali ipotesi, possa competere al Consiglio di Stato.

Peraltro, l'orientamento per cui le impugnazioni arbitrali, in tali casi, dovrebbero essere devolute al Consiglio di Stato, inteso quale giudice di appello rispetto al Tar, e, dunque, collocato in posizione di simmetria rispetto alla Corte di Appello, quale giudice di secondo grado rispetto al Tribunale, muove dall'erronea considerazione che l' art. 828 c.p.c. abbia investito la Corte d'Appello in quanto giudice di seconda istanza rispetto alle sentenze che il Tribunale sarebbe stato competente ad emettere, in assenza del compromesso o della clausola compromissoria. A ben guardare, l' art. 828 c.p.c., nell'attribuire la competenza alla Corte di Appello nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato, ha introdotto un criterio di attribuzione della competenza diverso rispetto agli ordinari criteri previsti dagli artt. 18 e ss. c.p.c. per la determinazione della competenza territoriale del giudice di primo grado.

Diversamente, un orientamento dottrinale ha osservato che la devoluzione del giudizio di impugnazione del lodo alla Corte d'Appello in luogo del Consiglio di Stato, determinerebbe la violazione dell' art. 25 Cost., sottraendo la decisione della controversia al giudice naturale precostituito per legge, ossia, nel caso in esame, al giudice amministrativo. Il ricorso all'arbitrato finirebbe con il rappresentare uno strumento di deviazione o di deroga alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, alterando così la volontà del legislatore (De Nictolis). Ciò a maggior ragione ove venga deferita alla Corte d'Appello non solo la cognizione della fase rescindente del lodo ma anche la fase rescissoria, che comporterebbe necessariamente la conoscenza e l'accertamento della originaria situazione giuridica sottesa alla controversia (Consolo, 2000; Marinucci).

La necessità di devolvere il giudizio di impugnazione al giudice amministrativo è stata affermata anche da Cons. St. n. 3655/2003 (nonché da T.A.R. Campania (Salerno), n. 940/2003). L'impugnazione del lodo arbitrale, in quanto alternativo alla pronuncia del giudice amministrativo di primo grado, deve essere proposto davanti al giudice amministrativo, a cui è per legge attribuito il compito di conoscere e valutare la fondatezza dell'azione risarcitoria conseguente alla lesione di un interesse legittimo, o la fondatezza di qualsiasi pretesa patrimoniale nascente da una convenzione di tipo pubblicistico rimessa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Dall'analisi testuale dell'art. 12, in esame, sembra, in ogni caso, doversi ritenere che competente a conoscere dell'impugnazione dei lodi sia la Corte d'Appello, alla quale è devoluta (confermando così l'orientamento espresso nella citata sentenza Cass. n. 16887/2013) non solo la cognizione della cd. fase rescindente dell'impugnazione del lodo, ma anche il potere-dovere, in caso di accoglimento dell'impugnazione e salvo contraria volontà di tutte le parti, di decidere nel merito nella controversia (cd. fase rescissoria, ai sensi dell' art. 830, secondo comma, c.p.c.).

Argomento a sostegno della tesi pare, inoltre, si possa ricavare dal generico rinvio agli artt. 806 ss. c.p.c. previsto nell' art. 12 c.p.a. e dalla formulazione dell' art. 830 c.p.c., ove sono indicati i casi in cui alla Corte d'Appello è precluso di decidere nel merito la controversia: la mancata indicazione fra le ipotesi ivi elencate di quella in esame induce a ritenere che l'impugnazione di lodi resi su materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo trovi la propria esclusiva disciplina negli artt. 829 ss. c.p.c.

L' art. 829 c.p.c. sancisce il principio per cui l'impugnazione del lodo per nullità è sempre ammessa, ma stabilisce quali sono i vizi dell'atto per cui è possibile accedere a tale rimedio, qualificando l'impugnazione come un rimedio a critica vincolata, non potendo le parti impugnare il lodo per una generica ingiustizia ma solo facendo valere uno dei motivi tassativamente elencati nel citato art. 829 c.p.c.

Il giudizio di impugnazione dei lodi che decidono controversie in cui è parte una pubblica amministrazione segue, quindi, il procedimento dettato dal codice di procedura civile: il giudizio di impugnazione si svolge secondo le norme dettate per il giudizio ordinario di cognizione, compresa la sospensione feriale dei termini ed è devoluto alla Corte d'Appello nella cui circoscrizione ha sede l'arbitrato.

Il primo dei motivi di impugnazione del lodo è l'invalidità della convenzione arbitrale. La nozione di nullità comprende non solo le ipotesi di inesistenza del lodo o di specifici vizi genetici del negozio compromissorio, ma anche quelle relative a limiti di compromettibilità della controversia e ogni altra ipotesi di nullità, annullabilità o inefficacia che determina l'insussistenza, originaria o sopravvenuta, della volontà contrattuale delle parti, la quale costituisce il fondamento della potestà decisoria degli arbitri.

Il lodo può essere impugnato nel caso in cui la nomina degli arbitri non sia coerente con le forme e i modi prescritti nei capi II e VI del presente titolo. Tale impugnazione è, tuttavia, subordinata alla preventiva deduzione della nullità nel giudizio arbitrale

Il lodo può essere impugnato anche se è stato pronunciato da chi non poteva rivestire la funzione di arbitro ai sensi dell' art. 812 c.p.c. Viziato da nullità è anche il lodo che sia esorbitante rispetto ai limiti sanciti con il patto compromissorio o che decida il merito della controversia quando non poteva essere deciso — cd. ultrapetizione.

Il lodo può formare oggetto di impugnazione, inoltre, ove sia carente di alcuni requisiti formali, ossia: i motivi, il dispositivo e la sottoscrizione.

Costituisce motivo di impugnazione del lodo anche il mancato rispetto del termine fissato dalle parti o previsto ex lege per la pronuncia del lodo. Tuttavia, tale vizio può essere eccepito come causa di nullità se la parte, prima della deliberazione del lodo risultante dal dispositivo sottoscritto dalla maggioranza degli arbitri, abbia notificato alle altre parti e agli arbitri la propria intenzione di far valere la decadenza ( ex art. 821 c.p.c.).

Le parti possono impugnare il lodo anche quando non siano state rispettate le forme previste a pena nullità per il procedimento arbitrale e nell'ipotesi di contrasto fra giudicati, ossia quando sia contrario ad altro lodo non più impugnabile o a sentenza passata in giudicata tra le parti “purchè tale lodo o tale sentenza sia stata prodotta nel procedimento”. La violazione del principio del contraddittorio dà luogo ad un vizio del lodo che può altresì formare oggetto di impugnazione, così come la mancata pronuncia nel merito, quando gli arbitri avrebbero dovuto deciderlo. Tale ultimo motivo di nullità conferma che contro il lodo non è ammissibile il regolamento di competenza e che l'unico rimedio è l'impugnazione per nullità, a cui deve farsi ricorso quando gli arbitri abbiano erroneamente ritenuto di emettere una decisione accogliendo una questione processuale di natura impediente.

Sono cause di nullità del lodo, infine, anche la sussistenza di disposizioni contraddittorie e il difetto di pronuncia, ossia l'ipotesi in cui gli arbitri abbiano omesso di decidere su una domanda o eccezione proposta dalle parti.

La pronuncia arbitrale può, infine, essere impugnata per violazione delle regole di diritto. Tale motivo nella disciplina previgente era sempre proponibile, salvo che le parti avessero espressamente devoluto agli arbitri la decisione secondo equità o quando avessero dichiarato il lodo non impugnabile. L'attuale disciplina sancita dall' art. 829 c.p.c. al contrario consente il ricorso a tale rimedio solo ove le parti lo abbiano espressamente previsto. L'impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è sempre ammessa nelle controversie in materia di lavoro e se la violazione delle regole di diritto concerne la soluzione di questione pregiudiziale su materia che non può essere oggetto di convenzione di arbitrato”.

L'impugnazione deve essere introdotta con atto di citazione, alla cui notificazione dovrà seguire la costituzione nel termine di cui all' art. 165 c.p.c.

Alla parte che ha dato causa a un motivo di nullità, o vi ha rinunciato, o che non ha eccepito nella prima istanza o difesa successiva la violazione di una regola che disciplina lo svolgimento del procedimento arbitrale, è inibita l'impugnazione del lodo per il medesimo motivo.

Il procedimento di impugnazione dinanzi alla Corte d'Appello non è oggetto di specifica disciplina per cui risulta modellato sulla base delle norme che regolano il procedimento di appello delle sentenze. Il legislatore però detta talune disposizioni sulla decisione. L' art. 830 c.p.c. precisa infatti che la Corte d'Appello se accoglie l'impugnazione dichiara la nullità del lodo, ma se il vizio incide solo su una parte dello stesso che sia scindibile dalle altre, ne dichiara la nullità parziale — cd. pronuncia rescindente. La Corte d'Appello di norma provvede alla pronuncia rescissoria se annulla per i motivi di cui all'art. 829, comma 1, nn. 5, 6, 7, 8, 9, 11 o 12, e 3, 4 e 5 comma, a meno che le parti abbiano espresso volontà contrario nella convenzione arbitrale o in atto successivo.

La riforma introdotta con il d.lgs. n. 149/2022 è intervenuta anche sui termini di impugnazione del lodo arbitrale. Il nuovo art. 828 c.p.c., infatti, dispone che l'impugnazione per nullità del lodo arbitrale non sarà più proponibile decorsi sei mesi dalla data dell'ultima sottoscrizione del lodo (termine lungo). La ratio del legislatore appare essere quella di uniformare il termine lungo di impugnazione del lodo arbitrale a quello previsto dall'art. 327 c.p.c. dettato per le impugnazioni ordinarie. Di contro, non verrà modificato il termine breve che rimarrà pari a novanta giorni dalla notificazione del lodo.

Revocazione e opposizione di terzo

Il rinvio contenuto nell'articolo in commento alle disposizioni di cui agli artt. 806 e ss. c.p.c. determina anche l'applicabilità ai lodi aventi ad oggetto diritti soggettivi devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo dei rimedi della revocazione e dell'opposizione di terzo.

L' art. 831 c.p.c., applicabile anche alle controversie in esame, consente, infatti, il ricorso alla revocazione nelle ipotesi previste dai numeri 1, 2, 3, e 6 dell' art. 395 c.p.c., ossia: 1) se il lodo è il risultato del dolo di una delle parti nei riguardi dell'altra; 2) se si è giunti alla pronuncia del lodo sulla base di prove riconosciute o dichiarate false dopo la emissione del lodo stesso o che si ignorava fossero state riconosciute false prima di tale pronuncia; 3) se in seguito alla pronuncia del lodo sono stati rinvenuti documenti decisivi che la parte interessata non ha potuto produrre per causa di forza maggiore o per il fatto dell'avversario; 6) se il lodo è il risultato del dolo dell'arbitro, o degli arbitri, accertato con sentenza passata in giudicato.

Resta, quindi, esclusa la possibilità di esperire la revocazione nelle ipotesi in cui il lodo sia l'effetto di un errore risultante dagli atti e nel caso di conflitto tra giudicati.

Alla revocazione avverso i lodi si applicano i termini e le forme stabiliti nel libro secondo del codice di procedura civile, pertanto, la revocazione sarà esperibile anche ove siano scaduti i termini per l'appello purché la scoperta del dolo, della falsità, dei documenti o la pronuncia della sentenza siano successivi alla scadenza del termine stesso.

Il lodo pronunciato a norma dell'art. 12 potrà essere oggetto altresì di opposizione di terzo, sia ordinaria che revocatoria, ex art. 404 c.p.c. Ne consegne che: il lodo reso tra altre persone potrà essere impugnato dal terzo ove pregiudichi i suoi diritti – opposizione ordinaria —; gli aventi causa e i creditori di una delle parti potranno impugnare il lodo che sia l'effetto del dolo o della collusione a loro danno – opposizione revocatoria-.

L'opposizione revocatoria deve essere proposta entro trenta giorni dalla scoperta del dolo o della collusione.

Giudizio di ottemperanza

Il codice del processo amministrativo ha risolto anche i dubbi sollevati da dottrina e giurisprudenza circa la possibilità di esperire il rimedio del giudizio di ottemperanza per l'attuazione dei lodi arbitrali. L' art. 112, comma 1, lett. e) c.p.a. ha previsto la proponibilità dell'azione di ottemperanza per l'attuazione dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili, per ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi al giudicato. Ad oggi, il lodo arbitrale, dunque, dichiarato esecutivo con decreto, ai sensi dell' art. 825 c.p.c., è titolo esecutivo ai sensi dell' art. 474 c.p.c., costituisce presupposto per la trascrizione e annotazione nei registri immobiliari ed è suscettibile di formare oggetto di giudizio di ottemperanza.

Il ricorso per l'ottemperanza deve essere proposto al Tar nella cui circoscrizione ha sede il collegio arbitrale che ha emesso il lodo di cui si chiede l'ottemperanza.

Il Consiglio di Stato nella sentenza Cons. St. n. 2542/2011 ha chiarito che l'azione di ottemperanza per l'esecuzione di un lodo arbitrale divenuto esecutivo ed inoppugnabile doveva reputarsi ammissibile anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 112, comma 2, lett. e) che lo ha normativamente ed espressamente consentito. Il nuovo codice ha recepito la prevalente interpretazione che riteneva equiparabile il lodo ad una sentenza con l'applicazione dell' art. 824-bis c.p.c. per cui «il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria».

Prima dell'entrata in vigore del c.p.a. l'esclusione dal giudizio di ottemperanza, disciplinato dagli artt. 27, n. 4, R.d. n. 1054/1924, n. 1054 e 37 l. n. 1034/1971, per le sentenze arbitrali era giustificata dal fatto che l' art. 37 l. n. 1034/1971 si riferisse alle sole sentenze di un'autorità giurisdizionale: la chiara lettera della legge escludeva alla radice la possibilità di fare ricorso al rimedio per ottenere l'esecuzione delle «sentenze arbitrali». Una interpretazione estensiva dell'art. 37, che, quindi, includesse i lodi tra i provvedimenti suscettibili di ottemperanza, non poteva fondarsi sulla mera natura giurisdizionale dell'arbitro dinanzi alla chiara lettera della disposizione.

La giurisprudenza, sul tema, aveva formulato opinioni non uniformi. Secondo un orientamento il lodo rituale, stante la natura negoziale dello stesso, non costituiva provvedimento idoneo ad attivare il giudizio di ottemperanza innanzi al giudice amministrativo. La caratteristica precipua della giurisdizione «che la rende una funzione squisitamente caratterizzante la sovranità dello Stato non è l'attività di giudizio in quanto tale», quanto piuttosto il cd. monopolio della forza, ossia l'attitudine esclusiva alla forza del giudicato, «idonea ad esaurire ogni potestà di giudizio sullo specifico frammento di vita» (T.A.R. Puglia (Lecce), n. 2800/2008; Tar Campania (Napoli), n. 1967/2009; Cass.S.U., n. 527/2000). Tale attitudine, tipica della sentenza, sarebbe carente nel lodo arbitrale. La mera attribuzione al lodo degli effetti della sentenza non inciderebbe sulla natura intrinseca di atto negoziale: al lodo può essere estesa l'efficacia della sentenza, intesa quale vincolatività della tutela giuridica in essa contenuta, ma non anche l'autorità del giudicato, ex art. 2909 c.c., che lungi dall'essere un effetto della sentenza ne costituisce una particolare qualità di tali effetti che si estrinseca nella immutabilità e incontrovertibilità dell'accertamento ivi previsto. L'inidoneità del lodo all'efficacia di giudicato si fondava, quindi, sull'assioma per cui il connotato della giurisdizione non è l'attività di giudizio in quanto tale — esercitabile, quindi, anche da giudici privati —, quanto piuttosto il fatto che ad essa soltanto compete la forza del giudicato, idonea ad esaurire ogni potestà di giudizio sulla specifica controversia. Secondo tale ricostruzione l'esecuzione in forma coattiva, espressione del principio di effettività della tutela, avrebbe dovuto essere riservata a quelle decisioni adottate da coloro che esercitano la funzione giurisdizionale, con esclusione, quindi, delle statuizioni eventualmente disposte da soggetti posti al di fuori di siffatto ambito, e tra questi gli arbitri privati, la cui pronuncia non assumerebbe la natura di decisione di merito da parte di un organo giurisdizionale dello Stato od assimilabile ad un siffatto organo.

Secondo un diverso orientamento l'azione di ottemperanza del lodo dichiarato esecutivo era da reputarsi ammissibile (T.A.R.Sicilia (Catania), n. 262/2009). Dinanzi all'Amministrazione inadempiente era possibile esperire due forme di tutela non solo l'ordinaria procedura di esecuzione prevista dal codice di procedura civile, ma anche il rimedio del giudizio di ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo (conforme Cons. St. n. 6241/2009).

Il superamento delle differenze tra sentenza e lodo arbitrale avviato con l'introduzione dell' art. 824-bis c.p.c., ad opera del d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, che ha equiparato il lodo a tutti gli effetti alla sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria, può dirsi cristallizzato nella disposizione contenuta nella lett. e del comma 2 dell' art. 112 c.p.a. Tale norma fissa espressamente l'equazione lodo – giudicato — ottemperanza, frutto del procedimento evolutivo fin qui esaminato e pone fine al dibattito giurisprudenziale e dottrinale sorto in materia.

La tutela cautelare

Tra le principali novità introdotte dal d.lgs. n. 149/2022 vi è la introduzione degli articoli 818 bis e ter c.p.c. e dunque la possibilità per le parti di attribuire agli arbitri, anche mediante il rinvio a regolamenti arbitrali, il potere di adottare provvedimenti cautelari. La disciplina riconosce che, mentre prima della instaurazione del processo arbitrale la competenza a emanare provvedimenti cautelari continua a rimanere una esclusiva competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria, una volta avviato il procedimento arbitrale e costituito l'organo arbitrale, ove le parti abbiano attribuito tale potere agli arbitri, lo stesso può essere esercitato esclusivamente dagli arbitri stessi. Al riconoscimento agli arbitri del potere cautelare corrisponde tuttavia il dovere di verifica e controllo sull'operato della corte d'appello nel cui distretto ha sede l'arbitrato, ai sensi dell'art. 818 bis c.p.c., competente a conoscere dell'eventuale reclamo. L'attuazione delle misure cautelari concesse dagli arbitri deve essere svolta invece sotto il controllo del tribunale nel cui circondario ha la sede l'arbitrato o, se la sede dell'arbitrato non è in Italia, del tribunale del luogo in cui la misura deve essere attuata.

Tali disposizioni necessitano di adeguamento nel sistema del processo amministrativo. Infatti, nelle liti vertenti in materia di giurisdizione esclusiva, in cui si disponga di diritti soggettivi e che siano sottoposte a clausola arbitrale, prima dell'avvio del giudizio arbitrale potrà essere solo il giudice amministrativo a concedere provvedimenti cautelari secondo la disciplina dettata dal codice del processo amministrativo. La riconosciuta potestà cautelare agli arbitri, nell'ambito del giudizio arbitrale, sembra porre in capo al giudice amministrativo il potere – dovere di decidere sulle impugnazioni avverso i provvedimenti cautelari e di adottare gli atti attutivi del provvedimento stesso. Si dovrebbe quindi riconoscere il potere di verifica e controllo della potestà cautelare arbitrale al giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del medesimo.

Tuttavia, il sistema processuale amministrativo cautelare è fondato su una disciplina generale, prevista dagli artt. 55 e ss., caratterizzata dalla stretta correlazione tra il ricorso introduttivo del giudizio di merito e la richiesta cautelare ad esso strumentale, non essendo previsto un procedimento cautelare ante causam. Il codice del processo amministrativo contempla, tuttavia, un'ipotesi di tutela processuale cautelare ante causam, all'art. 61 c.p.a., rubricato «Misure cautelari anteriori alla causa», che consente «in caso di eccezionale gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure cautelari provvisorie», al soggetto legittimato al ricorso di «proporre istanza per l'adozione delle misure interinali e provvisorie che appaiono indispensabili durante il tempo occorrente per la proposizione del ricorso di merito e della domanda cautelare in corso di causa». La citata disposizione individua, quindi, come organo giurisdizionale competente, cui va rivolta l'istanza notificata con le forme prescritte per la notificazione del ricorso, il presidente del tribunale amministrativo regionale competente per il giudizio di merito, il quale provvede sull'istanza, sentite, ove necessario, le parti e omessa ogni altra formalità. Il decreto che rigetta l'istanza non è impugnabile, ma la stessa può essere riproposta dopo l'inizio del giudizio di merito con le forme delle domande cautelari in corso di causa; il provvedimento di accoglimento, invece, è notificato dal richiedente alle altre parti entro il termine perentorio fissato dal giudice, non superiore a cinque giorni e perde effetto ove entro quindici giorni dalla sua emanazione non venga notificato il ricorso con la domanda cautelare ed esso non sia depositato nei successivi cinque giorni corredato da istanza di fissazione di udienza. In ogni caso la tutela cautelare concessa perde effetto con il decorso di sessanta giorni dalla sua emissione.

Con riguardo, quindi, alla tutela cautelare ante causam, la fattispecie processuale più compatibile con l'arbitrato potrebbe essere quella dettata dall'art. 61 c.p.a., essendo l'unica concernente un provvedimento adottabile antecausam e come tale slegata dalla contestuale proposizione di un ricorso introduttivo del giudizio di merito. Condividendo tale lettura, la competenza ad emettere il provvedimento cautelare ante causam spetterebbe al presidente del tribunale amministrativo regionale che sarebbe competente in assenza della clausola arbitrale, e spetterebbe poi agli arbitri disporre l'eventuale conferma della misura cautelare, purché il procedimento arbitrale sia avviato entro cinque giorni.

Alla medesima stregua il rimedio avverso il provvedimento cautelare emesso in sede arbitrale dovrebbe essere rinvenuto, laddove la controversia rientri nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nel sistema processuale amministrativo e, in particolare, nell'impugnativa proposta al Consiglio di Stato mediante l'appello cautelare di cui all'art. 62 c.p.a. Per l'attuazione della decisione cautelare, invece, potrebbe trovare applicazione l'art. 59 c.p.a., ove prevede che laddove i provvedimenti cautelari non siano eseguiti, l'interessato, con istanza motivata e notificata alle altre parti, può chiedere al tribunale amministrativo regionale le opportune misure attuative e il  tribunale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza.

Rapporti con la disciplina dell'arbitrato prevista nel d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50

Il d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50, all'art. 209, disciplina espressamente l'arbitrato relativo alle «controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee». La citata disposizione subordina l'inserimento della clausola compromissoria nel bando o nell'avviso con cui è indetta la gara alla previa autorizzazione motivata ad opera dell'organo di governo dell'amministrazione aggiudicatrice.

L'art. 209 precisa, inoltre, i criteri per la formazione del collegio arbitrale che deve essere composto da tre membri e il cui Presidente è nominato dalla Camera Arbitrale istituita, ai sensi dell'art. 210, presso l'Anac, ma contiene, al comma 10, una norma di chiusura, rinviando alle disposizioni del codice di procedura civile per quanto non espressamente previsto.

L'ambito di applicazione dell'art. 12 in esame risulta, dunque, limitato alle sole controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi devolute al giudice amministrativo che non derivino dall'esecuzione di contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture e concorsi di progettazione e di idee. Per queste ultime controversie, il d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 ha previsto, infatti, un procedimento arbitrale tipico e speciale, ben diverso da quello dettato nel codice del processo amministrativo.

Benché il rinvio al codice di procedura civile induca a ritenere che la disciplina processualcivilistica dell'arbitrato rappresenti l'archetipo normativo conformativo di tutti gli arbitrati rituali di diritto in cui è parte la pubblica amministrazione, le differenze tra gli strumenti arbitrali evidenziano un difetto di coordinamento tra discipline. Tale distonia tradisce uno degli obiettivi di ogni normazione codicistica (ivi compreso il codice del processo amministrativo): garantire unificazione, chiarificazione e coordinamento, riordinando le norme processuali contenute in una pluralità di testi normativi.

  La Corte  costituzionale Corte Cost n. 58/2019  si è pronunciata sul divieto di arbitrato in mancanza di preventiva e motivata autorizzazione amministrativa nelle controversie derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee. La Corte ha precisato che per la validità ed efficacia della clausola arbitrale è necessario che l'amministrazione aggiudicatrice autorizzi espressamente la procedura arbitrale. Qualora l'amministrazione pubblica intenda, quindi, definire la controversia al di fuori delle aule dei tribunale non è sufficiente che “la clausola compromissoria, che autorizza l'arbitrato, sia presente nel bando o nell'avviso di gara, ma occorre sempre una specifica motivazione dell'organo di governo dell'amministrazione aggiudicatrice, a sostegno dell'inserimento della clausola stessa”. La Corte Costituzionale sembra quindi aver fornita una interpretazione restrittiva  cdella disposizione in commento, subordinando  il ricorso all'arbitrato negli appalti pubblici, ad una previa, ed espressa, autorizzazione che ne assicuri la ponderata valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze del caso concreto.

Rapporti con il collegio consultivo tecnico

Il d.l. n. 76/2020 contenente «Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale ha (re)introdotto il collegio consultivo tecnico. In particolare il decreto legge ha fissato fino al 31 luglio 2021 l'obbligo di costituzione del collegio consultivo tecnico per appalti di valore superiore alle soglie comunitarie ovvero per opere di interesse nazionale.

Il collegio, oltre ad avere competenze specifiche in tema di sospensione e modifica delle opere, svolge la prioritaria funzione di assistenza per la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell'esecuzione del contratto stesso. Il collegio, le cui funzioni si avvicinano a quelle del Dispute Board presente nella contrattualistica internazionale, funge da interlocutore  durante tutte le fasi che interessano l'esecuzione dell'opera pubblico e, dunque, auspicabilmente, dovrebbe assicurare una riduzione del contenzioso in materia prevenendo l'insorgenza di controversie. Il collegio, infatti, dovrebbe operare nella risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche eventualmente insorte, la scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell'opera a regola d'arte.

L'articolo 6 citato espressamente stabilisce che le determinazioni del collegio consultivo tecnico hanno la natura del lodo contrattuale previsto dall'articolo 808-ter del codice di procedura civile, salva diversa e motivata volontà espressamente manifestata in forma scritta dalle parti stesse. Dunque si tratta di un istituto che, pur distinguendosi tanto dall'arbitrato rituale quanto dall'arbitrato irrituale, consentirebbe di prevenire e definire le controversie insorte nell'esecuzione dell'appalto mediante un lodo contrattuale. Benché, stante le differenze tra gli istituti, non possa dirsi che il legislatore abbia introdotto una vera e propria eccezione al divieto per le pubbliche amministrazioni di risolvere le controversie mediante il ricorso a un arbitrato irrituale, il collegio consultivo tecnico rappresenta uno scostamento rispetto alla ratio posta a fondamento dell'articolo in commento. Il legislatore ha infatti vietato per le pubbliche amministrazioni il ricorso agli arbitrati irrituali e consentito il ricorso solo ad arbitrati rituali, poiché solo questi ultimi assicurano le adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta degli arbitri e dell'iter procedimentale. Tuttavia proprio queste garanzie sembrano appagate dalla complessiva disciplina contenute nel citato art. 6 che comunque definisce sia le regole per la formazione del collegio che per l'assunzione della decisione.

Si precisa, infine, che l'art. 6 prevede che l'inosservanza delle determinazioni del collegio consultivo tecnico viene valutata ai fini della responsabilità del soggetto agente per danno erariale e costituisce, salvo prova contraria, grave inadempimento degli obblighi contrattuali; così come l'osservanza delle determinazioni del collegio consultivo tecnico è causa di esclusione della responsabilità del soggetto agente per danno erariale, salvo il dolo.

Con la introduzione del d.lgs. n. 36/2023Codice dei contratti pubblici - è stata parzialmente modificata la disciplina del collegio consultivo tecnico. Ed, infatti, l'art. l'art. 215 stabilisce che il collegio consultivo tecnico è obbligatorio per gli appalti di lavori di importo pari o superiore alle soglie di rilevanza europea; e per quelli di forniture e servizi di importo pari o superiore ad 1 milione di euro. Nelle altre ipotesi non disciplinate è, in ogni caso, possibile costituire il collegio consultivo tecnico per prevenire controversie o consentire la rapida risoluzione delle stesse o ancora per arginare dispute tecniche di ogni natura che potrebbero insorgere durante l'esecuzione dei contratti. Il collegio consultivo tecnico deve essere costituito a iniziativa della stazione appaltante prima dell'avvio dell'esecuzione o comunque non oltre 10 giorni da tale data. L'allegato V.2 al d.lgs. n. 36/2023 detta, poi, nel dettaglio le regole per la costituzione del collegio, che deve essere formato da 3 componenti o da 5, se la natura dell'opera risulta complessa, a scelta della stazione appaltante.

I componenti devono avere necessariamente esperienza e qualificazione professionale adeguate alla tipologia dell'opera. In particolare, la stazione appaltante può scegliere i componenti tra: ingegneri; architetti; e giuristi; anche individuati tra il proprio personale dipendente o tra persone a esse legate da rapporti di lavoro autonomo o di collaborazione anche continuativa in possesso dei requisiti previsti dalla normativa.

I componenti del collegio possono essere scelti dalle parti di comune accordo. In alternativa, le parti possono concordare che ciascuna di esse nomini uno o due componenti, e che il terzo o il quinto componente, con funzioni di presidente, sia scelto dai componenti di nomina di parte. Se le parti non giungono ad un accordo circa la nomina del presidente entro 10 giorni dall'avvio dell'esecuzione, questo è designato entro i successivi 5 giorni dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per le opere di interesse nazionale; dalle regioni, dalle province autonome di Trento e di Bolzano o dalle città metropolitane per le opere di rispettivo interesse.

Bibliografia

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