Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 114 - ProcedimentoProcedimento
1. L'azione si propone, anche senza previa diffida, con ricorso notificato alla pubblica amministrazione e a tutte le altre parti del giudizio definito dalla sentenza o dal lodo della cui ottemperanza si tratta; l'azione si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza. 2. Unitamente al ricorso è depositato in copia autentica il provvedimento di cui si chiede l'ottemperanza, con l'eventuale prova del suo passaggio in giudicato 1. 3. Il giudice decide con sentenza in forma semplificata. 4. Il giudice, in caso di accoglimento del ricorso: a) ordina l'ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l'emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione; b) dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato; c) nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano; d) nomina, ove occorra, un commissario ad acta; e) salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo. Nei giudizi di ottemperanza aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, la penalità di mora di cui al primo periodo decorre dal giorno della comunicazione o notificazione dell'ordine di pagamento disposto nella sentenza di ottemperanza; detta penalità non può considerarsi manifestamente iniqua quando è stabilita in misura pari agli interessi legali 2. 5. Se è chiesta l'esecuzione di un'ordinanza il giudice provvede con ordinanza. 6. Il giudice conosce di tutte le questioni relative all'ottemperanza, nonché, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, di quelle inerenti agli atti del commissario ad acta. Avverso gli atti del commissario ad acta le stesse parti possono proporre, dinanzi al giudice dell'ottemperanza, reclamo, che è depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di sessanta giorni. Gli atti emanati dal giudice dell'ottemperanza o dal suo ausiliario sono impugnabili dai terzi estranei al giudicato ai sensi dell'articolo 29, con il rito ordinario 3. 7. Nel caso di ricorso ai sensi del comma 5 dell'articolo 112, il giudice fornisce chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza, anche su richiesta del commissario. 8. Le disposizioni di cui al presente Titolo si applicano anche alle impugnazioni avverso i provvedimenti giurisdizionali adottati dal giudice dell'ottemperanza. 9. I termini per la proposizione delle impugnazioni sono quelli previsti nel Libro III.
[1] Comma sostituito dall'articolo 1, comma 1, lettera dd), numero 1), del D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195. [2] Lettera modificata dall'articolo 1, comma 781, lettera a), della Legge 28 dicembre 2015, n. 208. [3] Comma sostituito dall'articolo 1, comma 1, lettera dd), numero 2), del D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195. Note operative
InquadramentoIl procedimento di ottemperanza delineato dall'art. 114 è il risultato di una semplificazione dell'azione e dell'arricchimento di nuovi strumenti utilizzabili dalle parti in questa fase del giudizio. In primo luogo, non è più necessaria la diffida per agire in ottemperanza, ma il ricorso va notificato alla P.A. (o al soggetto equiparato) e ai controinteressati. Sono inoltre ampliati i poteri del giudice, che possono aggiungersi o sostituirsi alla tradizionale nomina del commissario ad acta. In particolare, unitamente alle misure di diretta esecuzione, il giudice amministrativo, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo (possono quindi essere fissate delle somme che la P.A. paga in modo proporzionale all'aumentare del ritardo nell'adempiere al giudicato). Il commissario ad acta è espressamente qualificato come ausiliario del giudice e il giudice dell'ottemperanza conosce di tutte le questioni relative all'esatta ottemperanza, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario; queste ultime solo su reclamo di terzi. (peraltro, la nomina del commissario può essere anticipata già in sede di esecuzione ai sensi dell'art. 34, comma 1, lett. e), del Codice. Diffida ad adempiereL' art. 90 del r.d. n. 642/1907 prevedeva che il ricorso in ottemperanza potesse essere proposto finché fosse proponibile l'azione di giudicato, ma non prima di trenta giorni da quello in cui l'autorità amministrativa fosse messa in mora di provvedere. Era, quindi, necessaria la notificazione di una diffida ad adempiere con assegnazione di un termine di 30 giorni, alla cui scadenza l'amministrazione si considerava inadempiente. È già stato rilevato come in realtà l'obbligo per la P.A. di dare attuazione al giudicato scatta subito, ancor prima della notificazione della diffida, quanto meno al momento della conoscenza legale della sentenza ed era in passato stato sottolineato come la diffida potesse non risultare necessaria quando l'amministrazione ha già chiaramente manifestato la volontà di non volere ottemperare in tutto o in parte (Cons. St. VI, n. 3160/2008) ovvero con il proprio comportamento ha lasciato chiaramente intendere di non volere adempiere — Cons. St. IV, n. 4568/2001. Durante i lavori della Commissione che ha redatto il Codice era stato allora posto il problema dell'eventuale codificazione delle eccezioni alla notifica della diffida, tra cui sarebbe potuto rientrare anche il caso dell'adozione di atti in violazione o elusione del giudicato, che anche integrano la volontà della P.A. di non adempiere. La soluzione, che è prevalsa, è stata quella delle non necessità della diffida: l'azione si propone «anche senza previa diffida», con ricorso notificato alla P.A. e alle altre parti del giudizio definito con la sentenza da ottemperare. L'eliminazione della diffida semplifica la tutela giurisdizionale, pur potendo la parte decidere comunque di mettere in mora l'amministrazione o anche di farlo con strumenti più semplici della notificazione della diffida (raccomandata; mail certificata o altra comunicazione). Si potrebbe porre il problema del momento in cui scatta l'obbligo di adempiere e tale momento andrà collegato, come già detto, alla conoscenza legale della sentenza. Peraltro, si deve tenere presente che tempi e modalità di attuazione della sentenza possono oggi essere fissati già dal giudice della cognizione, come prevede l'art. 34 del Codice, che stabilisce che «In caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda: dispone le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza». Il termine per provvedere e anche la nomina del commissario con effetto dalla infruttuosa scadenza del termine possono, quindi, essere stabiliti già in sede di cognizione, con evidente accelerazione della tutela del privato. Prescrizione dell'actio iudicatiÈ stato confermato il termine di prescrizione decennale per l' actio iudicati («l'azione si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza») e, come già detto, l'introduzione di un termine di decadenza per l'azione di nullità (art. 31, comma 4) non riguarda gli atti (nulli) violativi o elusivi del giudicato. Il carattere prescrizionale del termine decennale per la proposizione del giudizio di ottemperanza rinviene una conferma testuale nell'ambito dello stesso comma 1 dell'art. 114, (secondo cui «l'azione si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza»). Vero è che la disposizione normativa, con formulazione peculiare, riferisce l'effetto prescrizionale all'actio iudicati in quanto tale e non al diritto sottostante (laddove, invero, dovrebbe piuttosto ipotizzarsi una decadenza dall'actio per prescrizione del ius sottostante). Tuttavia, dall'ordito normativo emerge con sufficiente chiarezza una «voluntas legis» volta a consentire l'esperimento dell'actio iudicati entro l'ordinario termine prescrizionale decennale, non emergendo ragioni testuali o sistematiche tali da escludere l'applicabilità, a fronte di tali ipotesi di termini prescrizionali, delle ipotesi di interruzione di cui agli art. 2943 ss. c.c. (Cons. St. V, n. 4141/2015); sono quindi ammessi atti interruttivi (Cons. St. VI, n. 6432/2014). Il termine decennale previsto dall'art. 114, comma 1, del c.p.a. in ogni caso può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato (Cons. St., Ad. plen., n. 24/2020). Le modalità di svolgimento del giudizio di ottemperanzaIl giudizio di ottemperanza si svolge con modalità semplificate e accelerate in virtù dell'assoggettamento al rito camerale. Tuttavia, la possibilità di cumulare la domanda di ottemperanza con altre domande può determinare il passaggio al più formale rito dell'udienza pubblica. La semplificazione del rito non affievolisce la garanzia del pieno esercizio dei diritti di difesa, che anzi con il Codice sono stati rafforzati come illustrato oltre. La disciplina del giudizio di ottemperanza è racchiusa nelle disposizioni dettate dagli art. 112-115 c.p.a. e ad esse, in linea generale, non si applicano le disposizioni dell'esecuzione civile stabilite dal c.p.c. (Cons. St. V, n. 1766/2017). Segue. Legittimazione e notificazione del ricorsoLa legittimazione attiva ad agire in ottemperanza spetta alle parti del giudicato da eseguire, cui sono equiparati i loro rappresentanti e successori. L'eliminazione della diffida è stata accompagnata dalla codificazione della necessità della notificazione del ricorso in ottemperanza. Si ricorda che il citato art. 90 del reg. del 1907 si limitava a stabilire che la segreteria dava immediata comunicazione del ricorso «al Ministero competente», il quale, entro venti giorni dalla ricevuta comunicazione, può trasmettere le sue osservazioni alla segreteria stessa. Successivamente, la Corte costituzionale, con le sentenze n. 441/2005 e n. 100/2006, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prescrive che il ricorso per il giudizio d'ottemperanza debba essere previamente notificato all'amministrazione resistente, in riferimento agli art. 24, comma 2 e 111, comma 2, Cost., rilevando che la disposizione impugnata deve applicarsi oggi nel senso che, se sia stata omessa la notifica, il testo integrale del ricorso deve essere comunicato d'ufficio all'amministrazione resistente, in tempo utile per consentirle di articolare le sue difese. Era da tempo, comunque, diffusa la prassi della notificazione del ricorso in ottemperanza e il Codice ha correttamente recepito tale prassi, prevedendo la necessaria notificazione, peraltro indispensabile anche a seguito dell'arricchimento della possibilità di proporre domande in sede di ottemperanza. È, quindi, oggi necessaria la notificazione del ricorso all'amministrazione inadempiente o ai soggetti equiparati (per il concetto di equiparazione vedi l'art. 7, comma 2 del Codice) e alle altre parti del giudizio definito con la sentenza da ottemperare, dovendo intendersi per tali i soli soggetti controinteressati. La modifica apportata dal decreto correttivo al comma 2 dell'art. 114, chiarisce che il provvedimento del giudice (e, dunque, non la sola sentenza) di cui si chiede l'ottemperanza va depositato e non anche notificato. Segue. Il rito camerale.Il giudizio si svolge in camera di consiglio. Va tenuto conto che il rito in camera di consiglio è oggi disciplinato dall'art. 87 del Codice, che stabilisce espressamente i termini del giudizio, prevedendo che tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, esclusi quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti. La stessa norma aggiunge che la camera di consiglio è fissata d'ufficio alla prima udienza utile successiva al trentesimo giorno decorrente dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate. Nella camera di consiglio sono sentiti i difensori che ne fanno richiesta. La trattazione in pubblica udienza non costituisce motivo di nullità della decisione. La trattazione del ricorso in ottemperanza con il rito in camera di consiglio comporta l'applicazione dell'art. 87, che prevede che tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, salvo quelli relativi alla notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti (art. 87, comma 3). Dunque: a) il ricorso introduttivo, incidentale e i motivi aggiunti devono essere depositati entro 15 giorni decorrenti dall'ultima notificazione (Cons. St. V, n. 1179/2018); b) la camera di consiglio è fissata d'ufficio alla prima udienza utile successiva al trentesimo giorno decorrente dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate (60 giorni dalla notifica) La Camera di Consiglio viene fissata alla prima udienza utile successiva al trentesimo giorno decorrente dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate (30 giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso). Non occorre la domanda di fissazione (art. 87, comma 3, secondo cui la camera di consiglio è fissata «d'ufficio»); le parti possono produrre documenti fino a venti giorni prima della camera di consiglio, memorie fino a quindici giorni liberi prima e presentare repliche fino a dieci giorni liberi prima (termini di cui all'art. 73 dimezzati). La decisione è assunta con sentenza in forma semplificata (art. 74 del Codice); qualora si chieda l'esecuzione di un'ordinanza, il Giudice provvede con ordinanza (art. 114, comma 5). Contenuto della sentenzaLa riduzione delle ipotesi di giurisdizione di merito del giudice amministrativo non ha riguardato il giudizio di ottemperanza, che continua a costituire il principale caso di giurisdizione di merito. La giurisdizione di merito è giustificata dall'attribuzione di pieni poteri al giudice amministrativo per consentire l'attuazione del giudicato, in modo da potersi sostituire — anche attraverso la nomina di un commissario ad acta — all'amministrazione. Non è stato codificato alcun principio diretto a regolare il rilievo nell'ambito dell'ottemperanza delle sopravvenienze di fatto e diritto al giudicato, dovendo tali elementi essere valutati in relazione alla fattispecie concreta dal giudice dell'ottemperanza. Le sopravvenienze di fatto possono costituire un obiettivo ostacolo all'attuazione del giudicato e aprire la strada al risarcimento per equivalente (ad es. sopravvenienza costituita dall'avvenuta esecuzione del contratto di appalto, la cui aggiudicazione è stata annullata); mentre per le sopravvenienze di diritto, va applicato l'orientamento prevalente, sorto in ordine alle questioni edilizie, che è nel senso che trova applicazione la norma vigente al momento della notificazione della sentenza definitiva (Cons. St. IV, n. 3615/2008), che va però adattato alla singola fattispecie (v. anche il commento all'art. 112) Segue. Le c.d. astreintesUna importante novità contenuta nell'art. 114 è costituita dall'introduzione di un mezzo di coazione diretta, simile alle astreintes previste in altri ordinamenti. Le astreintes sono modelli giurisprudenziali presenti nell'ordinamento francese di coercizione indiretta al fine di spingere un obbligato inadempiente alla coazione all'adempimento. Consistono in una somma da pagare da parte del debitore inadempiente qualora questo si rifiuti di ottemperare all'ordine del giudice di eseguire la prestazione dovuta. Con l'art. 114, comma 4, lett. e) è stato previsto che «salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, [il giudice] fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo» (in conformità con quanto previsto dall' art. 614-bis, comma 1, c.p.c., come novellato dalla l. n. 69/2009 e, da ultimo dalla riforma del processo civile attuata con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, entrata in vigore il 28 febbraio 2023). In altri ordinamenti tale strumento costituisce l'unico mezzo di coazione (indiretta) nei confronti della P.A.; pur avendo nel nostro ordinamento strumenti di coazione diretta, può essere l'utile l'affiancamento di tale strumento per colpire il perdurante inadempimento della P.A. Secondo la giurisprudenza, l'istituto introdotto con l'art. 114, comma 4, lettera e), costituisce una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, che mira a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all'obbligazione posta a suo carico dal giudice. Detta misura assolve ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria in quanto non mira a riparare il pregiudizio cagionato dall'esecuzione della sentenza ma vuole sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all'adempimento. Trattasi, cioè, di una pena e non di un risarcimento (Cons. St. V, n. 6688/2011). La previsione nasce dalla trasposizione dell'art. 614-bis, comma 1, c.p.c., a sua volta introdotta dall'art. 49, comma 1 della l. n. 68/2009 e poi modificata dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che, con riferimento ad alcuni « obblighi di fare infungibile o di non fare », ha previsto la possibilità per il giudice civile di disporre la condanna dell'obbligato alla corresponsione di una « somma di denaro dovuta [...] per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento ». Tuttavia, tra la disciplina amministrativa e quella civilistica emergono alcune differenze. La più rilevante attiene alla circostanza per cui mentre nel giudizio civile la ‘penale' è applicabile a tutte le tipologie di sentenze, nel giudizio amministrativo è riferibile solo alle sentenze pronunciate in sede di ottemperanza. La fissazione del quantum avviene su richiesta di parte, è fatta con un giudizio insindacabile ed è formulata secondo certi parametri . Con la menzionata novella dell'art. 614-bis c.p.c. tali parametri sono stati integrati, essendo stato previsto che “Il giudice determina l'ammontare della somma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione dovuta, del vantaggio per l'obbligato derivante dall'inadempimento, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”. Va ricordato che tanto nell'art. 614 bis c.p.c. quanto nell'art. 114, comma 4, c.p.a. la sanzione pecuniaria si aggiunge e non si sostituisce all'eventuale risarcimento del danno derivante dall'inottemperanza; è stato inoltre ritenuto che l'integrazione dell'art. 614 bis c.p.c. certamente rifluisce nell'applicazione dell'art. 114, comma 4, lett. e), individuando un altro parametro utilizzabile (Durante, 41). .
L'istituto si ispira alla disciplina francese delle astreintes, la cui finalità consiste nell'indurre il debitore inadempiente, obbligato ad un fare infungibile o a un non fare, ad adempiere attraverso uno strumento indiretto di coercizione (Daidone – Patroni Griffi, 1062 ; v. anche la ricostruzione della giurisprudenza di Binda). La giurisprudenza ha anche precisato che l' astreinte può trovare applicazione anche dopo la nomina del commissario ad acta, ma non dopo l'insediamento dello stesso (circostanza che determina un definitivo trasferimento del munus, rimanendo precluso all'amministrazione ogni margine di ulteriore intervento); la misura è comunque applicabile quando l'amministrazione si sia sostanzialmente riappropriata del potere di provvedere, anche dopo l'insediamento del commissario ad acta (Cons. St. V, n. 2547/2012). Nel caso in cui l'amministrazione abbia mostrato palesemente di volersi sottrarre all'obbligo di dare corretta e completa esecuzione del giudicato, ai sensi dell'art.114 comma 4 lett. e) all. 1, d.lgs. n. 104/2010, deve essere fissata una somma di denaro per ogni ritardo nonché per il caso di adozione di ogni singolo atto e/o comportamento ulteriormente elusivo ed ostativo alla realizzazione delle pretesa della ricorrente (T.A.R. Lazio (Latina) I, n. 1924/2010). Le astreintes non sono necessariamente alternative alla nomina di un commissario ad acta , anche se secondo Cons. St. Ad. plen., n. 7/2019 l'insediamento del commissario ad acta, integrando una ipotesi di impossibilità soggettiva sopravvenuta che rende non più funzionale e utile l'astreinte, ne impone la soppressione ex nunc . Infatti, è stato ritenuto che tale istituto è compatibile con la nomina di un commissario ad acta — (T.A.R. Campania (Napoli) VIII, n. 959/2012). In senso contrario: la nomina del commissario ad acta per il caso di persistente inerzia dell'amministrazione esclude la possibilità di condannare quest'ultima anche al pagamento della cd. astreinte di cui all'art. 114 comma 4 lett. e), giacché, in caso contrario, si farebbero ingiustamente gravare sull'amministrazione le conseguenze sanzionatorie di ulteriori ritardi imputabili non ad essa, ma all'ausiliario del giudice (T.A.R. Liguria I, n. 194/2013). Secondo una tesi deve essere esclusa la possibilità di far ricorso all' astreinte quando l'esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro. Ciò attesa l'iniquità della correlata condanna, consistente nel pagamento di una somma di denaro, laddove l'obbligo oggetto di domanda giudiziale di adempimento è esso stesso di natura pecuniaria, ed è già assistito, a termine del vigente ordinamento, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall'obbligo accessorio degli interessi legali, cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ulteriormente ad aggiungersi (T.A.R. Lazio (Roma) I, n. 10305/2011). Tuttavia, in senso difforme è intervenuta l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che ha precisato che nell'ambito del giudizio di ottemperanza la comminatoria delle penalità di mora di cui all'art. 114, comma 4, lett. e), è ammissibile per tutte le decisioni di condanna di cui al precedente art. 113, ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria (Cons. St. Ad. plen., n. 15/2014). La condanna alla astreinte è possibile solo in presenza di violazione del giudicato e non di sentenza esecutiva, potendo la condanna decorrere solo dal giorno in cui detta sentenza diventa irrevocabile e non dal passaggio in giudicato della sentenza che ha ordinato la sua esecuzione (Cons. St. IV, n. 2815/2018). La penalità di mora (c.d. astreinte), avendo natura sanzionatoria, decorre dal giorno della comunicazione in via amministrativa e/o notificazione del provvedimento contenente l'ordine di pagamento formulato dal giudice (Cons. St. IV, n. 469/2013). Con l'art. 114 il legislatore ha attribuito al giudice dell'ottemperanza uno strumento per indurre indirettamente l'amministrazione ad eseguire tempestivamente l'ordine di pagamento dallo stesso formulato: la penalità di mora, pertanto, non è utilizzabile per gli inadempimenti pregressi, i quali sono produttivi, piuttosto, di obbligazioni di natura risarcitoria (Cons. St. IV, n. 4414/2015). E' stata rimessa alla Adunanza plenaria la questione se, in sede di ricorso per chiarimenti “in ordine alle modalità di ottemperanza” di cui all'art. 112, comma 5, c.p.a., sia possibile, per il giudice, modificare la statuizione sulla penalità di mora già resa con la decisione di ottemperanza e – in caso di risposta positiva – se la modifica possa incidere retroattivamente sui crediti già maturati a titolo di penalità (Cons. St. V, ord. n. 1457/2019, in un caso in cui il ritardo nel dare esecuzione ad un giudicato e alla conseguente decisione di ottemperanza ha determinato un esponenziale e altissimo incremento delle penalità di mora, stabilite dal g.a. in misura progressivamente crescente). La Adunanza plenaria, nel confermare che la sanzione pecuniaria comunque si aggiunge e non si sostituisce, siccome pervasa da una ratio sanzionatoria e non riparatoria, all'eventuale danno cagionato dall'inosservanza del precetto giudiziale, ha stabilito che è sempre possibile in sede di c.d. “ottemperanza di chiarimenti” modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d'ottemperanza, ove siano comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino, in concreto, la manifesta iniquità in tutto o in parte della sua applicazione. Salvo il caso delle sopravvenienze, non è in via generale possibile la revisione ex tunc dei criteri di determinazione della astreinte dettati in una precedente sentenza d'ottemperanza, sì da incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata; tuttavia, ove il giudice dell'ottemperanza non abbia esplicitamente fissato, a causa dell'indeterminata progressività del criterio dettato, il tetto massimo della penalità, e la vicenda successiva alla determinazione abbia fatto emergere, a causa proprio della mancanza del tetto, la manifesta iniquità, quest'ultimo può essere individuato in sede di chiarimenti, con principale riferimento, fra i parametri indicati nell'art. 614 bis c.p.c., al danno da ritardo nell'esecuzione del giudicato (Cons. St. Ad. plen., n. 7/2019). Segue. Ottemperanza di sentenze del giudice amministrativo non passate in giudicatoVa, inoltre, segnalato che, in caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, il giudice determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano. L'ottemperanza di sentenze esecutive, ma non passate in giudicato può, infatti, comportare qualche problema legato alla necessità di non determinare, in sede di esecuzione, effetti irreversibili, che potrebbero poi essere travolti da un diverso esito del giudizio. Il giudice deve allora tenere conto «degli effetti che ne derivano», proprio per evitare effetti irreversibili o comunque regolare tale situazione. È da segnalare l'utilizzo del termine «inefficaci» per gli atti emessi in violazione o elusione della sentenza, in luogo del termine «nulli» utilizzato in relazione al giudicato; la differenza si giustifica proprio con il diverso grado di stabilità della sentenza. Il regime degli atti adottati dal commissario ad actaPer quanto nel giudizio di ottemperanza il giudice amministrativo possa provvedere direttamente e sostituirsi all'amministrazione, tale modalità di intervento viene quasi sempre perseguita attraverso la nomina di un commissario ad acta (resta fermo il principio della permanenza in capo alla P.A. del potere di provvedere anche successivamente alla scadenza del termine assegnato dal giudice e fino all'adozione degli atti da parte del commissario). Con riferimento alla natura giuridica del commissario ad acta sono state prospettate tre tesi: organo ausiliario del giudice; organo straordinario dell'amministrazione; organo misto, per alcuni aspetti ausiliario dell'amministrazione e per altri del giudice. Il Codice ha recepito la tesi prevalente del commissario quale organo ausiliario del giudice. Tale tesi ha ricevuto nel passato anche l'importante avallo di Cons. St.Ad. plen.n. 23/1978 e la scelta del Codice del processo amministrativo, quale chiaramente si desume dall'univoca formulazione dell'art. 114, comma 6, è stata quella di qualificare il commissario ad acta quale ausiliario del giudice e di ricondurre, quindi, alla giurisdizione «esecutiva» l'impugnazione dei suoi atti, senza che rilevi la distinzione fondata sulla sussistenza o meno di margini di discrezionalità lasciati dal giudicato. Questa conclusione (e il conseguente definitivo superamento della teoria mista) è ulteriormente avvalorata anche dalla modifica recata dal c.d. Primo Correttivo ( d.lgs. n. 195/2011) al comma, 6 primo periodo, dell'art. 114, la cui ratio può identificarsi nella intenzione di chiarire il superamento della teoria mista e di concentrare dinnanzi al giudice dell'ottemperanza ogni questione concernente gli atti commissariali, ancorché i vizi che vengano dedotti non si identifichino con i profili di contrasto rispetto alla pregressa statuizione giurisdizionale. Il reclamo, quindi, è l'unico mezzo processuale che l'ordinamento consente (almeno per chi è stato parte del giudizio conclusosi con il giudicato) per contestare gli atti del commissario ad acta, a prescindere dalla maggiore o minore ampiezza della discrezionalità di cui dispone nell'esecuzione del giudicato (Cons. St. VI, n. 4299/2015). È stato tuttavia fatto un distinguo: mentre con riguardo alla figura del commissario ad acta nominato in sede di giudizio di ottemperanza per l'esecuzione del giudicato, di cui agli artt. 112 ss, prevale la tesi secondo cui si tratta di un organo ausiliario del giudice, diversa è la figura di commissario ad acta nominato per porre rimedio alla persistente inerzia dell'amministrazione, ai sensi delle sopra citate disposizioni processuali, non avendosi, in tal caso, un vero e proprio giudizio di ottemperanza, tant'è che il codice del processo amministrativo non rinvia alle norme su tale tipo di giudizio, ma si limita a prevedere la nomina di un commissario ad acta (Cons. St. VI, n. 338/2016). Nel libro I, il commissario ad acta (art. 21) è stato inserito nel capo IV, relativo appunto agli ausiliari del giudice («1. Nell'ambito della propria giurisdizione, il giudice amministrativo, se deve sostituirsi all'amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta.»). Reclamo e ricorso del terzo avverso gli atti del commissario ad acta La natura del commissario ad acta quale ausiliario del giudice comporta che il controllo degli atti del commissario spetta allo stesso giudice dell'ottemperanza: «il giudice conosce di tutte le questioni relative all'esatta ottemperanza, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario». Nella bozza di correttivo, proposta dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato, il comma 6 dell'art. 114 era stato modificato con l'inserimento della precisazione che avverso gli atti del commissario ad acta è proponibile, dinanzi al giudice dell'ottemperanza, anche da parte del terzo, reclamo, che è depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di sessanta giorni. Il rimedio del reclamo al giudice dell'ottemperanza appariva corretto se riferito alle parti del giudizio conclusosi con la sentenza da eseguire, ma lasciava qualche perplessità sull'estensione al terzo, anche se la possibilità per il terzo di contestare in sede di ottemperanza gli atti del commissario ad acta è stata riconosciuta dal Consiglio di Stato proprio in applicazione delle norme del c.p.a. (Cons. St. V, n. 5391/2011, secondo cui una diversa soluzione condurrebbe all'illogica attribuzione a due giudici diversi di questioni identiche, in relazione alla circostanza che la contestazione degli atti del commissario provenga dal terzo o da un parte, con conseguente frustrazione del principio di concentrazione processuale; e, sotto altro profilo, che la soluzione qui offerta non è ostacolata dal principio del doppio grado di giudizio, posto che detto principio non ha un rilievo costituzionale ed è quindi derogabile dal legislatore ordinario). Il testo finale del correttivo ha subito un radicale cambiamento, costituito dalla limitazione della cognizione del giudice dell'ottemperanza in ordine agli atti del commissario ad acta, contestati «tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato» (lo strumento è quello del reclamo da depositare, previa notifica ai controinteressati, entro sessanta giorni). Un atto ritenuto violativo del giudicato emesso dal commissario ad acta non può quindi essere contestato nel più ampio termine di prescrizione dell'actio iudicati (art. 114, comma 1), ma va contestato con reclamo da notificare e depositare entro 60 giorni. Gli atti adottati dal commissario « ad acta « nominato per l'esecuzione di un giudicato sono impugnabili in via funzionale dinanzi al Giudice che ne ha disposto l'investitura, al quale, pertanto, va riconosciuta una specifica competenza funzionale, ed attualmente ai sensi dell'art. 114 e 117 il giudice che ha nominato il commissario «ad acta» conosce di tutte le questioni relative alla esatta adozione del provvedimento richiesto, compresi i provvedimenti adottati da detto organo nominato dal giudice (Cons. St., n. 6953/2011). Conseguenza di ciò è che gli atti emanati dal commissario ad acta, non essendo espressione di potere amministrativo, non sono annullabili dall'amministrazione in esercizio del proprio potere di autotutela; qualora l'amministrazione intenda dolersi di tali atti potrà esclusivamente rivolgersi al giudice dell'ottemperanza (Cons. St.., Ad. Plen., n. 8/2021; che ha anche precisato che qualora il commissario ad acta adotti atti dopo che l'amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, gli stessi sono da considerarsi inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell'ottemperanza; allo stesso modo deve concludersi per la speculare ipotesi di atti adottati dall'amministrazione dopo che il commissario abbia provveduto). Per i terzi è stato, invece, stabilito che le loro contestazioni non sono attratte dalla competenza del giudice dell'ottemperanza, ma vanno introdotte con il rito ordinario, in quanto essi sono estranei al giudicato e non sono soggetti al relativo vincolo; infatti, la res inter alios acta nei loro confronti neque iuvat neque nocet, sicché, per loro, la stessa sentenza non può che degradare a mero fatto giuridico: sempre rilevante, ma giammai vincolante. In materia di ottemperanza, gli atti del commissario ad acta sono impugnabili con reclamo dalle parti del giudizio, da proporre innanzi al giudice dell'ottemperanza ex art. 114, comma 6. Tale regola generale non vale però per i terzi estranei al giudizio medesimo, i quali si assumano lesi dalle determinazioni del commissario: per questi, l'attività commissariale è «res inter alios», sicché l'eventuale ricorso va proposto con il rito ordinario, ex art. 29 (Cons. St. IV, n. 52/2015). Va verificato se le ordinanze con cui il Tar giudica sui reclami avverso gli atti del commissario ad acta siano impugnabili. Secondo la giurisprudenza l'appello avverso le decisioni assunte in sede di giudizio di ottemperanza deve intendersi ammissibile con riguardo alle (sole) statuizioni che non si limitino a disporre misure attuative del giudicato, ma definiscano anche questioni di rito o di merito (cfr. ex multis Cons. St. V, n. 2178/2015; Cons. St. III, n. 5392/2016) e non è sufficiente ad escludere la valenza decisoria della pronuncia la sua forma di ordinanza, in ossequio al principio generale della prevalenza sulla sostanza sulla forma nella qualificazione dei provvedimenti giurisdizionali (cfr. ex multis Cons. St. IV, n. 4463/2014). Va aggiunto che ai sensi dell'art. 114, comma 7 il commissario ad acta può presentare una istanza di chiarimenti, che però non può essere qualificata come “azione di ottemperanza”, sicché la stessa non va notificata alle parti; l'ordinanza con la quale il giudice di primo grado offre i chiarimenti richiesti dal commissario ad acta interpreta il giudicato da eseguire e ha carattere decisorio con la conseguenza che può essere proposto l'appello, e non reclamo al medesimo giudice contro i provvedimenti del giudice dell'ottemperanza (Cons. giust. amm. Sicilia, n. 1100/2019). Ottemperanza e limiti esterni della giurisdizione amministrativa (gli atti del Csm)Il controllo della Cassazione sulle pronunce giurisdizionali del Consiglio di Stato è limitato all'accertamento dell'eventuale sconfinamento dai limiti esterni della propria giurisdizione da parte del g.a., cui non è consentito invadere arbitrariamente il campo dell'attività riservata alla P.A. attraverso l'esercizio di poteri di cognizione e di decisione non previsti dalla legge, con conseguente passaggio da una giurisdizione di legittimità a quella di merito, consentito solo in ipotesi previste dal legislatore. Il giudizio di ottemperanza integra proprio una di queste speciali ipotesi di giurisdizione estesa al merito con la conseguenza che l'ingerenza del giudice nel merito dell'agire della pubblica amministrazione è pienamente ammissibile e costituisce la risposta ad una condotta patologica della p.a. che non esegue un giudicato (Cass. S.U., n. 736/2012); in sostanza, la speciale giurisdizione di ottemperanza affidata al giudice amministrativo presenta caratteri peculiari, in virtù dei quali non è esclusa l'ingerenza del giudice nel merito dell'agire della P.A., giacché al medesimo g.a. è espressamente attribuito un potere di giurisdizione anche di merito con possibilità, non solo di «sostituirsi all'amministrazione» nominando, ove occorra, un commissario ad acta, ma anche di procedere alla «determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo» ed alla «emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione» (Cass. S.U., n. 6494/2015). Non è, pertanto, configurabile un eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, per invasione della sfera riservata al potere discrezionale della pubblica amministrazione, nel caso in cui il giudice dell'ottemperanza, rilevata la violazione o elusione del giudicato amministrativo, adotti provvedimenti in luogo dell'Amministrazione inadempiente, sostituendosi al soggetto obbligato ad adempiere, in quanto, sulla base del principio dell'effettività della tutela giuridica, il giudizio di ottemperanza, al fine di soddisfare pienamente l'interesse sostanziale del ricorrente, non può arrestarsi di fronte ad adempimenti parziali, incompleti od addirittura elusivi del contenuto della decisione (Cass. S.U., n. 25951/2020). Tali principi sono stati in parte messi in dubbio in relazione all'ottemperanza di giudicati aventi ad oggetto l'attribuzione a magistrati di incarichi giurisdizionali da parte del Csm (Cass. S.U., n. 23302/2011 che ha cassato la sentenza del Consiglio di Stato che, in sede di ottemperanza di un giudicato di annullamento, aveva ordinato al Csm di rinnovare «ora per allora» il procedimento di valutazione di magistrati concorrenti già in pensione). Sulla questione è intervenuto il legislatore che, con il d.l. n. 90/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114/2014, n. 114, ha modificato l' art.17 della legge n. 195/1958, prevedendo che «Nel caso di azione di ottemperanza, il giudice amministrativo, qualora sia accolto il ricorso, ordina l'ottemperanza ed assegna al Consiglio superiore un termine per provvedere. Non si applicano le lettere a) e c) del comma 4 dell'articolo 114 del codice del processo amministrativo». Con disposizione poi non convertita lo stesso d.l. aveva anche previsto che «Contro i provvedimenti concernenti il conferimento o la conferma degli incarichi direttivi e semi direttivi, il controllo del giudice amministrativo ha per oggetto i vizi di violazione di legge e di eccesso di potere manifesto». Tale previsione avrebbe comportato problemi di costituzionalità per la limitazione della tutela giurisdizionale e non è stata convertita in legge, mentre con la norma oggi in vigore è stata introdotta una limitazione al giudizio di ottemperanza, che non può estendersi, per l'esecuzione delle decisioni relative agli incarichi dei magistrati ordinari, alla determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo e non può considerare inefficaci i provvedimenti adottati in violazione di sentenze non passate in giudicato. Resta ferma la possibilità di nominare un commissario ad acta. Con particolare riferimento ai limiti esterni nel giudizio di ottemperanza, è stato poi precisato che è necessario stabilire se quel che viene in questione è il modo in cui il potere giurisdizionale di ottemperanza è stato esercitato dal giudice amministrativo, attenendo ciò ai limiti interni della giurisdizione (non sindacabili dalla Cassazione), oppure il fatto stesso che un tal potere a detto giudice non spettava; in particolare, quando l'ottemperanza sia stata invocata denunciando comportamenti elusivi del giudicato o manifestamente in contrasto con esso, afferiscono ai limiti interni della giurisdizione gli eventuali errori imputati al giudice amministrativo nell'individuazione degli effetti conformativi del giudicato medesimo, nella ricostruzione della successiva attività dell'amministrazione e nella valutazione di non conformità di questa agli obblighi derivanti dal giudicato; trattandosi, invece, dei limiti esterni di detta giurisdizione quando è posta in discussione la possibilità stessa, nella situazione data, di far ricorso alla giurisdizione di ottemperanza (Cass. S.U., n. 5058/2017, che ha anche scansionato le fasi logiche del giudizio di ottemperanza: a) interpretazione del giudicato al fine di individuare il comportamento doveroso per la pubblica amministrazione in sede di esecuzione; b) accertamento del comportamento in effetti tenuto dalla medesima amministrazione; c) valutazione della conformità del comportamento tenuto dall'amministrazione rispetto a quello imposto dal giudicato. In senso restrittivo della possibilità di sindacare le sentenze del g.a., rese in sede di ottemperanza, v. Cass. S.U., n. 8047/2018; Cass. S.U., n. 13699/2018; Cass. S.U., n. 16016/2018 , Cass. S.U., n. 413/2020 , che, poiché nel giudizio di ottemperanza è attribuita al giudice amministrativo una giurisdizione anche di merito, al fine di distinguere le fattispecie nelle quali il sindacato delle Sezioni Unite è consentito da quelle nelle quali è inammissibile, ritengono decisivo stabilire se oggetto del ricorso è il modo con cui il potere di ottemperanza è stato esercitato - limiti interni della giurisdizione - oppure se sia in discussione la possibilità stessa, in una determinata situazione, di fare ricorso al giudizio di ottemperanza - limiti esterni della giurisdizione; pertanto, ove le censure sollevate con ricorso per cassazione riguardino l'interpretazione del giudicato, l'accertamento del comportamento tenuto dall'Amministrazione e la valutazione di conformità di tale comportamento rispetto a quello che si sarebbe dovuto tenere, gli errori nei quali il giudice amministrativo può eventualmente incorrere, essendo inerenti al giudizio di ottemperanza, restano interni alla giurisdizione stessa e non sono sindacabili dalla Corte di cassazione. V. anche il commento agli artt. 110 e 112. Le impugnazioni delle sentenze di ottemperanzaIn passato era stata riconosciuta una limitata appellabilità delle sentenze rese in sede di ottemperanza, con l'esclusione delle sole sentenze che contengono misure di mera attuazione del giudicato (Cons. St. VI, n. 5353/2004). Il Codice si limita a fare un rinvio ai termini delle impugnazioni previsti dal Libro III e ciò comporta che il principio è quella della impugnabilità delle decisioni. Quanto al rito da seguire in appello, è preferibile optare per il procedimento in camera di consiglio (è, infatti, previsto che «Le disposizioni di cui al presente Titolo si applicano anche alle impugnazioni avverso i provvedimenti giurisdizionali adottati dal giudice dell'ottemperanza»); tale soluzione era dubbia a normativa vigente e il Consiglio di Stato aveva finora oscillato nel trattare in camera di consiglio o in udienza pubblica gli appelli avverso le sentenze che pronunciano su un ricorso in ottemperanza. Ora il Codice è più chiaro nell'indicare il rito camerale. Soluzione confermata da Cons. St. V, n. 5440/2014. Quanto ai termini per la proposizione delle impugnazioni, la giurisprudenza ha riconosciuto l'applicazione dei termini dimezzati previsti dall'art. 87 per i procedimenti in camera di consiglio. La notifica e il deposito dell'appellodi una sentenza resa su un giudizio diottemperanza, in quanto procedimento che segue il rito della Camera di consiglio, è assoggettata aiterminiordinari dimezzati, la cui inosservanza comporta la sua irricevibilità (Cons. St. V, n. 4631/2016; Cons. St. V, n. 5246/2013). Altra questione è la possibilità di proporre ricorso in Cassazione avverso sentenze di ottemperanza per questioni di giurisdizione. Le decisioni del Consiglio di Stato in sede di giudizio di ottemperanza sono soggette al sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sul rispetto dei limiti esterni della propria potestà giurisdizionale, tenendo presente che in tal caso è attribuita al giudice amministrativo una giurisdizione anche di merito. Al fine di distinguere le fattispecie nelle quali il sindacato è consentito da quelle nelle quali è inammissibile, è decisivo stabilire se oggetto del ricorso è il modo con cui il potere di ottemperanza è stato esercitato (limiti interni della giurisdizione) oppure se sia in discussione la possibilità stessa, in una determinata situazione, di fare ricorso al giudizio di ottemperanza (limiti esterni della giurisdizione); ne consegue che, ove le censure mosse alla decisione del Consiglio di Stato riguardino l'interpretazione del giudicato, l'accertamento del comportamento tenuto dall'Amministrazione e la valutazione di conformità di tale comportamento rispetto a quello che si sarebbe dovuto tenere, gli errori nei quali il giudice amministrativo può eventualmente incorrere, essendo inerenti al giudizio di ottemperanza, restano interni alla giurisdizione stessa e non sono sindacabili dalla Corte di cassazione (fattispecie in tema di giudizio di ottemperanza conseguente ad annullamento di una delibera del Consiglio superiore della magistratura di conferimento di incarico direttivo di un ufficio giudiziario) — Cass.S.U., n. 736/2012. Si veda il commento all'art. 110. BibliografiaDaidone – Patroni Griffi, Il giudizio di ottemperanza, in Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, 1019; Binda, Le astreintes nel giudizio amministrativo, in sito giustizia amministrativa - dottrina, 4 luglio 2019. |