Caso Contrada: un esito che non convince

Sergio Beltrani
13 Novembre 2017

La Corte Edu, Sez. IV, con sentenza del 14 aprile 2015, divenuta definitiva, caso Contrada c. Italia, premesso che «integra la violazione dell'art. 7 Conv. Edu la condanna inflitta per un reato che, all'epoca in cui sono stati commessi i fatti per i quali si procede, non era sufficientemente chiaro e prevedibile», ha ritenuto che «il concorso esterno in associazione mafiosa, frutto dell'evoluzione giurisprudenziale ..
Massima

La sentenza di condanna irrevocabile emessa, secondo una decisione definitiva della Corte Edu, in violazione dell'art. 7 Conv. Edu, non è suscettibile di esecuzione e non è produttiva di effetti penali (Fattispecie nella quale si è ritenuto che le relative declaratorie competessero al giudice dell'esecuzione, nell'impossibilità di attivare il procedimento di revisione ex art. 630 c.p.p., come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza 113 del 2011, poiché, a seguito del provvedimento di rigetto della Corte di appello competente, detto procedimento si era concluso con declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, per rinuncia dell'interessato).

Il caso

La Corte Edu, Sez. IV, con sentenza del 14 aprile 2015, divenuta definitiva, caso Contrada c. Italia, premesso che «integra la violazione dell'art. 7 Conv. Edu la condanna inflitta per un reato che, all'epoca in cui sono stati commessi i fatti per i quali si procede, non era sufficientemente chiaro e prevedibile», ha ritenuto che «il concorso esterno in associazione mafiosa, frutto dell'evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni 1980 e consolidatasi solo nel 1994, non poteva essere sufficientemente conosciuto da parte del ricorrente al momento dei fatti a lui ascritti» ed ha, pertanto, stabilito che la condanna dell'interessato era stata pronunciata in violazione del citato art. 7.

A seguito di detta pronuncia, l'interessato aveva proposto incidente di esecuzione chiedendo la revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 673 c.p.p. ma la Corte di appello aveva dichiarato l'incidente di esecuzione inammissibile.

L'interessato aveva quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando che il provvedimento impugnato aveva eluso la decisione della Corte Edu, poiché asseritamente «il giudicato europeo formatosi sulla decisione intervenuta nel caso Contrada contro Italia […] poneva il Giudice dell'esecuzione davanti all'obbligo, previsto dall'art. 46 Conv. Edu, di conformarsi alle sentenze definitive della Corte Edu, rimuovendo tutte le conseguenze pregiudizievoli per la parte vittoriosa»; in via subordinata, aveva chiesto «la rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell'art. 673 c.p.p., in riferimento agli artt. 25 e 117 Cost., nella parte in cui tale disposizione non prevede espressamente l'ipotesi della revoca della sentenza di condanna per le ipotesi assimilabili a quella in esame».

Il P.G. presso la Cassazione aveva concluso per il rigetto del ricorso.

La questione

Non era quella la sede per valutare la correttezza o meno della decisione della Corte Edu (sia consentito in proposito rinviare a quanto abbiamo sul punto osservato in S. BELTRANI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè 2017, p. 533 ss.), della quale si poteva unicamente prendere atto, traendone le eventuali conseguenze.

Occorreva, piuttosto, stabilire se sussistesse, nell'ordinamento interno, un concreto obbligo di conformarsi alle decisioni definitive della Corte Edu, riaprendo il procedimento penale de quo, ed in caso affermativo, quale fosse il rimedio processuale all'uopo esperibile.

Le soluzioni giuridiche

La I Sezione della Corte di cassazione ha annullato senza rinvio l'ordinanza impugnata, dichiarando ineseguibile ed improduttiva di effetti penali la sentenza irrevocabile di condanna emessa nei confronti dell'interessato.

Dopo avere riepilogato le plurime fasi del procedimento svoltosi, in Italia e a Strasburgo, nei confronti dell'interessato, la Cassazione, premesso che, parallelamente all'istanza di revisione presentata alla Corte di appello competente, l'interessato aveva attivato il presente incidente di esecuzione dinanzi alla (diversa) Corte di appello competente, conclusosi con l'ordinanza di inammissibilità impugnata, e rilevato che «L'attuale giudizio costituisce, dunque, l'ultima sede nella quale è possibile affrontare la questione dell'obbligo di conformazione dell'ordinamento interno alla decisione emessa il 14/04/2015 dalla Corte Edu nel caso Contrada contro Italia, ai sensi dell'art. 46 Cedu», ha ritenuto:

  • che sussiste, ai sensi dell'art. 46 Conv. Edu, l'obbligo dei giudici italiani di conformarsi, per il caso Contrada, alla decisione della Corte Edu che lo riguarda: il contrario assunto che aveva indotto la Corte di appello alla declaratoria di inammissibilità dell'incidente di esecuzione presupporrebbe, infatti, «un margine di discrezionalità nell'esecuzione delle decisioni della Corte Edu – che limitatamente allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia in esame e a differenza dei casi analoghi – non può essere riconosciuto al giudice nazionale […]. Occorre, pertanto, ribadire conclusivamente che la previsione dell'art. 46 Cedu, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice nazionale, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze definitive della Corte Edu, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato»;
  • che lo strumento processuale in concreto attivabile per rimuovere le conseguenze della sentenza irrevocabile di condanna emessa dalla Corte di appello di Palermo nei confronti dell'interessato, «deve essere individuato, analogamente a quanto già affermato nella sentenza Dorigo [Sez. I, n. 2800 dell'01/02/2006, dep. 2007, Dorigo, Rv, 235447], nell'incidente di esecuzione»;
  • che non osta «alla praticabilità di tale soluzione la circostanza che la predetta decisione riguardava una violazione di natura processuale; mentre, nell'ipotesi in esame, la violazione ravvisata dalla Corte Edu è di natura sostanziale. Quello che rileva. Infatti, è che nel caso di violazioni delle norme convenzionali afferenti al diritto penale sostanziale, specificamente riconducibili all'art. 7, viene censurata la piattaforma legale sulla base della quale interviene una sentenza di condanna, ritenuta generica, imprecisa ovvero indeterminata nelle sue connotazioni di conoscibilità e prevedibilità».

La Cassazione ha escluso la possibilità di attivare il procedimento di revisione previsto dall'art. 630 c.p.p. come vigente all'esito della sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011 (che ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale «nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, § 1, della Convenzione Edu, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo»), osservando che «tale percorso giurisdizionale, originariamente attivato [dall'interessato] davanti alla Corte di appello […], non è più concretamente esperibile, in conseguenza della sentenza emessa il 20/01/2017 dalla Sezione quinta penale di questa Corte, che concludeva il procedimento di revisione in questione con la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione proposta, per effetto della rinuncia al ricorso, depositata il 28/12/2016».

Ha, peraltro, evidenziato che la stessa Corte costituzionale, nella citata decisione, aveva «rimarcato come la necessità della riapertura vada apprezzata sia in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata sia tenendo conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta, oltre che nella sentenza ‘interpretativa' eventualmente richiesta alla Corte di Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 3, della Conv. Edu», laddove nel caso in esame:

  • «non si verte in alcuna ipotesi di violazione delle regole del giusto processo»;
  • «la decisione della Corte di Strasburgo, per la sua natura e per le ragioni su cui si fonda, non implica né appare superabile da alcuna rinnovazione di attività processuale o probatoria»;
  • «il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici»;
  • «il principio di irretroattività delle norme penali è principio fondante del nostro sistema penale, assistito da garanzia costituzionale»;
  • «secondo la giurisprudenza interna, le sentenze di merito e quelle di legittimità che hanno portato alla condanna di Contrada, la questione di diritto diversamente intesa dalla Corte Edu atteneva, invece, alla configurabilità dell'ipotesi del concorso di persone (art. 110 c.p.) in relazione alla fattispecie di cui all'art. 416-bisc.p., anziché di mero favoreggiamento (principio di diritto affermato nella sentenza di annullamento con rinvio, Sez. 2, n. 15756 del 12/12/2002, dep. 2003, Contrada, Rv. 225566, e ribadito nella seconda sentenza di legittimità, Sez. 6, n. 542 del 10/05/2006, dep. 2007, Contrada, Rv. 238242); che, per conseguenza, nessuna ‘rinnovazione' di attività processuale, probatoria o del giudizio potrebbe o avrebbe potuto condurre al superamento di quello che, stando alla Corte Edu, sarebbe un mero errore di diritto».

Dopo avere chiarito che non risultava esperibile il rimedio previsto dall'art. 673 c.p.p., «finalizzato all'eliminazione, mediante revoca, della sentenza di condanna nei casi in cui è venuto meno l'illecito penale per l'intervento del legislatore o della Corte costituzionale; condizioni, queste, pacificamente insussistenti nel caso in esame», e avere conseguentemente dichiarato quantomeno irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell'art. 673 c.p.p., in riferimento agli artt. 25 e 117 della Costituzione, sollevata del ricorrente in via subordinata, la Cassazione ha, infine, affermato che «Nel caso di specie, non vi è in effetti alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto, la cui eliminazione non è richiesta, né direttamente né indirettamente, dalla Corte Edu, com'è desumibile – oltre che dall'assenza di riferimenti testuali a una tale possibilità – dalle statuizioni relative al rigetto della domanda di equa soddisfazione, rilevante ai sensi dell'art. 41 Cedu, contenute nel punto 4 del dispositivo della decisione in esame. La decisione della Corte Edu non richiede né lascia spazio per interventi residui del giudice italiano, differenti da quelli adottabili in questa sede ai sensi degli artt. 666 e 670 c.p.p., occupandosi esaustivamente di tutti i profili censori sollevati da Contrada nel giudizio svoltosi in sede sovrannazionale, riguardanti, oltre alla violazione dell'art. 7 Conv. Edu, la domanda di equa soddisfazione – di cui si è detto – e i danni patiti per effetto del processo conclusosi con la sentenza irrevocabile presupposta», ribadendo che «la sentenza pronunziata dalla Corte Edu nel caso Contrada contro Italia non impone interventi in executivis differenti da quelli legittimati dalle disposizioni degli artt. 666 e 670 c.p.p. Non sussistendo, del resto, alcun limite letterale o sistematico all'applicazione al caso in esame di detti poteri, gli artt. 666 e 670 c.p.p. non possono che essere interpretati nel senso di consentire l'eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna emessa dal giudice italiano in violazione di una norma della Convenzione Edu, dovendosi ribadire che garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell'esecuzione, cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni della legittimità (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, cit.)».

Per tali ragioni, la Cassazione, da un lato, ha espressamente dichiarato che non andava revocato il giudicato interno di condanna («la cui eliminazione non è richiesta, né direttamente né indirettamente, dalla Corte Edu»), dall'altro, in applicazione dell'art. 670 c.p.p., ha riconosciuto (d'ufficio, in difetto di una richiesta ad hoc del ricorrente) che, «a seguito della decisione emessa dalla Corte Edu il 14/04/2015, che ha dichiarato che la sentenza di condanna emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, divenuta irrevocabile il 10/05/2007, violerebbe l'art. 7 Cedu, tale pronuncia non è suscettibile di ulteriore esecuzione e non è produttiva di ulteriori effetti penali»; e la ha, conclusivamente, dichiarata «ineseguibile e improduttiva di effetti penali».

Osservazioni

L'interessato aveva, a conclusione di una vicenda processuale particolarmente complessa, riportato condannain ordine al reato di concorso (esterno) in associazione per delinquere e poi, dal 29 settembre 1982, in associazione di tipo mafioso, per avere, tra il 1979 e il 1988, in qualità di funzionario di polizia, di Capo di gabinetto dell'Alto Commissario per la lotta alla mafia e di Vicedirettore del Sisde, fornito un contributo sistematico alle attività ed al perseguimento degli scopi illeciti del sodalizio denominato Cosa Nostra e, in particolare, «fornendo ad esponenti della commissione provinciale di Palermo di Cosa Nostra notizie riservate, riguardanti indagini ed operazioni di polizia da svolgere nei confronti dei medesimi e di altri appartenenti all'associazione» (così Cass. pen., Sez. VI, n. 542/1998, f. 2); in relazione a tali imputazioni, la stessa difesa dell'interessato, dopo aver sostenuto in via principale la non configurabilità del concorso esterno, aveva, sia pure in via gradata, ed invano, sostenuto «l'eventuale alternativa riconducibilità dei contegni dell'imputato nell'area del favoreggiamento personale» (così Cass. pen., Sez. VI, n. 542/1998, f. 23).

La Corte Edu, nella citata decisione, premesso (§ 66) che «non è oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale», e senza considerare:

  • che la creazione giurisprudenziale di norme penali incriminatrici troverebbe in Italia insormontabile ostacolo nell'art. 25, comma, 2 della Costituzione (che afferma il principio di legalità/riserva di legge e non consente, quindi, la creazione giurisprudenziale di norme penali incriminatrici);
  • che la qualifica professionale del ricorrente (funzionario di vertice della questura di Palermo, con pluriennale esperienza di indagini di mafia, anche riguardanti il c.d. maxiprocesso, nell'ambito del quale l'ufficio istruzione del tribunale di Palermo aveva fatto massiccio ricorso all'istituto del concorso esterno), gli avrebbe senz'altro consentito di prevedere la conclusiva qualificazione giuridica dei fatti che gli erano contestati (cfr., in argomento, Corte Edu, Sez. V, 6 ottobre 2011, caso SOROS c. Francia, che la sentenza emessa dalla stessa Corte Edu nel caso Contrada non considera),

ha stabilito che «il concorso esterno in associazione mafiosa, frutto dell'evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni 1980 e consolidatasi solo nel 1994, non poteva essere sufficientemente conosciuto da parte del ricorrente al momento dei fatti a lui ascritti».

Appare allo stato certamente dominantel'opinione di quanti ritengono che sussiste l'obbligo convenzionale di riapertura del processo penale, allorquando ciò sia necessario per conformarsi ad una sentenza della Corte Edu, adita dall'imputato condannato: non a caso, la Corte costituzionale ha, proprio a tal fine, introdotto, nell'art. 630 c.p.p., una specifica ipotesi di revisione della sentenza passata in giudicato (Corte cost., n. 113 del 2011; nei medesimi termini, successivamente, Corte cost., n. 123 del 2017).

È, peraltro, di poco successiva alla sentenza in commento (deliberata in camera di consiglio il 6 luglio 2017) la decisione della Corte Edu, Grande Chambre, dell'11 luglio 2017, caso Moreira Ferreira c. Portogallo (in questo sito, con commento di PERNA, All'accertata violazione della Convenzione Edu non consegue il diritto alla revisione della sentenza irrevocabile), secondo la quale non viola l'art. 6, § 1, della Convenzione Edu il rigetto della richiesta di revisione di una condanna penale emessa all'esito di procedimento che la Corte Edu abbia ritenuto viziato da una violazione dell'art. 6, § 1, della Convenzione (ma il discorso può ben valere anche per le violazioni dell'art. 7 della Convenzione), poiché la predetta Convenzione non garantisce il diritto alla riapertura del procedimento; si è precisato che, in tali casi, la riapertura del procedimento costituisce un modo appropriato, ma non necessario od esclusivo, per porre rimedio alla constatata violazione: «la riapertura del processo non è un diritto, e la relativa istanza deve essere anzitutto ricevibile, condizione il cui controllo è assicurato dalle giurisdizioni nazionali, che in questo campo godono di un ampio margine di apprezzamento» (D. PERNA, op. cit.).

A prescindere dalla considerazione che precede (che potrà costituire oggetto di future riflessioni ma non poteva assumere rilievo nel caso di specie), la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2011 (riguardante le violazioni dell'art. 6 Conv. Edu – destinate ad assumere rilievo ai fini de quibus soltanto quando ne derivino illegittimità strutturali della normativa interna, tali da rendere iniquo il celebrato processo, sfociato nella sentenza irrevocabile di condanna – ma la cui ratio ben può essere estesa ai casi nei quali siano state definitivamente dichiarate violazioni dell'art. 7 della stessa Convenzione), premesso che, «al fine di assicurare la restitutio in integrum della vittima della violazione, nei sensi indicati dalla Corte europea, occorre poter rimettere in discussione il giudicato già formatosi sulla vicenda giudiziaria sanzionata», e rilevato che:

  • le soluzioni ermeneutiche sperimentate dalla giurisprudenza di legittimità erano «parziali e inidonee alla piena realizzazione dell'obiettivo»;
  • la revisione, «comportando, quale mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di cognizione, estesa anche all'assunzione delle prove costituisce l'istituto, fra quelli attualmente esistenti nel sistema processuale penale, che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformità dell'ordinamento nazionale al parametro evocato»;

- «posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali - la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma (o, meglio, la norma maggiormente pertinente alla fattispecie in discussione) omette di prevedere»,

ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non contempla un diverso caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, «volto specificamente a consentire (per il processo definito con una delle pronunce indicate nell'art. 629 c.p.p.) la riapertura del processo - intesa, quest'ultima, come concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di attività già espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio - quando la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell'art. 46, § 1, della Conv. Edu, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte Edu».

Appare di per sé evidente che l'anzidetta declaratoria d'illegittimità costituzionale costituisce extrema ratio e postula, in generale, l'impossibilità di rinvenire nell'ordinamento altro rimedio processuale utile ai fini de quibus.

Ma, anche a prescindere da tale pur inoppugnabile considerazione di carattere generale, è stata la stessa Corte costituzionale a respingere, espressamente ed inequivocabilmente, la possibilità di far ricorso allo strumento fornito dall'incidente di esecuzione regolato dall'art. 670 c.p.p.: «si tratta, in specie, della tesi secondo la quale, quando la Corte europea abbia accertato che la condanna è stata pronunciata in violazione delle regole sull'equo processo, riconoscendo il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, il giudice dell'esecuzione sarebbe tenuto a dichiarare l'ineseguibilità del giudicato, ancorché il legislatore abbia omesso di introdurre ‘un mezzo idoneo a instaurare il nuovo processo' (Cass., 1° dicembre 2006-25 gennaio 2007, n. 2800). Al di là di ogni altra possibile considerazione, il rimedio si rivela, infatti, inadeguato: esso "congela" il giudicato, impedendone l'esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di "limbo processuale". Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilità non dà risposta all'esigenza primaria: quella, cioè, della riapertura del processo, in condizioni che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione».

Alla luce di quanto fin qui premesso, si impongono alcune considerazioni.

L'unico strumento a disposizione dell'interessato per far valere le proprie eventuali ragioni era la richiesta di revisione, proponibile ex art. 630 c.p.p. a seguito della citata sentenza “additiva” della Corte costituzionale.

Per nulla attinente alla questione è la ripetuta citazione della sentenza DORIGO (secondo la quale, nei casi in cui la Corte Edu abbia accertato che la condanna sia stata pronunciata in violazione delle regole sul processo equo sancite dall'art. 6 Conv. Edu ed abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, in difetto, nell'ordinamento, di un mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo, spetta al giudice dell'esecuzione il compito di dichiarare, a norma dell'art. 670 c.p.p., l'ineseguibilità del giudicato), emessa, come la stessa sentenza DORIGO precisa, in un momento nel quale «il legislatore aveva omesso di introdurre nell'ordinamento il mezzo idoneo a instaurare il nuovo processo», ovvero prima di Corte cost. n. 113 del 2011 ma superata dalla predetta sentenza della Corte costituzionale, che aveva inoltre espressamente evidenziato l'improponibilità del ricorso al rimedio di cui all'art. 670 c.p.p., con affermazione di principio della quale la sentenza della I sezione (che pure in più punti cita Corte cost. n. 113 del 2011) non ha tenuto conto.

Il rilievo che precede appare assorbente.

Merita, comunque, di essere evidenziato che appare quantomeno opinabile l'attivazione d'ufficio dello strumento di cui all'art. 670 c.p.p. (non evocato dal ricorrente).

La dottrina (cfr. E. CAMPOLI, Commento all'art. 670 c.p.p., in Codice di procedura penale diretto da S. BELTRANI, II ed., Giuffrè 2017, p. 2316) osserva che «con la disciplina dettata nell'art. 670 vengono individuate le modalità a mezzo delle quali il giudice dell'esecuzione accerta – ove investito da una richiesta delle parti interessate – l'esistenza del titolo esecutivo e la sua efficacia»; si è anche osservato (A. CASELLI LAPESCHI, Commento all'art. 670 c.p.p., in Commentario breve al c.p.p., diretto da G. CONSO e V. GREVI, Padova 2005, p. 2293) che «l'art. 670 co. 1° demanda al giudice dell'esecuzione […] la funzione di controllare l'esistenza e la validità del titolo esecutivo. Detto controllo non avviene ex officio, richiedendosi in ogni caso che il giudice in executivis sia investito di una questione sul titolo esecutivo stesso per effetto di una richiesta di parte, anche se poi, in quanto investitone, può e deve effettuare il controllo indipendentemente dalla specifica questione sottoposta alla sua cognizione».

La giurisprudenza (Cass. pen., Sez. I, n. 39321/2017) ha, dal canto suo, ritenuto che l'incidente di esecuzione non è un mezzo di impugnazione, cosicché non può trovare applicazione il principio di conservazione di cui all'art. 568, comma 5, c.p.p., che si riferisce unicamente alle impugnazioni (in applicazione del principio, è stato dichiarato inammissibile il ricorso avverso l'ordinanza del giudice dell'esecuzione che aveva respinto l'istanza di riqualificazione dell'incidente di esecuzione, proposto ai sensi dell'art. 670 c.p.p., alla stregua del rimedio di cui all'art. 625-ter c.p.p.).

Nel caso di specie, il ricorrente non aveva posto questioni inerenti alla esistenza del titolo esecutivo (che, in quanto tali, avrebbero legittimato, pur in difetto di un espresso riferimento alla specifica questione de qua, la pronuncia d'ufficio ex art. 670 c.p.p.), ma si era limitato a chiedere la – ontologicamente diversa – revoca della sentenza di condanna per abolizione del reato ex art. 673 c.p.p.

Andava, comunque, valutata l'opportunità di qualificare come favoreggiamento personale (lo aveva chiesto la stessa difesa dell'imputato, sia pure in via gradata, nell'ambito del processo di cognizione) i fatti (sul cui accertamento la Corte di Strasburgo nulla ha detto, perché nulla poteva dire) che secondo la stessa Corte Edu (pure se a torto ma ciò non poteva più rilevare) non potevano integrare gli estremi del ritenuto concorso esterno: anche in relazione a tale necessità, la sede più opportuna per le doverose valutazioni che si imponevano sarebbe stata il subprocedimento di revisione, non certo l'incidente di esecuzione.

Assolutamente irrilevante è, infine, la ragione (trovarsi l'interessato nell'impossibilità di avere soddisfazione della propria pretesa proponendo una richiesta di revisione, per essere stato dichiarato inammissibile il ricorso dallo stesso proposto contro il provvedimento della Corte di appello che detta richiesta non aveva accolto) che dichiaratamente ha indotto la I Sezione a superare il chiaro dictum della Corte costituzionale ed a rispolverare un rimedio (quello previsto dall'art. 670 c.p.p.) ormai da tempo ritenuto inutilizzabile ai fini de quibus. A prescindere dal fatto che, in astratto, la declaratoria d'inammissibilità (quale che ne fosse la causa) sarebbe stata comunque incensurabile in sede di incidente di esecuzione, postulando di necessità il già intervenuto esercizio dell'unica opzione processuale a disposizione dell'interessato a seguito del dictum della Corte di Strasburgo, e il conclusivo mancato accoglimento della pretesa in tal modo azionata, nel caso di specie doveva imporsi il rilievo che la predetta declaratoria d'inammissibilità conseguiva alla rinunzia dell'interessato al ricorso contro il provvedimento con il quale la Corte di appello competente aveva motivatamente rigettato la richiesta di revisione: l'eventuale vuoto di tutela che poteva in ipotesi derivarne sarebbe stato quindi imputabile (non ad un deficit ordinamentale, bensì) ad una precisa scelta processuale dell'interessato, il quale, conseguentemente, in considerazione del mancato diligente esaurimento delle vie di ricorso interne, non avrebbe potuto formulare doglianze ulteriori neanche dinanzi alla Corte di Strasburgo.

Per tutte queste ragioni, la sentenza in commento non può essere condivisa.

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