Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 26 - Spese di giudizioSpese di giudizio
1. Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'articolo 3, comma 2. In ogni caso, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati 1. 2. Il giudice condanna d'ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Nelle controversie in materia di appalti di cui agli articoli 119, lettera a), e 120 l'importo della sanzione pecuniaria può essere elevato fino all'uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto limite. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l'articolo 15 delle norme di attuazione2. [1] Comma modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 settembre 2012, n. 160 e successivamente dall'articolo 41, comma 1, lettera a) del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 agosto 2014, n. 114. [2] Comma modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera f), del D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195 e successivamente dall'articolo 41, comma 1, lettera b) del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 agosto 2014, n. 114. InquadramentoL'art. 26 disciplina le spese di giudizio attraverso un rinvio agli articoli del c.p.c., richiamati non in modo generale, ma articolo per articolo dall'art. 91 all'art. 97, con la sola esclusione dell'art. 95 che è dedicato alle spese nel processo di esecuzione (e che prevede che le spese sostenute dal creditore procedente e da quelli intervenuti che partecipano utilmente alla distribuzione sono a carico di chi ha subito l'esecuzione, fermo il privilegio stabilito dal codice civile). Tale rinvio comporta che la regola generale sulle spese del giudizio è la condanna a carico della parte soccombente e che la compensazione è l'eccezione, tranne i casi di reciproca soccombenza. Oltre al suddetto rinvio sono aggiunte alcune disposizioni dirette ad incentivare il rispetto del principio di chiarezza e sinteticità degli atti, di cui all'art. 3 del Codice e a disincentivare azioni o costituzioni in giudizio basate su ragioni manifestamente infondate o addirittura temerarie. Sotto il primo profilo, il giudice deve tenere anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità quando statuisce sulle spese. Con riguardo al secondo aspetto, in presenza di motivi manifestamente infondati, il giudice può condannare, anche d'ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell'altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate; mentre in presenza di una azione (o anche di una resistenza in giudizio) temeraria, la parte soccombente può essere condannata ad una sanzione in favore dell'erario, non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio (importo elevabile nelle controversie in materia di appalti fino all'uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto limite). Le modifiche dell'art. 26L'art. 26 del Codice ha subito numerose modifiche. Nella sua versione originaria, in analogia a quanto previsto dal riformato art. 96, comma 3, c.p.c., era stato previsto che il giudice potesse condannare, anche d'ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell'altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati. Rispetto all' art. 96, comma 3, c.p.c., la condanna ad una somma equitativamente determinata era subordinata alla verifica del presupposto che la decisione fosse fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati. Il comma 2 dell'art. 26 è stato dapprima sostituito con il primo correttivo al Codice ( d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195), con cui la condanna in favore della controparte è stata sostituita con una condanna, sempre d'ufficio, al pagamento di una sanzione, il cui gettito è destinato al bilancio dello Stato, non più equitativamente determinata ma da quantificare tra un minimo e un massimo (in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio); è cambiato anche il presupposto della condanna individuato nell'aver agito o resistito in giudizio in modo temerario. Successivamente, con il d.l. 24 giugno 2014, n. 90 è stata, da un lato, reintrodotta al comma 1 una disposizione analoga a quella in origine inserita nel comma 2 e che reintroduce la condanna in favore della controparte al pagamento di una somma equitativamente determinata («In ogni caso, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati») e, dall'altro lato, è stata disciplinata in modo più severo la condanna al pagamento di una sanzione per lite temeraria nelle controversie in materia di appalti. Per completare la descrizione delle modifiche intervenute va detto che con il secondo correttivo al Codice ( d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160) il comma 1 è stato modificato con il riferimento alla possibilità per il giudice che statuisce sulle spese di «tene[re] anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'articolo 3, comma 2» (tale previsione era stata proposta dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato e che era stata espunta dal Governo). Ai sensi dell'art. 26, le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate anche in considerazione del principio di sinteticità degli atti processuali di cui agli artt. 3 comma 2 e 26 comma 1, cit. c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo a sua volta corollario del giusto processo, che assume una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell'interesse pubblico in occasione del controllo sull'esercizio della funzione pubblica, atteso anche che la sinteticità degli atti costituisce uno dei modi, e forse tra i più importanti, per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace (Cons. St. IV, n. 3296/2014). Non stupisce dunque che tale norma sia stata ritenuta una tra le più tormentate del codice. (Caringella, Manuale, 896). Condanna e compensazione delle speseLa regola generale sulle spese del giudizio è quella secondo cui il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte ( art. 91 c.p.c.), mentre la compensazione (totale o parziale) delle spese è l'eccezione che ricorre se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti ( art. 92, comma 2, c.p.c.). Il comma dell'art. 92 c.p.c. è stato così sostituito dall'art. 13 del d.l. n. 132/2014 e il più ampio riferimento a “quando concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione” è stato eliminato. Tuttavia, La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 92, secondo comma, c.p.c.nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni (Corte cost. n. 77/2018). Secondo la Corte la rigidità di queste due sole ipotesi tassative (l'«assoluta novità della questione trattata» e il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti»), violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa, come, tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova regolamentazione nel diritto dell'Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia. A seguito di tale pronuncia è nuovamente consentita, in caso di soccombenza totale, la compensazione delle spese di lite anche in altre ipotesi di gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle indicate in modo tassativo dalla disposizione stessa, ferma restando la necessità di motivare la compensazione delle spese. Infatti, l'obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate, vuoi ove ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, discende dalla generale prescrizione dell'art. 111, sesto comma, Cost., che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati. Con la stessa sentenza la Consulta ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale mirante ad innestare nell'art. 92 c.p.c., come deroga alla regola secondo cui la parte soccombente è condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa – oltre alle ipotesi nominativamente previste dalla disposizione stessa, come integrate dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini di cui sopra – un'ulteriore deroga centrata sulla natura della lite, perché controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei confronti del datore di lavoro. Nel processo amministrativo, ai sensi degli artt. 26 c.p.a. e 90 e ss. c.p.c., la condanna alle spese della parte soccombente costituisce l'esito normale dello stesso mentre, ai sensi dell' art. 92 comma 2, dello stesso c.p.c. la compensazione è consentita solo se sussistono gravi ed eccezionali ragioni, da indicare espressamente (Cons. St. V, n. 2352/2015) In caso di pluralità di parti soccombenti il giudice condanna ciascuna di esse alle spese in proporzione del rispettivo interesse nella causa o può pronunciare condanna solidale di tutte o di alcune tra esse, quando hanno interesse comune ( art. 97 c.p.c., che prevede anche che se la sentenza non statuisce sulla ripartizione delle spese e dei danni, questa si fa per quote uguali). Nel processo amministrativo la prassi della compensazione delle spese del giudizio ha assunto spesso un carattere anomalo (nel senso che spesso la regola generale applicata dal giudice è sembrata essere quella della compensazione) e tale prassi già contrastava con l' art. 92, comma 2, c.p.c, che – come già detto — limita la compensazione delle spese alla soccombenza reciproca o quando concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione. In senso critico si riconosce che, nella vigenza della precedente disciplina, di tali disposizioni il giudice amministrativo ha fornito una interpretazione elastica, in base alla quale la condanna o la compensazione delle spese rientra nella discrezionalità del giudice, potendo fondarsi anche su ragioni di equità o convenienza (Mengozzi, 361). Le nuove disposizioni, contenute nell'art. 26 del Codice e dirette a penalizzare chi agisce o resiste in giudizio sulla base di ragioni manifestamente infondate o temerarie, impongono di limitare la compensazione delle spese a quei casi eccezionali, cui fa riferimento l' art. 92 c.p.c., la cui sussistenza deve essere oggetto di adeguata motivazione. Ad esempio, è stato ritenuto eccezionale motivo per disporre l'integrale compensazione tra tutte le parti in casa delle spese, la circostanza che la decisione in rito dipendesse dal rapporto di pregiudizialità con altro giudizio (T.A.R. Valle d'Aosta, I 17 novembre 2015, n. 90). I giusti motivi, in base ai quali il giudice dispone la compensazione tra le parti in causa delle spese del giudizio in deroga al criterio generale della soccombenza fissati dall' art. 92 c.p.c., richiamato dall' art. 26 c.p.a., anche se non puntualmente specificati, devono quanto meno essere desumibili dal contesto della decisione (Cons. St. V, n. 4769/2015). La statuizione delle spese segue la definizione del giudizio e viene disposta anche a prescindere da una richiesta delle parti. Anche in mancanza di una sua costituzione in giudizio, la parte soccombente può essere chiamata a sostenere le spese processuali (Cons. St. V, n. 2821/2012). A seguito dell'entrata in vigore del c.p.a., il giudice deve pronunciare sulle spese del giudizio anche in caso di declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto d'interesse, mediante una sommaria verifica del merito della pretesa azionata al fine di stabilire la c.d. soccombenza virtuale. T.A.R. Campania (Napoli) IV, 23 dicembre 2010, n. 28001. La statuizione in ordine alle spese implica una valutazione di soccombenza anche in relazione a quelle fattispecie in cui, di fatto, vi sia stata la soddisfazione dell'interesse azionato, che abbia determinato la cessazione della materia del contendere (c.d. soccombenza virtuale). Nel processo amministrativo, ai sensi degli artt. 26 c.p.a. e 92 comma 2, c.p.c. il giudice, qualora dichiari cessata la materia del contendere per l'intervenuta soddisfazione, nel corso del giudizio, dell'interesse azionato dal ricorrente, deve valutare, ove persista contrasto tra le parti in ordine alla sola regolamentazione delle spese giudiziali, quale sarebbe stato l'esito del giudizio, nell'ipotesi in cui tale interesse non fosse stato soddisfatto dall'Amministrazione, secondo il criterio della c.d. soccombenza virtuale (Cons. St. III, n. 640/2015). In caso di rinuncia al ricorso, ai sensi dell'art. 84 comma 1, il seguente comma 2 stabilisce che il rinunciante deve pagare le spese degli atti di procedura compiuti, salvo che il collegio, avuto riguardo a ogni circostanza, ritenga di compensarle (Cons. St. V, n. 5819/2015). Per la condanna alle spese della fase cautelare vedi l'art. 57. Soccombenza e contributo unificato. Ai sensi dell'art. 13, comma 6-bis, del T.U. n. 115/2002 (contributo unificato), l'onere relativo al pagamento dei contributi è dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche in ipotesi di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si è costituita in giudizio. Ai fini predetti, la soccombenza si determina con il passaggio in giudicato della sentenza. Si tratta, quindi, di una conseguenza automatica della soccombenza, che non necessita della pronuncia del giudice. Non costituisce invece vizio della sentenza impugnata la mancata pronuncia circa la restituzione del contributo unificato, in quanto il contributo unificato costituisce un'obbligazione ex lege gravante sulla parte soccombente per effetto della condanna alle spese, sicché, anche in caso di mancata menzione da parte del giudice, la relativa statuizione include, implicitamente, l'imposizione della restituzione alla parte vittoriosa di quanto versato, senza che si renda necessaria alcun correzione, per errore materiale, del provvedimento giudiziale e restando il pagamento verificabile, anche in sede esecutiva, con la corrispondente ricevuta (Cons. St. III, n. 5991/2017; Cons. St. V, n. 2042/2017; Cons. St. III, n. 4167/2016; Cass. n. 2691/2016 ). Invero, il contributo unificato è oggetto di una obbligazione ex lege sottratta alla potestà del giudice, sia quanto alla possibilità di disporne la compensazione, sia quanto alla determinazione del suo ammontare, sicché comunque fa carico alle parti senza che occorra alcuna pronuncia in merito da parte del giudice amministrativo adito (T .A.R. Lazio (Latina) I, 6 febbraio 2017, n. 70, per cui anche nel caso di compensazione delle spese legali, l'amministrazione soccombente deve essere condannata, in sede di esecuzione del giudicato, al rimborso dell'importo del contributo unificato versato per l'instaurazione del giudizio dal ricorrente vittorioso). Quando, nel processo amministrativo d'appello il gravame è respinto per l'infondatezza e/o l'inammissibilità dei motivi formulati dall'appellante, per l'effetto la sentenza impugnata va integralmente confermata, anche con riguardo al capo relativo alle spese di lite, alla cui rifusione la ricorrente in primo grado è stata condannata, ai sensi degli artt. 26 c.p.a. e 91 c.p.c., attesa la sua soccombenza, la quale comporta anche che il contributo unificato, corrisposto per il giudizio di primo grado, deve rimanere a suo carico (Cons. St. III, n. 1815/2017). Viceversa, in caso di accoglimento dell'appello dell'amministrazione resistente che abbia prenotato a debito il pagamento del relativo contributo, la parte soccombente sarà tenuta al pagamento, in favore dell'erario, delle spese prenotate a debito, analogamente a quanto sarebbe avvenuto nei confronti di qualsiasi altra parte vittoriosa (Cons. St. III, n. 4557/2016). In tema di contributo unificato rileva il d.P.R. n. 115/2002 che disciplina il regime fiscale del processo amministrativo, prevedendo che lo stesso sia dovuto per l'accesso alla giustizia (v. art. 9, che collega il contributo alla iscrizione a ruolo per ciascun grado di giudizio, indicando nell'art. 10 puntualmente gli importi in relazione ai singoli atti processuali e le fattispecie di esenzione). Il contributo unificato di cui all' art. 13 del d.P.R. n. 115/2002 rappresenta il «costo», per i cittadini, dell'accesso alla tutela giurisdizionale, qualificabile come una prestazione patrimoniale imposta. Questa non può essere alla mercè di scelte di convenienza dei soggetti interessati, le quali incidano sugli atti normativi in base ai quali il Legislatore abbia inteso disciplinare — nel rispetto delle previsioni dell' art. 53 Cost. — il concorso dei cittadini alle spese del servizio offerto dagli organi della giustizia amministrativa (T.A.R. Catania, (Sicilia) IV, 17 marzo 2017, n. 554, che giustifica, in questa prospettiva, una esegesi restrittiva dei limiti di ammissibilità del ricorso cumulativo, esclusivamente quando vi sia identità di situazioni sostanziali e processuali e cioè che le domande giudiziali siano identiche nell'oggetto e che gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e vengano censurati per gli stessi motivi ovvero che sussista tra gli stessi una connessione procedimentale o funzionale tale da giustificare un unico giudizio). Con riferimento ai criteri applicativi e, in particolare, alle fattispecie esenti dal contributo, si veda la circolare del Segretariato generale della Giustizia Amministrativa del 18.10.2011, aggiornata da ultimo aggiornata al 22 ottobre 2014 (allegata in appendice). Con riferimento all'ambito oggettivo, si osserva che il contributo è dovuto non solo in caso di ricorso introduttivo, ma anche nel caso in cui siano successivamente proposti atti processuali quali il ricorso incidentale e i motivi aggiunti, limitatamente a quelli che introducono domande nuove (in tali casi l'obbligo sorge al momento del deposito dell'atto cui accedono; cfr. art. 13, comma 6-bis del d.P.R. n. 115/2002 e par. B1 della Circolare menzionata). In giurisprudenza è stata rimessa alla Corte di Giustizia dell'Unione europea la questione circa il possibile ostacolo all'accesso alla giustizia derivante dalla determinazione di contributi di importo elevato, che in materia di appalti possono raggiungere livelli elevatissimi e non proporzionati tali da dissuadere le parti dal ricorrere al giudice (Trib. reg. giust. amm. Trento, 29 gennaio 2014, n. 23). Esprimendosi su tale questione, la Corte ha rilevato che la direttiva 89/665/ Cee sulle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici e i principi di equivalenza ed effettività non ostano a una normativa nazionale che impone il versamento di tributi giudiziari, come il contributo unificato previsto dalla normativa italiana, per la proposizione di un ricorso dinanzi ai giudici amministrativi in materia di appalti pubblici. Le norme e i principi richiamati consentono che il versamento di tali tributi giudiziari sia dovuto anche nell'ipotesi di introduzione di diversi ricorsi giurisdizionali relativi alla medesima aggiudicazione ovvero di deduzione di motivi aggiunti nel contesto di un procedimento giurisdizionale in corso. Tuttavia, il giudice è tenuto a dispensare l'amministrato dall'obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi qualora i ricorsi presentati (ovvero i motivi aggiunti) non siano effettivamente distinti o non costituiscano un ampliamento considerevole dell'oggetto della controversia pendente (Corte giustizia UE V, 6 ottobre 2015, causa n. C-61/14). È inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice adito la domanda diretta a contestare l'applicabilità del contributo unificato. Infatti, secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, le contestazioni di parte ricorrente afferenti l'imposizione da parte dell'organo amministrativo preposto alla determinazione di tale contributo rivestono natura tributaria e quindi esulano dalla cognizione del giudice amministrativo, per rientrare in quella del giudice tributario (T.A.R. Campania (Napoli) V, n. 2860/2016;Tar Sicilia (Catania), III, n. 295/2016). Compensazione delle spese e appello. Anche se nel processo amministrativo il giudice ha ampi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali ovvero per escluderla, con il solo limite che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio — tale discrezionalità è sindacabile in sede di appello nei limiti in cui la statuizione sulle spese possa ritenersi illogica o errata, alla stregua dell'eventuale motivazione adottata, ovvero tenendo conto da un lato, in punto di diritto, del principio in base al quale, di regola, le spese seguono la soccombenza e dall'altro, in punto di fatto, della vicenda e delle circostanze emergenti dal giudizio; ed in particolare, che i ‘giusti motivi', in base ai quali il giudice dispone la compensazione tra le parti in causa delle spese del giudizio, ai sensi dell' art. 92 c.p.c., richiamato dall' art. 26 c.p.a., anche se non puntualmente specificati, devono quanto meno essere desumibili dal contesto della decisione (Cons. St. IV, n. 4948/2016). Invero, non mancano pronunce in senso più restrittivo, che sottraggono sostanzialmente al sindacato in appello la decisione in ordine alla compensazione delle spese, salva l'ipotesi di statuizioni macroscopicamente irragionevoli, abnormi ed illogiche, ravvisabili in caso di condanna alle spese della parte vittoriosa. Secondo tale impostazione, il principio della soccombenza, richiamato dall' art. 92 c.p.c., cui rinvia l' art. 26 c.p.a., riceve attenuazione nel processo amministrativo a fronte della complessità delle regole che governano l'azione amministrativa, soggette a mutamento nel tempo con effetto sulla graduazione degli interessi dalla stessa coinvolti, alla cui cura è preposto l'organo pubblico chiamato in giudizio (Cons. St. V, n. 2042/2017; Cons. St. III, n. 3394/2014). L'approdo interpretativo citato rappresenta l'evoluzione del precedente orientamento che si era sviluppato nel regime precedente. In particolare, si è ritenuto che nel giudizio di appello è censurabile l'esercizio del potere di compensazione, ma non anche la mancata compensazione, atteso che le statuizioni del giudice di primo grado in ordine alla condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese e degli onorari del giudizio sono di per sé ampiamente discrezionali, espressione di regole di equità e convenienza, il che ne comporta l'insindacabilità in appello (Cons. St. V, n. 2866/2009). Secondo il tradizionale orientamento giurisprudenziale, le spese del giudizio costituiscono espressione di un potere latamente discrezionale del giudice di primo grado insindacabile dal giudice di appello se non per violazione del principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa ovvero in casi di compensazione ictu oculi irragionevoli (Cons. St. V, n. 5132/2007, in relazione ad un caso in cui è stato ritenuto che non ricorrevano tali condizioni in quanto l'accoglimento dell'istanza cautelare e la stessa sentenza di accoglimento del ricorso nel merito non precludevano necessariamente al giudice di primo grado di valutare, secondo un proprio apprezzamento discrezionale ed insindacabile, quelle condizioni di equità che lo hanno indotto a concludere per la compensazione delle spese del giudizio). Peraltro, non sono mancate pronunce nelle quali si richiedeva, in punto di motivazione circa la decisione di compensare le spese, un maggior rigore. Secondo Cons. giust. amm. Sicilia, 15 giugno 2007, n. 484, è illegittimo il capo relativo ad una sentenza con la quale, nonostante la soccombenza delle parti resistenti, è stata disposta la compensazione delle spese sulla base della generica affermazione secondo cui «sussistono... giusti motivi per disporre la compensazione tra le parti delle spese del giudizio»; la novella del secondo comma dell' art. 92 c.p.c. ha infatti subordinato la possibilità del giudice di compensare le spese, al di fuori dei casi di soccombenza reciproca, alla concorrenza di «altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione». Il difetto di motivazione risulta ancor più evidente nel caso di controversia di natura prettamente commerciale tra parti private atteso che il principio processualcivilistico della soccombenza è espressione, anche, della posizione di parità tra le parti private del processo, oltre che del principio di autoresponsabilità. In tema di condanna alle spese della lite, a seguito della riforma ex art. 45, comma 11, l. n. 69/2009 dell' art. 92 c.p.c. (che l'art. 26 ha integralmente recepito), la compensazione delle spese di giudizio può aver luogo solo in presenza di gravi ed esplicitati motivi che possono formare oggetto di un controllo — esteso anche al merito del relativo apprezzamento sulla gravità ed eccezionalità — da parte del giudice amministrativo di appello che può riformare la sentenza che abbia ritenuto eccezionali e gravi, al fine della compensazione delle spese, motivi che in effetti non lo sono (Cons. giust. amm. Sicilia, 19 aprile 2012, n. 401). Deve quindi ritenersi che l'orientamento tradizionale che limitava la sindacabilità in sede di appello della statuizione sulle spese del giudizio sia oggi da ritenersi superato e che i motivi, in base ai quali il giudice dispone la compensazione tra le parti in causa delle spese del giudizio in deroga al criterio generale della soccombenza fissati dall' art. 92, c.p.c., richiamato dall' art. 26, c.p.a., devono essere specificati, o quanto meno essere desumibili dal contesto della decisione, in modo da poter essere vagliati in sede di appello (Cons. St. IV, n. 6023/2012). La condanna ad una somma equitativamente determinataNel paragrafo sulle modifiche dell'art. 26 è stato evidenziato come la possibilità per il giudice amministrativo di condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata è stata dapprima inserita nell'originaria versione del comma 2 dell'art. 26, poi eliminata e successivamente reinserita nel comma 1. La disposizione vigente, contenuta appunta nel comma 1, individua il presupposto per la condanna ad una somma equitativamente determinata nella presenza di motivi manifestamente infondati e limita il quantum della condanna ad un importo non superiore al doppio delle spese liquidate. La precedente norma e la prima versione dell'art. 26 proposta dal Governo in sede di approvazione preliminare prevedeva la sanzione «quando la decisione è fondata su ragioni manifeste od orientamenti giurisprudenziali consolidati». Sul mantenimento di tale disposizione si erano espresse negativamente le Commissioni parlamentari, che avevano rilevato trattarsi di una sorta di sanzione che va ad aggiungersi al cospicuo contributo unificato — di recente innalzato a livelli non esenti da rilievi critici, in quanto richiesto non solo per l'atto introduttivo, ma anche per tutte le «domande nuove» presentate nel medesimo giudizio. Essa va anche ad aggiungersi alle condanne alle spese della fase cautelare (art. 57) del giudizio. Inoltre — sempre secondo le Commissioni parlamentari — siffatta sanzione, diversamente dalla responsabilità per lite temeraria di cui all' articolo 96 del codice di procedura civile, fondata su rigorosi elementi indicativi della consapevolezza di avere fatto un uso distorto del processo, colpisce il diritto di difesa quando si estrinseca in argomentazioni non in linea con gli «orientamenti giurisprudenziali consolidati», comprimendo, in ultima analisi, il prezioso contributo che la parte ricorrente può dare alla evoluzione giurisprudenziale. Tale presupposto era stato in particolare criticato da chi riteneva che lo stesso conducesse inevitabilmente a scoraggiare mutamenti giurisprudenziali (Lipari). Nella versione attualmente vigente del comma 1 dell'art. 26 è stato eliminato il riferimento agli orientamenti giurisprudenziali consolidati e il presupposto della condanna è la sussistenza di motivi manifestamente infondati; in tal modo è stata eliminata quella che era stata definita un inammissibile squilibrio nella dinamica processuale, attraverso la estromissione di fatto della parte ricorrente dalla possibilità di concorrere alla definizione di ogni affermazione evolutiva della giurisprudenza. L'attuale comma 1 dell'art. 26 costituisce una ipotesi speciale rispetto a quella di cui all' art. 96, comma 3, c.p.c.; quest'ultima norma, infatti, non tipizza i presupposti applicativi della condanna officiosa della parte soccombente al pagamento della somma equitativamente determinata. La norma sancita dall'art. 96, comma 3 risulta indeterminata nei suoi presupposti potendo essere comminata in ogni caso di condanna del soccombente alle spese processuali (questa criticità è invece assente nell'attuale art. 26, comma 1, che consente la condanna solo in presenza di due ben individuate circostanze) e generica nei criteri di liquidazione che potrebbero ritenersi disancorati da ogni parametro di riferimento (mentre nel processo amministrativo la somma equitativamente determinata non può sperare il doppio delle spese liquidate). Lo scopo immediato della norma è quello di approntare una soddisfazione in denaro alla parte risultata vincitrice in un processo; indirettamente si coglie l'ulteriore intento della legge di arginare il proliferare di « cause superflue » che appesantiscono oggettivamente gli uffici giudiziari ostacolando la realizzazione del « giusto processo » attraverso il rispetto del valore (costituzionale ed internazionale) della ragionevole durata del processo. Secondo il Consiglio di Stato, la originaria previsione di cui all'art. 26, comma 2 (analoga a quella attuale del comma 1): a) non riguarda le spese di lite (quantificate con la condanna alle spese secondo la logica propria delle disposizioni sancite dagli artt. 91 e 92 c.p.c.); b) non riguarda la responsabilità da lite temeraria (tipizzata dai commi 1 e 2 dell' art. 96 c.p.c.); c) non riguarda la pretesa sostanziale (sulla quale statuisce il contenuto dispositivo della sentenza); d) non è configurabile quale sanzione pubblica atteso che: I) il gettito non è devoluto all'erario (arg. exartt. 123, comma 1, c.p.a.; 15 disp. att. c.p.a.; 246-bis, codice dei contratti pubblici, introdotto dall' art. 4, comma 2, lett. ii), d.l. 13 maggio 2011, n. 70); II) non sono indicati i limiti o i criteri oggettivi di liquidazione (ora indicati nel comma 1) (Cons. St. V, n. 3252/2011). La natura giuridica della misura pecuniaria in esame è stata qualificata, nella elaborazione giurisprudenziale, come un indennizzo per il « danno lecito da processo », cioè il nocumento che la parte vittoriosa ha subito per l'esistenza e durata del processo, anche se la controparte non ha agito o resistito in mala fede o senza prudenza. In dottrina si sono espresse perplessità circa la proliferazione di forme di responsabilità di varia natura e dai contorni spesso non facilmente distinguibili; invero l'area dei «motivi manifestamente infondati» ben potrebbe ricadere, almeno in parte, nella condotta di chi ha agito in mala fede e rilevare nella ipotesi di lite temeraria (Mengozzi, 365; Barletta, 135). La distinzione rispetto alla natura di sanzione pecuniaria, ora prevista dall'art. 26, comma 2, conduce a ritenere l'applicabilità della condanna ad una somma equitativamente determinata in favore della controparte anche ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del codice e della successiva modifica, a differenza del nuovo comma 2 dell'art. 26 da applicare invece ai soli giudizi successivi all'entrata in vigore del d.l. n. 70/2011 (Cons. St. V, n. 3083/2011). La condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata, in aggiunta al pagamento delle spese del giudizio, prevista dagli artt. 26 c.p.a e 96 c.p.c. per l'ipotesi che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, postula la totale soccombenza della parte nei cui confronti sia stata proposta l'istanza risarcitoria, con la conseguenza che il suo accoglimento deve intendersi precluso qualora vi sia stata una soccombenza reciproca delle parti, trattandosi di circostanza di per sé idonea ad escludere la mala fede o la colpa grave nell'aver agito o resistito in giudizio ( Cons. St., Ad. plen., n. 3/2010). Nel caso in cui l'amministrazione abbia adottato atti chiaramente preordinati ad eludere il giudicato, deve essere condannata, ai sensi dell'art. 26 comma 2 al pagamento di una somma equitativamente determinata, rilevando nel caso l'orientamento consolidato per il quale, in sede di esecuzione del giudicato, il ricorrente ha diritto a realizzare integralmente la pretesa riconosciuta e puntualmente definita, con conseguente preclusione per ogni altra ed elusiva definizione amministrativa (T.A.R. Lazio (Latina) I, 2 dicembre 2010, n. 1924; Cons. St. V n. 930/2015). Sempre con riferimento al giudizio di ottemperanza, ma muovendo dalla prospettiva di parte attrice, si è sanzionato, ai sensi dell'art. 26 comma 1, il comportamento della parte, che promuove un giudizio di ottemperanza per un credito che era già stato saldato quanto al capitale e di cui era in corso il saldo quanto agli accessori, e che di tali circostanze non abbia reso edotto il giudice; simile condotta integra una violazione del dovere di lealtà e probità sancito dall' art. 88 c.p.c. e giustifica la condanna della parte medesima al pagamento di una somma equitativa (Cons. St. V, n. 930/2015). La speciale responsabilità processuale prevista dall' art. 26 comma 2, c.p.a. (oggi comma 1), ferma restando l'iniziativa ufficiosa, non presuppone l'elemento della «temerarietà della lite», né la mala fede della parte, trattandosi di mero indennizzo del nocumento che la parte vittoriosa ha subito per l'esistenza e la durata del processo, coerentemente con il principio di ragionevole durata del giudizio, chiamando la parte che abbia dato corso (o abbia resistito) ad (in) un processo oggettivamente ritenuto ingiustificabile ad indennizzare la controparte che sia costretto a subirlo (T.A.R. Puglia (Bari), 11 ottobre 2012, n. 1755). La circostanza che l'art. 26 comma 2 seconda parte c.p.a. preveda la condanna della parte soccombente a somma equitativamente determinata in presenza di motivi manifestamente infondati e, quindi, quando la domanda o le difese siano destituite con ogni evidenza di fondamento, non può valere ad escludere l'applicabilità dell' art. 96 comma 3 c.p.c., richiamato, unitamente a tutte le altre disposizioni del codice di rito, nella prima parte dello stesso art. 26. Quest'ultimo, peraltro, appare applicabile anche nell'ipotesi in cui la parte non si sia costituita e non abbia resistito in giudizio, potendo dare rilievo comportamenti extra-processuali non commendevoli (Cons. St. IV, n. 1460/2016 che conferma la condanna al risarcimento del danno, in sede di ottemperanza, ai sensi dell' art. 96 comma 3 c.p.c. sulla base di una rilevata ed accertata singolare, palese ed indiscutibile responsabilità della resistente, che ha ostacolato, con colpa grave, la soddisfazione della riconosciuta situazione giuridico soggettiva del ricorrente, omettendo ogni conseguente e dovuta attività, ignorando sin anche le motivate e puntuali sollecitazioni trasmesse dall'avvocatura erariale alla resistente per l'esatta esecuzione del decisum giudiziario). La condanna della parte ricorrente, ai sensi dell'art. 26, comma 1 rileva anche agli effetti di cui all' art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e d), della legge 24 marzo 2001, n. 89, come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015, nr. 208, integrando i presupposti per l'esclusione dell'indennizzo per l'equa riparazione in caso di violazione del termine di ragionevole durata del processo (Cons. St., IV, n. 488/2017; ai sensi della norma citata, infatti, “[n]on è riconosciuto alcun indennizzo: a) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all' articolo 96 del codice di procedura civile”). La sanzione per aver agito o resistito in modo temerarioL'aver agito o resistito in giudizio in modo temerario è una condotta che lede il funzionamento del sistema giustizia e viene sanzionata pecuniariamente, fermo restando che la controparte ha diritto alla rifusione delle spese di giudizio. La disposizione inserita nel comma 2 dell'art. 26 non costituisce una novità assoluta: con la modifica, infatti, si è inteso generalizzare una disposizione che era stata introdotta nell'ordinamento, con riguardo al rito appalti, dal d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito con modificazioni, dall' articolo 1, comma 1, dalla l. 12 luglio 2011, n. 106. L'estensione all'intero processo della particolare ipotesi di responsabilità aggravata riconduce ad unità l'intero sistema processuale in materia di spese tenuto conto del carattere senz'altro generale dell'esigenza che aveva ispirato il legislatore del d.l. n. 70/2011. L'unico soggetto legittimato a qualificare temeraria una lite ai sensi dell' art. 26 comma 2, c.p.a., nel testo riformulato con decorrenza 8 dicembre 2011 dal correttivo approvato dal d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, è il giudice chiamato a pronunciarsi su di essa, essendo il solo che può accertare, con statuizione vincolante per le parti in causa, la sussistenza di una responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c. (Cons. St. V, n. 4383/2014). Si tratta, in particolare, di un obbligo del giudice, in presenza dei presupposti indicati dalla norma (Cons. St. n. 3210/2013). Il presupposto della sanzione da versare all'erario è la temerarietà dell'azione o della resistenza in giudizio; qualcosa quindi di più rispetto alle ragioni manifestamente infondate presupposto della condanna di cui al comma 1 dell'art. 26 e qualcosa di diverso anche rispetto alla responsabilità aggravata per aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, di cui all' art. 96, comma 1, c.p.c. L'art. 26 comma 2, nel prevedere la possibilità che la parte soccombente sia condannata d'ufficio al pagamento, oltre alle spese di giudizio, di una sanzione pecuniaria quando ha agito o resistito temerariamente in giudizio, in effetti attribuisce al giudice ampia discrezionalità che, peraltro, deve essere sorretta da idonea motivazione, qualificandosi la misura adottata non già come atto di mero esercizio di regolazione delle spese, bensì come irrogazione di sanzione (Cons. St. IV, n. 4812/2014). Laddove il rigetto dell'appello si fondi su ragioni evidenti che integrano i presupposti di un'azione temeraria, il Giudice può condannare anche d'ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria determinata in via equitativa ( Cons.St. III, n. 792/2016; Cons. St. V, n. 5459/ 2015; Cons. St. n. 5758/2014; Cons.St. V, n. 3210/2013; Cons. St. V, n. 1733/2012). Al contrario, non sussistono i presupposti per la dichiarazione di temerarietà della lite nella controversia in cui le posizioni difensive assunte dall'Amministrazione potevano essere ragionevolmente sostenute (T.A.R. Lazio (Roma) II, 3 giugno 2015, n. 7777), in quanto una difesa può considerarsi temeraria solo quando, oltre ad essere erronea in diritto, rilevi la consapevolezza della non spettanza della prestazione richiesta o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormale (T.A.R. Lazio (Roma) II, 4 febbraio 2021, n. 1452). L' art. 26 c.p.a. presuppone che la parte condannata abbia esercitato i poteri processuali in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela garantita dall'ordinamento. Si è in particolare evidenziato che, ai fini della responsabilità aggravata ex art. 26 c.p.a. un ricorso può considerarsi temerario solo quando, oltre a essere erroneo in diritto, rivela la consapevolezza della non spettanza della prestazione richiesta o evidenzia un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormale; di conseguenza la mera opinabilità della pretesa fatta valere in giudizio non giustifica l'attribuzione alla lite del connotato della temerarietà, la quale postula, invece, la consapevolezza della palese infondatezza della domanda proposta e delle tesi sostenute a suo supporto ovvero la mancanza della normale diligenza per l'acquisizione di tale consapevolezza. (Cons. St. V, n. 4383/2014; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia I, 10 aprile 2015, n. 175, che esclude tale condanna nel caso in cui le controparti non si sono nemmeno costituite e quindi non hanno esercitato alcun potere) L'importo massimo e minimo della sanzione è costituito dal doppio e dal quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, che può essere elevato fino all'uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto limite nelle controversie in materia di appalti. Ai sensi dell'art. 26 comma 1, in caso di lite temeraria, il giudice amministrativo può, anche d'ufficio, condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate in presenza di motivi manifestamente infondati (Cons. St. V, n. 6213/2014). La nuova sanzione pecuniaria per lite temeraria deve ritenersi assoggettata al principio generale, valido per tutte le sanzioni amministrative, che preclude la retroattività, ossia l'applicazione a fatti anteriori all'entrata in vigore della norma sanzionatoria e, quindi, a ricorsi proposti prima della sua entrata in vigore. La riforma dell’art. 96 c.p.c.Con la riforma del processo civile attuata con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (entrata in vigore il 28 febbraio 2023) è stato aggiunto il seguente ultimo comma all'art. 96 c.p.c. (responsabilità aggravata): “Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000”. Si pone allora il problema di verificare la sua applicabilità al processo amministrativo, visto che l'art. 26 richiama anche l'art. 96 c.p.c.. Al riguardo, è stato rilevato che l'art. 26 c.p.a., al comma secondo, già prevede che “il giudice condanna d'ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio” e che il concorso di norme debba essere risolto in favore dell'art. 26, comma 2 c.p.a., in base al principio di specialità con riferimento al giudizio amministrativo (Durante, 36). BibliografiaBarbieri, Sulla condanna alle spese nel processo, in Nuovo notiziario giuridico, fasc. 2, 2013, pag. 305; Barletta, La difesa in giudizio delle parti e la disciplina in materia di spese di lite, in Sandulli (a cura di), Il nuovo processo amministrativo. Studi e contributi, II, Milano, 2013, 120 ss.; Corso, Abuso del processo amministrativo? In Dir. proc. amm. 2016; Durante, Relazione sugli effetti diretti e sulle implicazioni sistematiche che la riforma del processo civile, apprestata dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, reca al processo amministrativo – Ufficio Studi e formazione della Giustizia Amministrativa, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022; Lipari, La nuova sanzione per «lite temeraria» nel decreto sviluppo e nel correttivo al codice del processo amministrativo: un istituto di dubbia utilità, in Foro amm. 9, 2011. |