Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 101 - Contenuto del ricorso in appello

Roberto Chieppa

Contenuto del ricorso in appello

 

1. Il ricorso in appello deve contenere l'indicazione del ricorrente, del difensore, delle parti nei confronti delle quali è proposta l'impugnazione, della sentenza che si impugna, nonché l'esposizione sommaria dei fatti, le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, le conclusioni, la sottoscrizione del ricorrente se sta in giudizio personalmente ai sensi dell'articolo 22, comma 3, oppure del difensore con indicazione, in questo caso, della procura speciale rilasciata anche unitamente a quella per il giudizio di primo grado 1.

2. Si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell'atto di appello o, per le parti diverse dall'appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio.

Note operative

Per i termini v. artt. 92, 94 e 96

Tipologia di atto Termine Decorrenza
Riproposizione da parte dell'appellato dei motivi assorbiti in primo grado Entro il termine di costituzione in giudizio

Inquadramento

Il ricorso in appello al Consiglio di Stato è un mezzo di impugnazione ordinario, che preclude il passaggio in giudicato sella sentenza di primo grado.

L'appello è caratterizzato dall'effetto devolutivo, che determina che il Consiglio di Stato riesamini l'intera controversia, ovviamente nei limiti di quanto devoluto (principio dispositivo) e del formarsi del giudicato interno (statuizione della sentenza di primo grado non oggetto di contenzioni in appello).

Pertanto, anche una omessa pronuncia del giudice di primo grado su un punto della controversia non ha effetti invalidanti sulla sentenza impugnata, ma comporta solo che la questione debba essere esaminata dal Consiglio di Stato.

Con il Codice è stato disciplinato il contenuto del ricorso in appello, stabilendo, in conformità all' art. 342 cod. proc. civ., che esso deve contenere specifiche censure contro i capi della sentenza gravata.

La riproposizione dei motivi assorbiti in primo grado può sempre avvenire con semplice memoria, ma tassativamente entro un termine perentorio coincidente con quello della relativa costituzione in giudizio, che è di sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso (trenta nel rito abbreviato).

La nuova regola sul termine per la riproposizione dei motivi assorbiti non si applica agli appelli depositati prima dell'entrata in vigore del codice

Natura del giudizio di appello

L'effetto devolutivo dell'appello (mezzo di impugnazione ordinaria) lascia aperta la questione della natura rinnovatoria o eliminatoria di tale rimedio.

Secondo la giurisprudenza l'appello ha carattere di gravame e non di rimedio impugnatorio, con la conseguenza che l'eventuale carenza di motivazione della sentenza impugnata è di per sé irrilevante, risultando sufficiente dedurre l'erroneità della decisione perché l'intera materia del contendere passi all'esame del giudice di appello, fatti salvi i soli effetti del giudicato interno eventualmente formatosi sui capi autonomi della decisione che non abbiano formato oggetto di specifici motivi di impugnazione (Cons. St. V, n. 1218/2001).

La tesi dell'appello quale mezzo di gravame a carattere rinnovatorio è sostenuta anche dalla prevalente dottrina ( Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 2002, 338).

Ovviamente, anche seguendo tale tesi, l'effetto devolutivo opera nei limiti di quanto appunto devoluto al giudice di appello attraverso i motivi di ricorso, non potendo essere genericamente contestata l'erroneità della sentenza o semplicemente riprodotti i motivi proposti in primo grado (v. oltre).

Tale onere dell'appellante di investire puntualmente il «decisum» di prime cure ha condotto altra parte della giurisprudenza ad affermare il carattere impugnatorio dell'appello nel processo amministrativo, atteso che il giudizio di secondo grado non ha per oggetto il provvedimento impugnato in primo grado, ma la sentenza con la quale il ricorso è stato deciso (Cons. St. V, n. 6243/2002).

Tale tesi trova supporto nell'art. 101, che prevede l'onere di formulare in sede di appello specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, anche se ciò non esclude di per sé il carattere rinnovatorio dell'appello nei limiti, come detto, di quanto devoluto al giudice di secondo grado con specifiche censure che rispettino il dettato dell'art. 101.

Del resto, in assenza di tale onere il giudizio di primo grado del processo amministrativo diventerebbe una sorta di passaggio obbligato che il soggetto è costretto suo malgrado a percorrere pur di giungere dinanzi al giudice d'appello e ottenere da questi la decisione finale sulla fondatezza della pretesa; così non è e il giudizio di primo grado costituisce una fase essenziale del processo amministrativo, nel corso della quale il giudice adito confronta le opposte tesi e dichiara quale va ritenuta fondata con statuizioni che devono essere oggetto di specifiche critiche e censure in sede di appello.

Interesse all'appello

Il ricorso in appello deve essere sostenuto da un interesse della parte ad ottenere la riforma anche parziale della sentenza di primo grado.

L'interesse al gravame deve sussistere non soltanto al momento della proposizione del ricorso in appello, ma anche a quello della decisione.

Deve ritenersi inammissibile, per difetto d'interesse, la domanda proposta in appello intesa ad ottenere una semplice rettifica della motivazione della sentenza di primo grado priva di effetti sostanziali; mentre il ricorrente vittorioso in primo grado non può ritenersi carente di interesse a proporre appello ove dalla riforma della sentenza non discendano mere rettifiche della sola motivazione bensì anche effetti sostanziali.

Non fa venire meno l'interesse all'appello l'adozione di atti da parte dell'amministrazione per sostituire il provvedimento annullato, al dichiarato fine di dare provvisoria esecuzione ad una pronuncia del Tar avverso la quale è contestualmente proposto gravame, in quanto tali atti non esprimono acquiescenza alla decisione di primo grado. L'efficacia di tali atti viene meno nel caso di eventuale riforma della decisione di primo grado all'esito del giudizio di appello.

Al contrario, costituisce acquiescenza alla sentenza di primo grado e rende inammissibile l'appello proposto contro la stessa l'attività dell'amministrazione che non si limiti alla mera esecuzione del comando proveniente dalla sentenza ma elimini dal mondo giuridico l'atto impugnato adottando, in sostituzione di quello impugnato, una nuova determinazione scevra dei vizi che avevano inficiato il primo.

L'acquiescenza espressa o tacita, contemplata dall' art. 329 c.p.c., opera come preclusione rispetto ad un'impugnazione non ancora proposta, mentre, ove questa sia già intervenuta, la volontà della parte soccombente di accettare la pronuncia del giudice può esprimersi solo mediante una espressa rinuncia all'impugnazione stessa, da compiersi nella forma prescritta dalla legge.

È stato anche aggiunto che l'appellante vittorioso, convenuto in primo grado, non ha interesse a contestare la sussistenza della giurisdizione, chiedendo una pronuncia che potenzialmente gli sarebbe più dannosa, imponendo una translatio davanti al giudice ordinario con conseguente riproponibilità della domanda e, quindi, un possibile esito diverso dell'azione di annullamento intrapresa dal ricorrente di primo grado (Cons. St. V, n. 745/2017). Vedi il commento all'art. 110.

Allo stesso modo, il ricorrente soccombente non può, in sede di appello, sollevare questioni di irricevibilità, inammissibilità ed improcedibilità del ricorso di primo grado (Cons. giust. Amm. Reg. Sic., n. 778/2022).

Il contenuto del ricorso in appello

Il ricorso in appello deve contenere l'indicazione del ricorrente, del difensore, delle parti nei confronti delle quali è proposta l'impugnazione, della sentenza che si impugna, nonché l'esposizione sommaria dei fatti, le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, le conclusioni, la sottoscrizione del ricorrente se sta in giudizio personalmente oppure del difensore con indicazione, in questo caso, della procura speciale rilasciata anche unitamente a quella per il giudizio di primo grado.

Anche alla luce del codice del processo amministrativo, è inammissibile l'appello cumulativamente proposto nei confronti di distinte sentenze (Cons. St. V, n. 5554/2011; Cons. St. IV, n. 6102/2011).

Tale orientamento, consolidatosi nel corso del tempo, è stato rimesso in discussione da Cons. St., V, n. 5385/2018, con cui  - sulla base di principi di economia processuale, della regola che impone l'applicazione delle norme del codice di rito, in quanto non incompatibili (art. 39) e della generale possibilità di cumulare domande connesse, prevista all'art. 32 c.p.a., da ritenersi operante anche in appello (art. 38) – è stato ritenuto ammissibile l'appello c.d. cumulativo a condizione che ricorra il requisito soggettivo della identità delle parti e quello oggettivo della comunanza delle questioni o della stretta connessione tra le cause (nel caso di specie, si trattava di impugnazione avverso sentenze pronunziate tra le stesse parti, in relazione alla medesima vicenda procedimentale, in distinta fase processuale, avendo parte appellante impugnato cumulativamente la sentenza revocanda e quella che definisce il giudizio di revocazione).

I motivi di appello.

In conformità all' art. 342 c.p.c., l'art. 101 prevede che il ricorso in appello deve contenere specifiche censure contro i capi della sentenza gravata.

Va segnalato che con la riforma del processo civile attuata con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (entrata in vigore il 28 febbraio 2023) è stato modificato l'art. 342 c.p.c., che ora prevede che “L'appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico: 1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato; 2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; 3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. In questo modo viene eliminata la maggiore rigidità che caratterizzava il processo civile rispetto a quello amministrativo.

Sulla inammissibilità dell'appello per violazione del principio di sinteticità degli atti v. l'art. 3 c.p.a.

Il giudizio d'appello nel processo amministrativo non è un  judicium novum e la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante, attraverso l'enunciazione di specifici motivi, specificità che esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, siano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza logicamente separabili dall'argomentazione che la sorregge, onde alla parte volitiva dell'appello deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal giudice di prime cure.

Tesi confermata dalla giurisprudenza anche dopo l'entrata in vigore del Codice: la parte appellante è obbligata a formulare specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, con conseguente inammissibilità di una mera riproduzione dei motivi di primo grado, atteso che l'appello non è un iudicium novum; tuttavia, il rispetto della suddetta prescrizione va commisurato alla specificità delle singole vicende processuali ed alla natura dei rilievi mossi dalla parte appellante alla pronuncia contro la quale insorge; in particolare, ove tali rilievi si traducano in un radicale dissenso rispetto al percorso motivazionale seguito dal primo giudice, al quale se ne contrappone uno totalmente alternativo, o, peggio, nell'affermazione del non avere il primo giudice dato realmente riscontro alle censure articolate in ricorso, è naturale che l'atto di impugnazione, pur avendo a proprio oggetto la decisione di primo grado, finisca per sollecitare al giudice di appello un vero e proprio riesame dei motivi originariamente formulati (Cons. St. III, n. 749/2016).

È, quindi, inammissibile il motivo d'appello che si limiti alla mera riproposizione delle doglianze a suo tempo proposte in primo grado, senza svolgere alcuna censura sulla sentenza appellata.

Parimenti è inammissibile l'appello avverso un sentenza che si sorregge su una pluralità di motivi ognuno dei quali è da solo in grado di sostenerla perché fondato su specifici presupposti logico giuridici e l'appellante abbia omesso di contrastarli tutti.

Il principio del limitato effetto devolutivo dell'appello esige che con l'atto di impugnazione vengano specificamente criticate tutte le parti della decisione riferibili alle questioni relative ad ognuna delle domande e che l'omessa esplicita contestazione con l'appello di una o più capi implica, in applicazione dell' art. 329 comma 2 c.p.c. l'acquiescenza alle parti non impugnate.

In sostanza, l'appello deve svolgere una critica della decisione gravata senza limitarsi alla mera riedizione degli originari motivi, disattesi, nel merito, dal giudice di primo grado, sicché l'appello che non specifichi alcuna censura specifica alla sentenza impugnata è inammissibile.

Il rispetto dell'onere di formulare specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, con la conseguente inammissibilità di una mera riproduzione dei motivi di doglianza di primo grado, va commisurato alla specificità delle singole vicende processuali ed alla natura dei rilievi mossi dalla parte appellante alla pronuncia contro la quale insorge; in particolare, ove tali rilievi si traducano in un radicale dissenso rispetto al percorso motivazionale seguito dal primo giudice, al quale se ne contrappone uno totalmente alternativo, o, peggio, nell'affermazione del non avere il primo giudice dato realmente riscontro alle censure articolate in ricorso, è naturale che l'atto di impugnazione, pur avendo a proprio oggetto la decisione di prime cure, finisca per sollecitare al giudice di appello un vero e proprio riesame dei motivi originariamente formulati (Cons. St. VI, n. 1298/2015).

La giurisprudenza ha interpretato in modo rigoroso l'obbligo di indicare specifiche censure contro i capi della sentenza gravati, ritenendo che il mancato assolvimento di tale onere implica l'inammissibilità dell'appello e che l'appellante non può limitarsi ad invocare la riforma della sentenza di primo grado, esponendo una propria ricostruzione giuridica, che non passi attraverso una critica puntuale della motivazione della pronuncia di prime cure (Cons. St. VI, n. 1589/2017; Cons. St. IV, n. 3766/2017). L'oggetto del giudizio di appello è costituito da quest'ultimo decisum, e non dal provvedimento gravato in primo grado e, pertanto, l'assolvimento dell'onere esige la deduzione di specifici motivi di contestazione della correttezza del percorso argomentativo che ha fondato la decisione appellata (Cons. giust. amm. Reg. Sic., n. 364/2017; Cons. St. V, n. 2015/2015); ciò in quanto l'appello deve sempre, accanto alla parte volitiva, anche una parte critica, a confutazione della sentenza di primo grado, non trattandosi di un novum iudicium ma di una revisio prioris istantiae (Cons. St. VII, n. 8554/2023).

Nel processo amministrativo l'inammissibilità dei motivi di appello non consegue solo al difetto di specificità di cui all'art. 101, comma 1, ma – come imposto dall'art. 40 c.p.a., applicabile a giudizi di impugnazione in forza del rinvio interno operato dall'art. 38 c.p.a. – anche alla loro mancata distinta   indicazione in apposita parte del ricorso a loro dedicata (giurisprudenza consolidata (Cons. St.  IV, n. 4636/2016; Cons. St.  IV, n. 4659/2017).

Modalità di riproposizione dei motivi assorbiti in primo grado e delle eccezioni non accolte

In caso di accoglimento del ricorso da parte del Tar può accadere che il giudice non esamini tutti i motivi di ricorso, «assorbendone» alcuni, il cui esame ritiene non necessario alla luce della statuizione di accoglimento.

La prassi dell'assorbimento dei motivi di ricorso è stata più volte criticata dalla dottrina e anche la giurisprudenza ha cercato di porre un freno ad un utilizzo dell'assorbimento che possa risultare penalizzante per l'effettività della tutela giurisdizionale.

È stato affermato che l'ordine del giudice di esaminare le censure non può prescindere dal principio dispositivo, che regola anche il processo amministrativo e comporta la necessità di esaminare prima quelle censure, da cui deriva un effetto pienamente satisfattivo della pretesa del ricorrente. In presenza di un motivo diretto ad escludere il primo classificato di una gara di appalto e di altro motivo tendente ad una rinnovazione (parziale o totale) delle operazioni di gara, solo l'accoglimento della prima censura, che deve quindi essere esaminata per prima, soddisfa l'interesse della seconda classificata ad ottenere l'aggiudicazione dell'appalto (Cons. St. n. 213/2008, che ha anche sottolineato che il mancato esame di alcune censure non può essere escluso in quanto — come affermato nella specie dal Tar — «occorrerebbe svolgere un'ulteriore attività istruttoria», tenuto conto che in alcun modo difficoltà istruttorie o esigenze di economia processuale possono condurre ad una limitazione della tutela).

Quale sia l'ordine di esame dei motivi, il giudice è tenuto a proseguire tale esame finché è certo che dall'accoglimento di un ulteriore motivo non deriva più alcuna utilità al ricorrente; la prassi del giudice amministrativo di assorbire alcuni motivi del ricorso, che già in precedenza poteva condurre a risultati errati, deve essere del tutto riconsiderata ora che è ammesso il risarcimento del danno derivante dall'esercizio illegittimo dell'attività amministrativa, in quanto, per assorbire un motivo, deve essere evidente che dall'eventuale accoglimento della censura assorbita non possa derivare alcun vantaggio al ricorrente, neanche sotto il profilo risarcitorio.

Va — incidentalmente — rilevato che il Governo ha espunto dal Codice una disposizione redatta dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato, che tendeva a limitare la prassi dell'assorbimento dei motivi, stabilendo che «Quando accoglie il ricorso, il giudice deve comunque esaminare tutti i motivi, ad eccezione di quelli dal cui esame non possa con evidenza derivare alcuna ulteriore utilità al ricorrente» (art. 45, comma 3, del testo proposto dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato).

Fino all'entrata in vigore del Codice, in caso di fondatezza dei motivi del ricorso di appello, i motivi assorbiti in primo grado potevano essere riproposti dall'appellato (vincitore in primo grado) con semplice memoria senza alcun termine.

Il Codice ha previsto la decadenza delle domande e delle eccezioni non esaminate o dichiarate assorbite nella sentenza di primo grado, se non espressamente riproposte nell'atto di appello e la disposizione non ha portata innovativa.

Con disposizione innovativa, invece, per la riproposizione delle domande e delle eccezioni formulate dalle parti diverse dall'appellante viene imposto, a tutela del contraddittorio, un termine perentorio coincidente con quello della costituzione in giudizio.

I motivi assorbiti (o le eccezioni non esaminate, salvo quanto detto oltre) continuano, quindi, a poter essere riproposti con semplice memoria, ma ciò deve avvenire entro il termine per la costituzione in giudizio, che è di sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso (trenta nel rito abbreviato).

La rilevanza della novità si desume anche dal fatto che solo per tale disposizione è stata dettata una specifica disposizione transitoria.

Infatti, mentre in termini generali, l'art. 2 delle Norme transitorie stabilisce che «Per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo continuano a trovare applicazione le norme previgenti»; per la riproposizione dei motivi assorbiti, è stato previsto che la disposizione in commento non si applica agli appelli depositati prima dell'entrata in vigore del codice medesimo.

Per tali giudizi la riproposizione dei motivi continuerà a poter avvenire anche nell'ultima memoria; mentre per tutti i giudizi di appello, in cui il ricorso è stato depositato dopo l'entrata in vigore del Codice, le parti appellate dovranno fare particolare attenzione a costituirsi tempestivamente in giudizio e a riproporre con il primo atto i motivi assorbiti, se non vogliono precludersi tale possibilità.

L'eccezione di tardività del ricorso di primo grado, qualora non sia stata esaminata dal Tar, va riproposta nel giudizio di appello a pena di decadenza entro il termine di costituzione in giudizio (vale a dire 60 giorni dal perfezionamento nei propri confronti dalla notificazione del ricorso (art. 46 comma 1) dimidiati a 30 giorni in ragione nel rito degli appalti (art. 119), ai sensi dell'art. 101, comma 2, pena l'inammissibilità della stessa (Cons. St. V, n. 5883/2011).

Diverso è il caso in cui il Tar, con sentenza parziale, si sia espressamente riservato ogni ulteriore decisione di rito, nel merito e sulle spese; il mancato esame delle eccezioni proposte dal resistente non può essere inteso quale omessa pronuncia, idonea a legittimare la loro riproposizione dinanzi al giudice d'appello, giacché il loro esame da parte di quest'ultimo comporterebbe un'indebita sottrazione della loro cognizione al giudice di prime cure, che su di esse non si era ancora pronunciato (Cons. St. IV, n. 694/2011).

Quando invece l'appellato, pur vincendo il ricorso, risulta soccombente su alcune statuizioni della sentenza del T.A.R. (ad es., con cui si respingono determinate eccezioni), la devoluzione di tali questioni al giudice di appello richiede l'appello incidentale.

In questo senso era già la giurisprudenza antecedente al Codice, che aveva appunto rilevato che le questioni pregiudiziali sollevate in primo grado e che sono state oggetto di esame espresso da parte del primo giudice e da questi rigettate, possono essere riproposte dall'appellato esclusivamente mediante appello incidentale, potendosi riproporre con semplice memoria solo le questioni pregiudiziali sollevate e non esaminate dal tribunale (Cons. St. IV, n. 120871998), ritenendo invece rituale la riproposizione della questione pregiudiziale non esaminata dal giudice di primo grado con semplice memoria, senza necessità dell'appello incidentale (Cons. St. IV, n. 1383/1998).

Con riferimento all'appellante, devono intendersi rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell'atto di appello, nell'adempimento ad un onere di riproposizione che si lega alla previsione contenuta nel successivo art. 105 comma 1, c.p.a. che, enunciando il principio di tassatività dei casi di annullamento con rinvio al primo giudice, stabilisce (implicitamente ma univocamente) che, in tutti gli altri casi, il Consiglio di Stato si pronunci nel merito del ricorso proposto in primo grado, anche se il giudizio innanzi al Tar si sia concluso con una erronea dichiarazione di inammissibilità, improcedibilità o irricevibilità, ed è proprio per consentire al giudice di appello di decidere sul merito del ricorso primo grado, nei casi in cui l'annullamento della sentenza non comporti il rinvio al primo giudice, che l'art. 101 comma 2, pone in capo al ricorrente l'onere di riproposizione delle domande, in mancanza della quale esse si devono intendere abbandonate (Cons. St. IV, n. 2433/2015). Restano estranei al thema decidendum le domande e le eccezioni non formalmente riproposte in appello in considerazione di quanto disposto nell' art. 329, comma 2, c.p.c.tantum devolutum quantum appellatum — sostanzialmente ripreso dall' art. 101, comma 2, c.p.a. (Cons. St. VI, n. 1639/2015).

In caso di non riproposizione in appello di una domanda (nella specie, di risarcimento) non esaminata in primo grado, è stato ritenuto che la domanda possa essere riproposta in un nuovo giudizio nel termine previsto dall’art. 30, comma 5 (120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza; Cons. St. III, n. 5014/2018).

Segue. Le questioni rilevabili d'ufficio e il difetto di giurisdizione.

Per le questioni pregiudiziali rilevabili d'ufficio si riteneva in passato che fossero tutte rilevabili dal giudice o deducibili dalla parte in appello, quando non oggetto di esplicita statuizione in primo grado.

Per il difetto di giurisdizione, tuttavia, la giurisprudenza ha mutato orientamento, equiparando statuizione esplicita e statuizione implicita.

in primo luogo, la Cassazione, mutando indirizzo, ha fornito una interpretazione adeguatrice dell' art. 37 c.p.c. ritenendo che: a) fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado, il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza dei termini previsti dall' art. 38 c.p.c.; b) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; c) le sentenze di appello sono ricorribili in Cassazione per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si è formato il giudicato implicito o esplicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; d) il giudice di merito può rilevare anche d'ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato implicito o esplicito ( Cass.S.U.,n. 24883/2008 e, per l'applicabilità anche al processo amministrativo, Cass.S.U., n.26789/2008).

È importante sottolineare la novità, costituita dal fatto che anche la statuizione implicita sulla giurisdizione è idonea a formare il giudicato interno con la conseguenza che se la sentenza che (anche implicitamente statuendo nel merito) ha ritenuto sussistere la giurisdizione non è impugnata sul punto, la questione di giurisdizione non può più essere contestata, neanche successivamente con ricorso per cassazione.

Un limite a far valere le questioni di giurisdizione è stato aggiunta anche da quella giurisprudenza, secondo cui è inammissibile la questione di difetto di giurisdizione sollevata in appello dalla stessa parte che ha adito la medesima giurisdizione con l'atto introduttivo di primo grado; tale regola processuale trova fondamento nel divieto dell'abuso del diritto, che è integrato dal venire contra factum proprium dettato da ragioni meramente opportunistiche (Cons. St. V, n. 2111/2013; Cons. St. n. 1605/2015; in parte condiviso da Cass.S.U., ord., n. 9251/2014 che ha escluso l'applicabilità del principio quando il mutamento della linea difensiva è frutto di un ragionevole ripensamento imposto da un sopravvenuto orientamento giurisprudenziale).

Difesa personale in giudizio in appello

Con il primo decreto correttivo al Codice ( d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195) l'art. 101, comma 1 è stato modificato con una piccola aggiunta per chiarire che innanzi al Consiglio di Stato la parte può stare in giudizio personalmente solo se fornita della specifica abilitazione al patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori; in tutti gli altri casi la difesa personale è ammissibile solo davanti al T.A.R.; viene richiamato l'art. 22, comma 3.

Il terzo comma dell'art. 22, si limita a riprodurre l' art. 86 c.p.c., nel prevedere che la parte o la persona che la rappresenta, quando ha la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito, può stare in giudizio senza il ministero di altro difensore.

Si ricorda che l'art. 95, comma 6, ha escluso la possibilità della difesa personale nei giudizi di impugnazione («Ai giudizi di impugnazione non si applica l'articolo 23, comma 1»)

La necessità della difesa tecnica in appello è stata confermata, in materia di accesso dal Consiglio di Stato, che ha rilevato che l'art. 95, comma 6, stabilisce che « ai giudizi di impugnazione non si applica l'articolo 23, comma 1», che prevede la possibilità di difesa personale delle parti, tra l'altro, nei giudizi in materia di accesso, così escludendo in maniera tassativa la possibilità di difesa personale delle parti nei giudizi in materia di accesso davanti al Consiglio di Stato — Cons. St. V, n. 5623/2011; principio affermato anche in materia elettorale da Cons. St. V, n. 999/2011.

Si rinvia al commento all'art. 23.

Bibliografia

Attardi, Note sull'effetto devolutivo dell'appello, in Giur. it. 1961, IV, 153; Bassi, L'effetto devolutivo dell'appello nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm. 1985, 343; Pajno, Appello nel processo amministrativo e funzioni di nomofilachia, in Riv. trim. dir. pubbl. 1990, 541; Paleologo, L'appello al Consiglio di Stato, Milano, 1989 Pototschnig, Appello - e) Diritto amministrativo, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 781.

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