Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 75 - Deliberazione del collegioDeliberazione del collegio
1. Il collegio, dopo la discussione, decide la causa. 2. La decisione può essere differita a una delle successive camere di consiglio. InquadramentoLa disposizione, il cui tenore ricalca sostanzialmente l'abrogato art. 61 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642 (regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), individua lo snodo processuale in cui, in primo o in secondo grado, il giudice collegiale è chiamato a definire la controversia, deliberando in tutto o in parte sulla causa. Si tratta del traguardo a cui tende tutto il giudizio: alla decisione della causa infatti è preordinato l'intero processo. Alla decisione fanno seguito le ulteriori attività, sempre riservate al giudice, destinate a concludere formalmente il grado di giudizio, consistenti nella redazione, sottoscrizione e pubblicazione della sentenza. La discussione, seguita dalla c.d. «spedizione in decisione» della causa, determina la definitiva fissazione delle posizioni processuali delle parti e segna il momento a decorrere dal quale è preclusa ai magistrati componenti il collegio la possibilità di astenersi. La decisione avviene nel segreto della camera di consiglio e alla relativa deliberazione partecipano tutti e soltanto i componenti del collegio che hanno assistito alla discussione. Dal punto di vista temporale la decisione non deve essere necessariamente deliberata subito dopo la discussione, ma il collegio può decidere di differirla alla successiva o a una delle successive camere di consiglio. Si danno inoltre ipotesi in cui può essere disposta la riapertura della discussione e la rimessione della causa sul ruolo. I principi di collegialità e di immodificabilità del collegio giudicanteLa disposizione in commento, come già accennato, riproduce essenzialmente il contenuto del previgente art. 61 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642. In particolare, il comma 1 impone che il collegio che abbia assistito alla discussione deve anche decidere la causa. La previsione riveste un significativo rilievo sistematico. Da un punto di vista strutturale essa individua il momento in cui termina la fase del contraddittorio processuale; con la chiusura della discussione il giudizio si avvia alla conclusione o, meglio, a una possibile conclusione (non potendo escludersi che la decisione del giudice sia non definitiva oppure soltanto interlocutoria). Esauritosi il contraddittorio processuale, la deliberazione e gli atti successivi e conseguenti costituiscono nel loro insieme un segmento processuale affidato esclusivamente al giudice, senza la presenza delle parti. Sul piano dei principi il comma 1 – unitamente agli artt. 5, 6 e 76, comma 2– è una declinazione del fondamentale principio della collegialità che innerva, a differenza del processo civile, il giudizio amministrativo: nel processo amministrativo, infatti, la decisione definitiva della causa è sempre del collegio. Sono eccezioni solo apparenti a questa regola gli artt. 56 e 61, in materia di misure cautelari monocratiche anche anteriori alla causa, posto che dette misure sono intrinsecamente provvisorie e destinate a divenire inefficaci con la pronuncia sulla controversia. Le uniche effettive eccezioni al principio di collegialità si rinvengono nell'art. 85 e nell'art. 1 dell'Allegato 3 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (norme transitorie), con riferimento ai decreti sull'estinzione e l'improcedibilità. L'adozione di detti decreti del presidente (o di un magistrato delegato) — qualora in relazione ad essi non sia stata proposta un'opposizione o una dichiarazione di interesse delle parti — può invero determinare la conclusione del giudizio. Va però segnalato che si tratta di ipotesi del tutto particolari, in cui l'autorità monocratica non esamina il merito della controversia, ma si limita a prendere atto essenzialmente di una sopravvenuta causa ostativa alla prosecuzione del giudizio. Ha osservato la dottrina che la discussione e, all'esito, l'assegnazione della causa in decisione, come sopra accennato, comportano, oltre alla preclusione per i magistrati di astenersi, anche la chiusura del contraddittorio, con la fissazione della posizione processuale delle parti (D'Orsogna). La discussione produce altresì l'effetto di rendere immodificabile il collegio giudicante, giacché deve sussistere un'identità soggettiva tra il collegio che abbia assistito alla discussione e quello tenuto a decidere la causa. Il principio è funzionale alla tutela del diritto delle parti a conoscere preventivamente quale sia la composizione soggettiva del collegio giudicante, anche ai fini dell'eventuale proposizione di istanze di ricusazione. L'immutabilità del giudice, pertanto, serve anche ad assicurarne la terzietà. Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha affermato da tempo, con statuizione che mantiene attualità ai sensi dell' art. 39, comma 1, c.p.a., il carattere generale del principio di immodificabilità del collegio giudicante — codificato dagli artt. 276 c.p.c., 114 e 117 disp. att. c.p.c. – e, quindi, ne ha riconosciuto l'applicabilità anche al giudizio amministrativo. Tale principio impone che il collegio decidente deve essere composto dagli stessi magistrati che abbiano assistito alla discussione della causa fin dall'inizio di quest'ultima; sicché l'eventuale modifica del collegio intervenuta in tale lasso temporale è causa di nullità ( Cons. St. IV, n. 3486/2001) riconducibile al vizio di costituzione del giudice di cui all’art. 158 c.p.a. (Cass. III, n. 13998/2004). Non rilevano, invece, i mutamenti del collegio giudicante eventualmente intervenuti nelle fasi precedenti la discussione. La circostanza che il Consiglio di Stato abbia riconosciuto la natura generale del principio consente di ritenere applicabile anche al giudizio amministrativo, seppur nei limiti di compatibilità strutturale tra tale processo e quello civile, la cospicua giurisprudenza della Corte di cassazione formatasi in materia, specialmente con riferimento al processo del lavoro (che presenta, in relazione alla fase conclusiva del giudizio, analogie morfologiche con il rito amministrativo). Tra le molte pronunce della Cassazione sul tema, v. Cass. sez. lav., n. 18156/2006, n. 9968/2005, n. 12514/2004, secondo cui il principio della immodificabilità del collegio giudicante trova applicazione solo dal momento in cui inizia la discussione vera e propria, sicché solo la decisione della causa da parte di un collegio diverso da quello che ha assistito alla discussione può dar luogo a nullità della sentenza, non rilevando, invece, una diversa composizione del collegio che abbia assistito a precedenti udienze di trattazione. Deve, tuttavia, ritenersi che il regime di tale nullità, in quanto assimilabile a un difetto di costituzione del giudice, sia quello previsto dall' art. 158 c.p.c. che, pur qualificando la nullità come assoluta, considera nondimeno il vizio convertibile, ai sensi dell' art. 161 c.p.c., in motivo di impugnazione e, quindi, sanabile con la formazione del giudicato in caso di mancata deduzione del motivo. Nell'ipotesi in cui la medesima nullità si sia prodotta in appello residua unicamente la possibilità di attivare il rimedio del ricorso per cassazione per motivi inerenti la giurisdizione, sebbene sul punto la giurisprudenza della Corte di cassazione sia molto rigorosa e non ritenga che, in questa ipotesi, si dia un caso di difetto di giurisdizione. Ha affermato Cass.S.U., n. 5415/2004 che il vizio di costituzione del giudice, ai sensi dell' art. 158 c.p.c., determina una nullità deducibile a norma dell' art. 161 c.p.c., e non un difetto di giurisdizione, ravvisabile nella distinta ipotesi di radicale diversità di struttura e consequenziale non identificabilità del collegio giudicante con quello delineato dalla legge. Secondo il Supremo Collegio (Cass.S.U., n. 11655/2008), una volta deliberata dal collegio giudicante la decisione, non è causa di nullità della sentenza la circostanza che la redazione e il deposito della motivazione siano intervenuti successivamente alla data in cui sia cessata l'appartenenza dell'estensore all'ufficio giudiziario. Va, peraltro, ribadito che, anche nel giudizio amministrativo, il principio di immutabilità del collegio giudicante va riferito alle singole fasi processuali nelle quali l'attività decisoria si presenti eventualmente scissa, per cui deve escludersi che il principio sia violato quando, in fasi distinte del medesimo giudizio, si formino collegi diversamente composti (ad esempio, non dà luogo ad alcuna nullità la circostanza che, nell'ambito dello stesso processo, differiscano soggettivamente i collegi che abbiano rispettivamente pronunciato una sentenza non definitiva e poi quella definitiva). La Corte di cassazione ha chiarito che la prova della composizione del collegio giudicante si trae dal verbale dell'udienza di discussione (sul verbale, v. infra) che, in quanto atto pubblico, fa fede fino a querela di falso. Non ha invece la medesima efficacia probatoria l'intestazione della sentenza (Cass. III, n. 2815/1995). Nozione di «decisione della causa»La decisione è l'atto tipico e proprio del giudice che, sulla base degli esiti del contraddittorio tra le parti, deve fornire una soluzione alla controversia sottoposta al suo vaglio. La decisione consiste, dunque, nella formazione della volontà collegiale, seguendo le regole stabilite dal successivo art. 76, sulle varie questioni, fattuali e giuridiche, sottoposte dalle parti al sindacato giurisdizionale. La dottrina ritiene che il vocabolo «decisione» individui due distinte attività del collegio giudicante, ossia il dibattito camerale e la deliberazione in senso proprio. Il momento deliberativo, infatti, è preceduto da un dibattito, diretto dal presidente, tra i componenti del collegio, volto alla formazione del convincimento del collegio stesso (Police). Decisione interlocutoria, in rito e in meritoLa locuzione «decisione della causa» va, tuttavia, correttamente intesa, in quanto la decisione non assume sempre la forma e il contenuto di una pronuncia idonea a definire il grado di giudizio. In altri termini, il passaggio in decisione non comporta necessariamente che la deliberazione collegiale si traduca in una sentenza che chiuda la lite con una valutazione sulla fondatezza, o no, delle azioni esercitate dalle parti. Ed invero, quello testé descritto è soltanto uno dei possibili esiti della camera di consiglio successiva alla discussione. Gli artt. 34,35 e 36 c.p.a. delineano, invero, scenari differenziati. In primo luogo, il collegio, ancorché ritiratosi in camera di consiglio, potrebbe non decidere affatto la causa, ritenendo che essa non sia matura per la decisione, qualora, ad esempio, reputi indispensabile disporre un'ulteriore attività istruttoria (art. 36, comma 1); in altri casi, invece, l'impossibilità di decidere la causa potrebbe discendere dalla necessità di risolvere una questione pregiudiziale riservata alla cognizione di un altro giudice (Corte di Giustizia dell'Unione europea, Corte costituzionale, giudice ordinario, ecc.), che imponga la sospensione del giudizio (art. 79). Un altro caso di pronuncia interlocutoria è quello della decisione parziale della causa, ipotesi che ricorre allorquando il giudice ritenga che soltanto alcune questioni dedotte in contenzioso possano essere definite; in questa evenienza, prevista dall'art. 36, comma 2, il giudice pronuncia una sentenza non definitiva relativa alla porzione di causa suscettibile di definizione e adotta, invece, provvedimenti istruttori per l'ulteriore trattazione oppure solleva, come sopra accennato, una questione di costituzionalità o dispone un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Inoltre, quand'anche acceda a una decisione idonea a definire il giudizio, non è detto che il collegio esamini il merito della controversia. Come si desume dall' art. 35 c.p.a., potrebbe infatti accadere che il collegio non giunga ad esaminare la fondatezza della domanda, là dove si imbatta in una questione pregiudiziale o preliminare che determini un arresto nello scrutinio del materiale cognitorio, come cristallizzatosi al termine della discussione. Ad esempio, il collegio potrebbe ravvisare la carenza di un presupposto (come la giurisdizione amministrativa) o di una condizione dell'azione (accertamento che conduce alla declaratoria di inammissibilità del ricorso) o l'inosservanza del termine perentorio per la proposizione della domanda (vizio che comporta l'irricevibilità del ricorso) o un'improcedibilità (nell'ipotesi di sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente alla coltivazione della causa o per cessazione della materia del contendere, qualora l'amministrazione abbia soddisfatto integralmente la pretesa dedotta nel giudizio). Segretezza della camera di consiglioLa decisione della causa è assunta dal collegio in camera di consiglio; tanto si desume dal combinato disposto dei due commi di cui si compone la disposizione in commento. La camera di consiglio, ai sensi delle norme processuali, non è tanto un luogo fisico (sebbene così venga chiamata, nella prassi curiale, la stanza in cui si riuniscono i magistrati del collegio giudicante per deliberare sulla controversia), ma essenzialmente è uno stato di separatezza e di riservatezza in cui deve trovarsi il collegio nel momento in cui si forma la decisione. Non soltanto il pubblico non può assistere alla deliberazione, ma il collegio giudicante deve anche essere nella condizione di poter escludere la presenza di soggetti che non siano legittimati ad assistere alla decisione della causa. In altri termini, la camera di consiglio dedicata alla decisione della causa è segreta, come prevede espressamente il primo comma dell' art. 276 c.p.c. Va, però, segnalato che possono essere presenti in camera di consiglio i magistrati designati per l'udienza ai sensi dell' art. 73, comma 1, c.p.a. (v. il relativo commento) e anche gli ammessi al tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari, atteso che l' art. 73, comma 6, del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 prevede, tra l'altro, che gli ammessi allo stage partecipano alle udienze del processo, anche non pubbliche e dinanzi al collegio, nonché alle camere di consiglio, salvo che il giudice ritenga di non ammetterli. La comunicazione all'esterno dello svolgimento della deliberazione, nei casi non consentiti dalla legge (v., infra, in tema di verbalizzazione della decisione), costituisce rivelazione del segreto d'ufficio, condotta penalmente illecita prevista e punita dall' art. 326 c.p., nonché disciplinarmente sanzionabile. Ancorché il primo comma dell' art. 276 c.p.c. non sia stato espressamente richiamato dalla disposizione in commento né dall' art. 76 c.p.a., deve ritenersi che il principio della segretezza della camera di consiglio abbia carattere generale e che, quindi, esso trovi necessaria applicazione anche al giudizio amministrativo, in forza del rinvio esterno, disciplinato dall'art. 39, comma 1. La normativa emergenziale, approvata nel corso della pandemia da Covid-19, e poi le previsioni legislative attuative del PNRR (per quanto riguarda gli obiettivi di smaltimento dell’arretrato assegnati alla Giustizia amministrativa) hanno sensibilmente inciso sul concetto di camera di consiglio, come sopra delineato, e sulle modalità di svolgimento di essa. Ed invero, a decorrere dal d.l. 17 marzo 2020, n. 18, si è ammessa la possibilità per il collegio giudicante, in forza del comma 6 dell’art. 84 del decreto, di riunirsi in camera di consiglio, avvalendosi, se necessario, di collegamenti da remoto. In ragione delle mutate forme di svolgimento telematico della camera di consiglio, è stato, in via consequenziale e opportunamente, considerato, a tutti gli effetti e per i fini processuali, come camera di consiglio il luogo da cui si collegano i magistrati e il personale addetto. Tale nozione è stata riprodotta e modificata, con la menzione espressa degli avvocati (per la sola fase della discussione della causa), dall’art. 4, comma 1, del successivo d.l. n. 28/2020. Infine, tale modalità di svolgimento della camera di consiglio e dell’intera udienza è stata recepita, a regime, dal d.l. 9 giugno 2021, n. 80, il cui art. 17, comma 7, rispettivamente, alle lettere a) n. 6) e b) n. 2, ha introdotto un nuovo comma 4-bis nell’art. 87 c.p.a., nonché un nuovo art. 13-quater nelle norme di attuazione (d.lgs. n. 104/2010, all. 2). In particolare, con il primo periodo del succitato comma 4-bis dell’art. 87 si è previsto che tutte le udienze straordinarie dedicate allo smaltimento dell'arretrato si svolgano (necessariamente) in camera di consiglio (e non in udienza pubblica) da remoto; con il nuovo art. 13-quater delle norme di attuazione si è invece disciplinata la trattazione delle cause da remoto, prevedendosi, tra l’altro, che il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati, le parti che si difendano personalmente e il personale addetto è considerato aula di udienza a tutti gli effetti di legge. Sebbene non riprodotte le disposizioni dei precedenti d.l. n. 18/2020 e n. 28/2020, deve nondimeno ritenersi che il concetto di camera di consiglio telematica sia ora semanticamente incluso in quello di “aula di udienza” virtuale. Le decisioni deliberate in più camere di consiglio. Differimento (o «riserva») della decisioneIl comma 2 della disposizione prevede che la decisione possa essere differita a una delle successive camere di consiglio. Le ragioni del differimento possono essere molteplici e varie: può accadere che i componenti del collegio ritengano opportuno compiere alcuni approfondimenti onde meglio esaminare una questione giuridica oppure potrebbe risultare imminente l'entrata in vigore di una norma o l'adozione di una pronuncia della Corte costituzionale o della Corte di giustizia dell'Unione europea il cui contenuto possa risultare rilevante ai fini della decisione della causa. Al ricorrere di taluna di queste ipotesi il collegio può, in sostanza, «decidere di non decidere» almeno provvisoriamente (stante il ben noto divieto del non liquet), ossia di procrastinare la decisione. Tale differimento dovrà essere comunque breve, stante il principio costituzionale di ragionevole durata del giudizio ( art. 111 Cost.) che osta ad ogni condotta dilatoria delle parti, ma anche dei giudici. Esistono inoltre, nel codice del processo amministrativo, norme speciali che obbligano il giudice a decidere entro precisi termini (sebbene sempre considerati di natura ordinatoria, attesa la necessaria inestinguibilità dei poteri giurisdizionali) le cause trattate con riti abbreviati (v., ad esempio, l' art. 120 c.p.a.), sicché in tali riti i differimenti, ove possibili (non sembra, difatti, compatibile il comma 2 della disposizione in commento con il rito elettorale disciplinato dall' art. 129 c.p.a.), dovranno essere di breve durata. Proprio in considerazione della indefinita varietà di esigenze che possono giustificare il differimento della decisione, la previsione normativa è elastica e non impone che il differimento venga di necessità disposto a una camera di consiglio immediatamente successiva a quella susseguente alla chiusura della discussione. Quando il collegio non è in grado di indicare la successiva camera di consiglio in occasione della quale assumerà la decisione, si usa dire in gergo curiale che la decisione è stata «riservata», ancorché il codice del processo amministrativo, a differenza di quello di procedura civile, non contempli in via generale l'istituto della «riserva di provvedimento», se non nel caso peculiare previsto dall' art. 73, comma 3, c.p.a. (v. infra). Del differimento della decisione deve comunque rimanere traccia documentale. La scelta del collegio in tal senso deve dunque essere verbalizzata (v. infra) e, nel testo del provvedimento (ordinanza o sentenza), una volta adottato, dovranno essere indicate, in calce, tutte le camere di consiglio in cui la causa è stata trattata ai sensi dell' art. 88, comma 2, lett. g), c.p.a. Il Consiglio di Stato (Cons. St. VI, n. 3303/2016; in termini anche Cons. St. V, n. 6047/2018) ha poi enunciato alcuni importanti principi in tema di differimento e riconvocazione della camera di consiglio. Innanzi tutto ha chiarito che il principio di segretezza della deliberazione sancito dall'art. 276 c.p.c. esclude ogni forma di pubblicità della fase decisoria che si svolge in camera di consiglio, al fine di assicurare la libertà e la serenità della decisione. Ne consegue che le parti non soltanto non hanno alcun diritto a essere informate del contenuto delle decisione, ma nemmeno delle modalità di svolgimento di essa, sotto il profilo temporale o del numero delle camere di consiglio che si rendono necessarie per completare la deliberazione. Inoltre, per quanto riguarda il tempo della deliberazione, l’Alto Consesso ha ricordato che, salvo le ipotesi espressamente disciplinate dalla legge, in cui vige il principio della decisione immediata (come, ad esempio, nel caso dell’art. 129, comma 6, c.p.a.), nessun termine è previsto in via generale per lo svolgimento della camera di consiglio; sicché, nel giudizio ordinario di cognizione, la sentenza può essere deliberata in data diversa da quella in cui si è celebrata l'udienza di discussione. A maggior ragione, quindi, è consentito che alla decisione si arrivi attraverso una pluralità di camere di consiglio, come prevede il comma 2 della disposizione in commento. Va osservato che, in via ordinaria (non anche nel caso di alcuni riti speciali: v., ad esempio, l' art. 120, comma 9, c.p.a.), il termine per la redazione e il deposito del provvedimento decorre dal giorno della camera di consiglio in occasione della quale il collegio abbia deciso la causa. In tal senso dispone l' art. 89, comma 1, c.p.a. Sicché, nell'ipotesi di differimento della decisione a una successiva camera di consiglio, il predetto termine decorrerà dal giorno dell'ultima camera di consiglio. Lo ius superveniensPossono darsi casi in cui il collegio che abbia già deciso la causa debba tornare sui propri passi e rivedere la deliberazione assunta (c.d. «riporto in camera di consiglio»). Uno dei casi più rilevanti in cui si verifica questa necessità di revisione del decisum è costituito dalla modificazione dell'ordinamento giuridico, il c.d.«ius superveniens» (ovviamente, con riferimento alle norme rilevanti per la decisione della singola causa), nell'arco temporale intercorrente tra la chiusura della decisione e la pubblicazione della sentenza una volta sottoscritta. Discende, infatti, dai principi generali che il giudice debba decidere la causa applicando sempre, fatte salve le espresse deroghe di legge, il diritto, sostanziale e processuale, vigente al momento della deliberazione della sentenza, ivi incluso quello entrato in vigore nel lasso temporale testé indicato (potrebbe darsi il caso dell'entrata in vigore di una norma retroattiva o della pubblicazione di una sentenza di accoglimento della Corte costituzionale). Ha affermato, invero, la giurisprudenza ( Cons. St. VI, n. 832/2015) che, in caso di ius superveniens intervenuto in un momento compreso fra la deliberazione della decisione e la sua pubblicazione, il collegio deve comunque provvedere ad una nuova deliberazione la quale tenga conto della sopravvenienza normativa al fine di evitare che la decisione risulti contra legem con riguardo al diritto vigente al momento della sua pubblicazione. Al ricorrere di una modifica normativa del genere indicato, la deliberazione eventualmente già assunta dal collegio giudicante deve ritenersi modificabile fino a quando essa non risulti cristallizzata in un dispositivo già esternato (nelle ipotesi in cui le leggi processuali, ivi incluso il codice del processo amministrativo, impongano la redazione autonoma e la pubblicazione del dispositivo) o in una pronuncia pubblicata, ossia sottoscritta e depositata in segreteria. Un aggancio positivo del principio appena enunciato si rinviene nell' art. 89, comma 2, c.p.a., là dove si stabilisce che la sentenza non può più essere modificata dopo la sua sottoscrizione, così implicando che la decisione possa subire dei mutamenti prima della sottoscrizione (alla quale deve seguire immediatamente la pubblicazione). Solo con la sottoscrizione e il deposito in segreteria della sentenza (o del dispositivo) si esaurisce, infatti, la potestà giurisdizionale del collegio giudicante in relazione alla decisione della specifica controversia. In questo senso è l'opinione della dottrina (Manera) in considerazione del fatto che la semplice deliberazione non può essere equiparata a una sentenza e che essa, pertanto, possa e debba essere modificata quando sia intervenuto un mutamento del diritto prima della pubblicazione del dispositivo o del provvedimento. La posizione della giurisprudenza è allineata a quella della dottrina ( Cass. I, n. 26066/2014; Cass. I, n. 5855/2000), ma ammette un'eccezione, giustificata con il richiamo al principio dell'immutabilità del giudice: si ritiene, infatti, che, ove pure sia intervenuto uno ius superveniens, la deliberazione non possa più essere modificata (Cass. II, n. 158/1998) nell'ipotesi in cui non possa essere ricostituito il medesimo collegio che abbia già assunto la decisione (come nel caso di morte, della perdita della capacità di intendere o di volere o di collocamento a riposo di uno dei magistrati). Rientrano nell'ambito dello ius superveniens anche la decisioni della Corte di giustizia dell'Unione europea qualora incidenti sull'oggetto della controversia. Di tali decisioni, infatti, il giudice nazionale deve necessariamente tener conto, integrando esse automaticamente l'ordinamento giuridico interno. In questo senso si ricorda, tra le molte decisioni, Cons. St., Ad. plen., n. 11/2016, secondo cui le sentenze della Corte di giustizia dell'Unione europea, rese in sede di rinvio pregiudiziale interpretativo, hanno la medesima efficacia delle disposizioni interpretate e, pertanto, vincolano non solo il giudice che ha sollevato la questione, ma ogni altro organo (amministrativo o giurisdizionale) chiamato ad applicare le medesime disposizioni o i medesimi principi elaborati dalla Corte di giustizia. Questioni rilevabili d'ufficio e rimessione della causa sul ruoloPossono verificarsi ipotesi in cui il collegio è obbligato a non decidere immediatamente la controversia; d'altronde possono anche darsi casi in cui il collegio, ancorché già entrato in camera di consiglio per deliberare, opti per la prosecuzione della trattazione della causa, rimettendo quest'ultima sul ruolo e riaprendo così il contraddittorio tra le parti. Una fattispecie del primo tipo è prevista dall' art. 73, comma 3, c.p.a., allorquando il collegio ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio dopo il passaggio in decisione della causa: in questa evenienza il collegio deve riservare la decisione e assegnare, con ordinanza, alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie. La disposizione, all'insegna della tutela del contraddittorio processuale, è evidentemente volta a scongiurare il fenomeno delle decisioni «a sorpresa», ossia delle decisioni assunte dal giudice per un motivo d'ordine sostanziale o processuale in relazione al quale le parti non abbiano avuto alcuna possibilità di interloquire. Il Codice non prevede, ma nemmeno vieta, che il collegio, una volta riunitosi per decidere, ritenga opportuno, per i fini di una migliore amministrazione della giustizia, rimettere la causa sul ruolo. Ovviamente tale possibilità è preclusa nei riti in cui sia prevista la pubblicazione del dispositivo e questa sia già avvenuta, giacché in tal caso il giudice avrà già consumato il suo potere di decidere la causa e sarà è unicamente tenuto a redigere e pubblicare la motivazione. Ragioni che possono indurre un collegio a rimettere la causa sul ruolo sono, in genere, connesse all'esigenza di sentire nuovamente le parti, in contraddittorio, su un punto determinante della controversia o di provvedere a nuovi incombenti istruttori. Peculiarità della deliberazione nei riti che prevedono la redazione di un dispositivoSi è accennato alla circostanza che la decisione della causa non può essere differita a una successiva camera di consiglio né può essere rimessa sul ruolo nei casi in cui sia stato già redatto, depositato e pubblicato il dispositivo, poiché con la pubblicazione del dispositivo della sentenza la causa deve intendersi decisa, in tutto o in parte, e non più modificabile (nel relativo grado). Nei casi in cui il dispositivo non debba essere autonomamente esternato in via anticipata rispetto alla sentenza è invece possibile la sua modificazione. Ed invero, sebbene l'art. 76, comma 4, rinvii anche all' art. 276, quinto comma, c.p.c. (secondo cui, una volta chiusa la discussione, il presidente scrive e sottoscrive il dispositivo), nondimeno tale dispositivo, finché rimane un atto interno al collegio, non impedisce al giudice di riconsiderare la decisione assunta (v. supra). La riconsiderazione della decisione è, pertanto, preclusa nei soli casi in cui il Codice preveda che il giudice rediga e pubblichi il dispositivo della sentenza prima della pubblicazione delle relative motivazioni. In particolare, tale ipotesi ricorre nei riti abbreviati disciplinati dagli artt. 119 e 120, nei quali le parti possono chiedere l'anticipata pubblicazione del dispositivo; ciò in ragione della eventuale proposizione dell'appello contro il solo dispositivo al fine di chiederne la sospensione dell'esecutività (art. 119, comma 6, al quale rinvia l'art. 120, comma 3). Con la pubblicazione della sentenza, anche nella sola parte dispositiva, si determina, infatti, l'estinzione del potere del giudice di decidere la controversia. Verbalizzazione della decisioneL'ultimo comma dell' art. 131 c.p.c. prevede che dei provvedimenti collegiali può essere compilato, se uno dei componenti dell'organo collegiale lo richieda, un sommario processo verbale, il quale deve contenere la menzione dell'unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, che qualcuno dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, abbia eventualmente espresso su ciascuna delle questioni decise. La previsione è stata introdotta dall' art. 16, comma 2, della l. 13 aprile 1988, n. 117, sulla responsabilità civile dei magistrati, che ne ha previsto l'applicazione anche ai provvedimenti dei giudici collegiali aventi giurisdizione in ogni altra materia e, quindi, anche ai giudici amministrativi. Il verbale delle deliberazioni, destinato ad esser conservato a cura del presidente in un plico sigillato presso la segreteria, è redatto dal meno anziano dei componenti del collegio ed è sottoscritto da tutti i componenti del collegio stesso. L'attuale formulazione dell' art. 131 c.p.c. è quella stabilita dalla sentenza della Corte cost., n. 18/1989, con la quale è stato dichiarato illegittimo, per violazione dell' art. 97 Cost., il citato art. 16 della l. 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui disponeva che dei provvedimenti collegiali dovesse sempre essere compilato un processo verbale. BibliografiaD'Orsogna, Lo svolgimento del processo di primo grado. La fase decisoria, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2011, 389; Manera, Deliberazione della sentenza e ius superveniens, in Giust. civ., 1986, I, 264; Police, La riunione, la discussione e la decisione dei ricorsi, in Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014, 534. |