Comparsa di costituzione e risposta in giudizio di risarcimento del danno patrimoniale con eccezione di non cumulabilitàInquadramentoCon la comparsa di costituzione in giudizio di risarcimento del danno il danneggiante eccepisce la non cumulabilità tra interessi e rivalutazione monetaria, invocando il principio dell'ingiustificata locupletazione in favore del danneggiato ed evidenziando l'assenza di prova del “maggior danno” in relazione alla natura del credito azionato. FormulaGIUDICE DI PACE DI ..../TRIBUNALE DI .... R.G. ....GIUDICE ....UDIENZA DEL .... COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA [1] PER Assicurazioni ...., C.F. [2] /P.I. ...., in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede legale in ...., via ...., rappresentata e difesa, giusta procura speciale per Notar ...., rep. .... del ...., e per mandato in calce (oppure, a margine) del presente atto, dall'Avv. ...., C.F. ...., presso il cui studio elettivamente domicilia in .... Si dichiara di volere ricevere tutte le comunicazioni relative al presente procedimento al fax ........, ovvero all'indirizzo PEC ...., [3] -convenuto- CONTRO il Sig. ...., nato a ...., il ...., C.F. ...., residente in ...., via ...., rappresentato e difeso dall'Avv. .... -attore- NONCHÉ il Sig. ...., nato a ...., il ...., C.F. ...., residente in ...., via .... -convenuto- FATTO — Con atto di citazione notificato il .... e depositato il ...., il Sig. .... conveniva dinanzi a questo Giudice di Pace/Tribunale di .... l'Assicurazione ...., ai sensi dell' art. 149 del Codice della Strada ed il Sig. ...., nella qualità di responsabile civile, per sentirli condannare, in via solidale, al risarcimento dei danni subiti a seguito del sinistro stradale verificatosi in data ........, ore .... circa, in ...., via .... . In punto di fatto/in premessa, specificava che: a) il sinistro si sarebbe verificato a causa della condotta illecita e colposa del Sig. ...., il quale lo aveva investito, malgrado stesse attraversando la strada con la sua bicicletta sulle apposite strisce, in tal modo provocandogli le seguenti lesioni fisiche ....; b) con racc. a/r del ...., l'Assicurazioni .... invitava l'attore a svolgere le visite mediche, le quali venivano regolarmente espletate in data ....; c) tuttavia la convenuta compagnia non procedeva a formulare alcuna offerta transattiva; — per tali ragioni, chiedeva la condanna delle convenute, in solido, al pagamento della somma di Euro ...., oltre interessi e rivalutazione, a titolo di risarcimento del danno biologico, come da consulenza medico-legale che allegava. Con il presente atto si costituisce l'Assicurazione ...., in persona del legale rappresentante pro tempore, il quale chiede rigettarsi la domanda, in quanto inammissibile, improponibile ed improcedibile, nonché infondata in fatto e diritto per le seguenti ragioni in DIRITTO Nel merito, si eccepisce la infondatezza della domanda. A tal proposito, giova rilevare che l'azione proposta dal danneggiato comporta l'onere in capo al medesimo di fornire la prova del comportamento imprudente dell'autore dell'illecito, del nesso di causalità tra la condotta e l'evento, nonché del danno subito. Per tale ragione, nessuna delle richieste risarcitorie formulate dall'attore può essere ritenuta meritevole di accoglimento in questa sede, sia per quel che concerne l'an della pretesa che per il quantum debeatur. 1.1 Nella denegata ipotesi di positivo accertamento di responsabilità in capo alla convenuta, si fa rilevare che parte avversa ha quantificato il danno biologico sulla scorta delle tabelle predisposte dal Tribunale di ...., le quali nella relativa determinazione tengono conto automaticamente anche della rivalutazione monetaria. Per tale ragione la richiesta relativa agli interessi ed alla rivalutazione monetaria della somma domandata a titolo di risarcimento del danno biologico così come quantificata da parte avversa non può trovare accoglimento in questa sede, poiché ciò determinerebbe illegittime duplicazioni di voci di danno, che comporterebbero un ristoro in capo all'attore ben maggiore rispetto a quanto effettivamente spettante. 1.2 Inoltre, si fa rilevare che la richiesta dell'attore ha ad oggetto una specifica somma di denaro, così come determinata da apposita consulenza medica di parte. Tale quantificazione comporta inevitabilmente il riconoscimento dei soli interessi alla luce dell'applicazione del principio nominalistico; viceversa non può essere accolta l'ulteriore e diversa domanda relativa al “maggior danno”, che allo stato non risulta in alcun modo provata. In tali ipotesi infatti grava sul creditore il relativo onere probatorio, che chiaramente non può ritenersi soddisfatto sulla scorta della mera e generica allegazione di “maggior danno”. CONCLUSIONI Alla luce di tutto quanto testè evidenziato, voglia l'Ill.mo Giudice di Pace/Tribunale adito, respinta ogni contraria domanda, eccezione e deduzione: — In via preliminare, dichiarare l'improcedibilità, inammissibilità ed improponibilità della domanda, oltre che la relativa nullità per assoluta genericità; — Dichiararsi il difetto di legittimazione attiva dell'attore; — Nel merito, rigettare la domanda, in quanto destituita di fondamento in fatto e diritto, nonché non provata; Con vittoria di spese ed onorari ed attribuzione in favore del procuratore antistatario. IN VIA ISTRUTTORIA Si chiede altresì di essere ammessi alla prova contraria sulle circostanze di fatto ex adverso articolate con gli stessi testi indicati da controparte e con i seguenti propri testi: 1) Sig. ...., residente in ....; 2) Sig. ...., residente in .... In via gradata, si impugna e contesta la CT di parte depositata. Inoltre, si chiede la nomina di CTU per accertare le patologie riportate dall'attore, il nesso causale e per la relativa quantificazione. Si allegano i documenti 1), 2), 3), 4) e 5) indicati nella narrativa del presente atto, riservandosi di produrne altri con le memorie di cui all' art. 183, comma 6, c.p.c., la concessione dei cui termini sin da ora viene richiesta. Luogo e data .... Firma Avv. .... PROCURA [1] In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il C.F., oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio ( art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., dalla l. n. 111/2011). [2]L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall' art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv. con modif. dalla l. n. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall' art. 4, comma 8, d.l. n. 193/2009 conv. con modif. dalla l. n. 24/2010. A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3 bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall' art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv., con modif., dalla l. n. 114/2014. [3] L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall' art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3 bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall' art. 45-bis d.l. n. 90/2014, conv. con modif., dalla l. n. 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà». CommentoFondamento e nozioni Gli interessi corrispettivi, espressione del principio di naturale fecondità del denaro, svolgono una funzione remuneratoria e costituiscono il corrispettivo dovuto dal debitore per il vantaggio che questi trae dalla disponibilità di una somma di denaro spettante al creditore. Gli interessi moratori, invece, assolvono ad una funzione risarcitoria, poiché presuppongono lo stato di mora del debitore e costituiscono una liquidazione forfettaria minima del danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie. Il principale tratto distintivo fra interessi corrispettivi e moratori risiede, dunque, nella circostanza che, mentre per i primi si prescinde sia dalla colpa del debitore nel ritardo nel pagamento, che dalla sua costituzione in mora, colpa e mora debendi sono entrambe necessarie per la decorrenza degli interessi moratori, stante la precipua funzione risarcitoria ( art. 1224 c.c.). Peraltro, l'atto formale di costituzione in mora del debitore che sia in ritardo non sarà necessario nelle ipotesi di mora ex re previste dall' art. 1219 c.c., producendosi gli interessi in via automatica (cfr. ad es., il d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 concernente i ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali). In dottrina e giurisprudenza, si è soliti individuare una terza categoria di interessi, quella degli interessi compensativi, dovuti nei contratti di scambio ed aventi lo scopo di ristabilire l'equilibrio economico tra i contraenti: essi mirano, cioè, a compensare il creditore del mancato godimento dei frutti della cosa, da lui consegnata all'altra parte prima di ricevere in cambio la controprestazione (v. tra le molte Cass. I, n. 13275/2000). Questa tipologia di interessi condivide, dunque, il fondamento degli interessi corrispettivi, assolvendo entrambi ad una funzione remunerativa; tuttavia, quelli compensativi sono caratterizzati dall'essere dovuti per crediti non ancora esigibili. Si discute, poi, se l' art. 1499 c.c. rappresenti una norma eccezionale o, invece, suscettibile di applicazione analogica. Cumulo interessi moratori e rivalutazione monetaria: in genere La norma dell' art. 1224, comma 1, c.c. contiene una presunzione iuris tantum circa il quantum del danno patito, suscettibile di essere vinta dal creditore pecuniario attraverso la prova del maggior danno: il successivo comma 2 dell' art. 1224 c.c., infatti, attribuisce al creditore che dimostri di aver subito un danno maggiore, il diritto ad ottenere l'ulteriore risarcimento. Premesso che il “maggior danno” di cui all' art. 1224, comma 2, c.c. consiste, il più delle volte, nel deprezzamento che il denaro subisce nel lasso di tempo intercorrente fra la mora ed il pagamento tardivo, ci si è chiesti se interessi moratori e rivalutazione monetaria costituiscano distinte voci del danno da ritardo fra loro cumulabili. In senso favorevole, alcune pronunce hanno ritenuto che interessi e rivalutazione fossero da riferire, rispettivamente, al lucro cessante ed al danno emergente, quali voci del medesimo danno, come tali cumulabili; in particolare, gli interessi moratori rappresenterebbero il lucro cessante presunto, che il creditore avrebbe ricavato dall'impiego della somma dovutagli e, cioè, la perdita dei guadagni o delle altre utilità che egli avrebbe tratto se il debito fosse stato pagato tempestivamente; gli interessi moratori, pertanto, andrebbero tenuti distinti dal deprezzamento del denaro, che costituisce un danno emergente, “il cui risarcimento non assorbe detti interessi, ma si aggiunge ad essi” (così v. Cass. II, n. 1834/2000). Tale impostazione è stata criticata da quanti hanno evidenziato che: 1) la corresponsione di interessi moratori sulle somme rivalutate comporterebbe la negazione del principio nominalistico e la realizzazione di una ingiusta duplicazione risarcitoria, finendo per trattare i debiti di valuta alla stregua dei debiti di valore; 2) ritenere che, oltre alla rivalutazione, possano spettare anche gli interessi, i quali costituiscono, a loro volta, una forma di risarcimento, sebbene solo presuntiva, significherebbe liquidare due volte il medesimo danno; 3) considerare l' art. 1224 c.c. come riferito al danno emergente ed al lucro cessante significherebbe darne una sostanziale interpretatio abrogans, in quanto meramente ripetitivo della norma generale contenuta nel precedente art. 1223 c.c., che disciplina il risarcimento del danno da inadempimento nelle obbligazioni in genere; 4) quando nell' art. 1224, comma 2, c.c. il legislatore afferma testualmente che spetta un “ulteriore risarcimento” al creditore che dimostri di aver subito un “danno maggiore”, sembrerebbe riferirsi ad un quid pluris rispetto al danno forfettariamente liquidato nel comma 1, che non va assommato ad esso ma che ne costituisce soltanto una misura maggiore. La giurisprudenza di legittimità è intervenuta in argomento, affermando che il risarcimento del maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c., derivante dal deprezzamento della moneta nel periodo della mora, liquidato con il sistema della rivalutazione del credito in base agli indici Istat di variazione dei prezzi al consumo, copre l'intera area del danno risarcibile, e non può essere cumulato con gli interessi moratori di cui all' art. 1224, comma 1, c.c. in misura forfettariamente predeterminata in ragione della mancata disponibilità della somma dovuta. Pertanto, qualora, in relazione alla domanda del creditore di riconoscimento del maggior danno ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, si provveda alla integrale rivalutazione del credito, tale rivalutazione si sostituisce al danno presunto costituito dagli interessi legali, ed è idonea, quale espressione del totale danno concretamente subito, a coprire l'intera area dei danni subiti dal creditore stesso fino alla data della liquidazione, con la conseguenza che, solo da tale data, spettano gli interessi sulla somma rivalutata; in mancanza si verificherebbe l'effetto che il creditore riceverebbe due volte la liquidazione dello stesso danno, finendo con il conseguire più di quanto avrebbe ottenuto se l'obbligazione fosse stata tempestivamente adempiuta (vedasi Cass. II, n. 22429/2013; Cass. II, n. 12828/2009). L'applicazione del principio nominalistico comporta la sostanziale irrilevanza delle variazioni del valore reale del denaro, per cui, al momento della scadenza del termine di adempimento, il debitore si libera con il pagamento dello stesso importo originariamente dovuto, senza che abbiano incidenza quegli avvenimenti, eventualmente verificatisi medio tempore, produttivi di un deprezzamento del denaro e, quindi, di una minorazione del suo potere di acquisto. Tale principio subisce, tuttavia, tre ipotesi di deroga: a) deroghe convenzionali: vale evidenziare che le clausole di rivalutazione monetaria, pur comportando un sostanziale avvicinamento dei debiti pecuniari ai debiti di valore, dovuto essenzialmente all'automatismo dell'operazione di adeguamento dell'importo, non possono incidere sulla radicale diversità fra le due categorie di debito; mentre nei debiti indicizzati sarà sufficiente calcolare la variazione della somma dovuta effettuando un'operazione meramente matematica di applicazione degli indici di rivalutazione, nei debiti di valore, invece, il quantum debeatur viene determinato mediante il complesso meccanismo costituito dalla valutazione (c.d. aestimatio) e dalla successiva liquidazione (c.d. taxatio) della prestazione dovuta; b) deroghe legali: es. art. 3 della l. n. 218/1952; l. n. 90/1953; - art. 5 e 6 della l. n. 898/1970; - art. 24 della l. n. 392/1978 (abrogato dall' art. 14, comma 4, l. n. 431/1998) che prevedeva l'aggiornamento dei canoni di locazione in misura pari al 75% della variazione accertata dall'Istat dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati; c) deroghe giudiziali: ad es. in applicazione dell' art. 1467 c.c., si ritiene che, in presenza di un'inflazione eccezionale ed imprevedibile, si realizzino gli estremi della onerosità sopravvenuta, con conseguente possibilità di ottenere la risoluzione del contratto ovvero, in alternativa, l'offerta di reductio ad aequitatem delle condizioni. Debiti di valuta: la prova del maggior danno (Cass. S.U., 19499/2008) La indicata sentenza ha posto fine ad un risalente contrasto riguardante, in particolare, gli effetti della svalutazione monetaria sopravvenuta tra la mora e l'adempimento (o la condanna all'adempimento). Secondo un primo orientamento, di tale svalutazione monetaria il giudice deve tenere conto sempre e comunque, dovendosi presumere che il creditore, ove fosse stato tempestivamente soddisfatto, avrebbe impiegato il denaro per compiere investimenti, che lo avrebbero posto al riparo dagli effetti dell'inflazione. Secondo altra impostazione, invece, è onere del creditore dimostrare quale impiego avrebbe dato al denaro dovutogli, in caso di tempestivo adempimento, senza che il giudice possa supplire all'eventuale difetto di tale prova attraverso il ricorso ad “automatismi risarcitori”. A tali problemi le Sezioni Unite hanno dato soluzione stabilendo che: (a) la svalutazione monetaria sopravvenuta tra la mora e l'adempimento costituisce una ipotesi di “maggior danno” di cui all' art. 1224, comma secondo, c.c., e può consistere sia nei maggiori oneri (interessi passivi) sostenuti dal creditore per acquisire altrove le somme di denaro di cui non ha potuto disporre a causa della mora del debitore, sia nei lucri finanziari perduti dal creditore, per non avere potuto investire la somma dovutagli; (b) il danno sub (a) si presume iuris tantum sempre sussistente, in tutti i casi in cui o il saggio di rendimento dei titoli di Stato di durata non superiore all'anno, o il tasso d'inflazione (se superiore al primo), abbiano superato quello degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il “maggior danno” ex art. 1224 c.c., che il creditore potrà pretendere, sarà pari al saggio di rendimento dei BOT od al tasso d'inflazione, a seconda di quale sia superiore, salva la prova di un pregiudizio ulteriore da parte del creditore; (c) l'imprenditore, nel fornire la prova sub (b), non può vantare un trattamento agevolato rispetto al non imprenditore. Due le tesi a confronto sulle quali le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi: 1) la tesi del danno presunto, secondo la quale la prova del maggior danno subito dal creditore in conseguenza della svalutazione monetaria può essere raggiunta con ampio ricorso alle presunzioni semplici, in linea con quanto statuito dalle S.U. n. 4018/1986. Sulla scorta di questi princìpi si è giunti ad affermare che, quando il creditore dimostri la propria condizione di creditore occasionale di una somma di importo rilevante, null'altro è tenuto a dimostrare, essendo tale circostanza sufficiente perché il giudice possa determinare, in via presuntiva, l'ammontare del danno derivante dal mancato impiego di tale somma secondo una destinazione corrispondente agli impieghi usuali del denaro che, superando la misura necessaria al soddisfacimento delle esigenze della vita quotidiana, venga destinata al risparmio in forme tali da superare il ristoro derivante dalla corresponsione dell'interesse legale (tra le molte, v. Cass. II, n. 10569/2001); 2) la tesi del danno in concreto, in forza della quale la liquidazione del maggior danno ex art. 1224, secondo comma, c.c., non può mai essere “presunta ed automatica”, neanche se il creditore sia un imprenditore commerciale od un libero professionista. Secondo l'orientamento in esame, il creditore, quando allega che il ritardato adempimento l'ha costretto a ricorrere al credito, sostenendo interessi passivi che avrebbe altrimenti evitato, ha l'onere di allegare e dimostrare: 1) se, e in che misura, il denaro non riscosso fosse effettivamente destinato a ripianare o ridurre una esposizione debitoria verso le banche; 2) la sussistenza di una reale necessità di ricorrere al credito bancario, prova che non può essere ricavata da fatti notori e da presunzioni collegate alla qualità ed alle condizioni personali del creditore ( Cass. II, n. 6327/2000). Le Sezioni Unite ritengono “del tutto contraria ai dati di comune esperienza l'ipotesi della mera conservazione improduttiva da parte del creditore di un bene ontologicamente destinato allo scambio o all'investimento”. Il danno da svalutazione monetaria, pertanto, è un danno connaturale alla mora, che si presume esistente per il solo fatto che si sia verificata inflazione tra la mora ed il pagamento. La misura del danno patito dal creditore soddisfatto in ritardo è, dunque, per tutte le categorie di creditori pari: (a) al rendimento netto dei titoli di Stato con durata non superiore all'anno, ovvero (b) al saggio dell'inflazione, se superiore al tasso sub (a). Sul piano della prova, il creditore non ha alcun onere: il suo “maggior danno” si presume ex art. 2727 c.c., e sarà il debitore a dovere dimostrare che, anche in caso di tempestivo adempimento, il creditore non avrebbe affatto investito il proprio denaro in titoli di Stato. Resta ferma la possibilità, per il creditore, di chiedere, a titolo di risarcimento del maggior danno ex art. 1224, c.c., una somma superiore a quella risultante dal saggio dei BOT infrannuali. In questo caso, tuttavia, il creditore avrà l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l'onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero - attraverso la produzione dei bilanci - quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite. Ricorrendo questa evenienza, il debitore, dal canto suo, avrà l'onere di dimostrare - anche in questo caso, se necessario attraverso il ricorso a presunzioni semplici - che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio di rendimento dei BOT. A fronte delle molteplici pronunce successive conformi, va menzionata la difforme Cass. II, n. 20131/2014 che sembra propendere per una rilettura rigorosa della prova del maggior danno gravante integralmente sul creditore. Debiti di valore Le Sezioni Unite, con sentenza n. 1712/1995 hanno affermato il seguente principio di diritto: “qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata “per equivalente”, con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all'epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva (anche se adottata in sede di rinvio), è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno, che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma. Tale prova può essere offerta dalla parte e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi, quale l'attribuzione degli interessi, ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso; in siffatta ultima ipotesi, gli interessi non possono essere calcolati (dalla data dell'illecito) sulla somma liquidata per il capitale, definitivamente rivalutata, mentre è possibile determinarli con riferimento ai singoli momenti (da stabilirsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero in base ad un indice medio”. Tale principio viene affermato a composizione del contrasto di giurisprudenza tra il meno recente orientamento che, rispetto al danno da illecito extracontrattuale, ammetteva la computabilità degli interessi sull'ammontare del risarcimento per la perdita del bene, anche se liquidato in valori monetari comprensivi della svalutazione intervenuta fino all'epoca della decisione definitiva (cfr. tra le molte: Cass. III, n. 4791/1989) e la successiva impostazione, propugnata dalla I sez. civile, che aveva posto in luce come detti interessi, se liquidati con criterio presuntivo ed equitativo, debbano essere calcolati con riferimento ai valori monetari di tempo in tempo assunti dell'ammontare del risarcimento per la perdita del bene all'apice dell'illecito, in forza dell'applicazione allo stesso degli indici di rivalutazione monetaria, ovvero di indici medi. La Corte, in particolare, afferma che il ritardo a carico del debitore deve rapportarsi al momento in cui il controvalore avrebbe dovuto essere spontaneamente pagato. La prova, in proposito, può essere data anche mediante presunzioni semplici e facendo ricorso all' art. 1226 c.c. (criteri equitativi) e, quindi, in questo ambito di equo apprezzamento, il lucro cessante può essere liquidato col criterio degli interessi. Pertanto, salva la prova concreta di un danno diverso e maggiore che il creditore riesca a fornire, il mancato guadagno può essere liquidato dal giudice sotto forma di interessi, i quali non vanno considerati alla stregua di un'obbligazione accessoria del credito, ma costituiscono solo una modalità di liquidazione presuntiva ed equitativa del lucro cessante, cui il giudice può ricorrere. Si esclude, però, che la base di calcolo dei suddetti interessi possa essere la somma rivalutata al momento della liquidazione, come avveniva in passato, poiché il mancato godimento della utilità, che il creditore avrebbe potuto trarre se il bene fosse stato rimpiazzato immediatamente con la somma di denaro equivalente, va rapportato proprio al momento in cui quel controvalore avrebbe dovuto essere corrisposto - quello, cioè, in cui si è verificato l'illecito - e non al momento successivo della sua liquidazione. sicché se la liquidazione viene effettuata per equivalente, ossia con riferimento al valore del bene perduto o delle opere necessarie al suo ripristino all'epoca del fatto stesso, deve tenersi conto della svalutazione monetaria intervenuta sino alla decisone definitiva (danno emergente). Alla somma così determinata, deve aggiungersi il risarcimento del danno che è in re ipsa, per la mancata disponibilità della somma “de qua” durante il tempo trascorso dall'evento lesivo e la liquidazione giudiziale. La dimostrazione di tale danno (lucro cessante) può essere fornita con ogni mezzo, anche presuntivo e mediante l'utilizzo di criteri equitativi. Se il criterio prescelto è quello degli interessi, questi non possono conteggiarsi sulla somma rivalutata con decorrenza dall'evento, ma in relazione ai singoli momenti in cui la somma si incrementa nominalmente. Fattispecie ricorrenti a) Cumulo interessi e rivalutazione nel risarcimento del danno non patrimoniale Ai fini dell'integrale risarcimento del danno non patrimoniale, che costituisce debito di valore, occorre riconoscere al danneggiato sia la rivalutazione monetaria, che attualizza al momento della liquidazione il danno subito, sia gli interessi compensativi, volti a compensare la mancata disponibilità di tale somma fino al giorno della liquidazione del danno, sia gli interessi legali sulla somma complessiva dal giorno della pubblicazione della sentenza in poi. Non sussiste, quindi, alcuna incompatibilità fra valutazione all'attualità del danno biologico e riconoscimento degli interessi compensativi, che sono volti a ristorare il diverso pregiudizio che l'avente diritto abbia subito per la ritardata percezione del suo credito. Tali interessi potrebbero essere stati già presi in considerazione e liquidati dal giudice di merito nella liquidazione del danno biologico che venga effettuata alla stregua dei valori monetari al tempo della decisione, ma occorre che tale inclusione sia frutto di valutazione e che di tale valutazione il giudice di merito faccia una chiara ed inequivoca esplicitazione (sui criteri di calcolo degli interessi compensativi nelle obbligazioni di valore v. Cass. II, n. 3931/2010 e Cass. III, n. 5671/2010). In particolare, il giudice di merito dovrà dar conto dell'attualizzazione nella motivazione della sentenza, dalla quale dovrà emergere che, oltre alla rivalutazione, siano stati espressamente riconosciuti anche gli interessi compensativi ed il criterio di calcolo utilizzato (in tal senso si veda la recente Cass. III, n. 11899/2016). Quanto agli ulteriori interessi per il danno derivante dalla mancata tempestiva disponibilità dell'equivalente monetario del pregiudizio patito, la S.C. ha inteso precisare che essi decorrono non dalla pubblicazione della decisione (con ciò rivisitando il precedente orientamento), ma dai singoli momenti nei quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio (v. Cass. III, n. 12288/2016). b) Medici specializzandi: risarcimento del danno Il risarcimento dei danni previsto in favore degli specializzandi in medicina frequentanti in epoca anteriore al 1991, è oggetto di un peculiare diritto (para)risarcitorio, la cui quantificazione equitativa - da compiersi sulla base delle indicazioni contenute nella legge 19 ottobre 1999, n. 370 - comporta esclusivamente la decorrenza gli interessi (e non anche la necessità della rivalutazione monetaria, salva la prova del maggior danno ai sensi dell' art. 1224, secondo comma, c.c.) dalla data della messa in mora, in quanto, con la monetizzazione effettuata dalla legge n. 370 del 1999, l'obbligazione risarcitoria ha acquistato carattere di obbligazione di valuta (v. Cass. VI, n. 23635/2014). c) Lavoro carcerario e compenso dei detenuti In materia di lavoro dei detenuti, trattandosi di rapporto di lavoro con il Ministero della Giustizia, e dunque con ente pubblico, opera il divieto di cumulo tra rivalutazione monetaria ed interessi, poiché non ricorre la medesima ratio di cui alla pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale n. 459 del 2000 che ha escluso il divieto per i crediti dei lavoratori privati. In particolare, il principio espresso dal giudice delle leggi non può trovare applicazione per i dipendenti privati di enti pubblici, per i quali ricorrono, ancorché i rapporti di lavoro risultino privatizzati, le “ragioni di contenimento della spesa Pubblica” che sono alla base della disciplina differenziata secondo la “ratio decidendi” prospettata proprio dalla Consulta (cfr. Cass. sez. lav., n. 17869/2014, nonché Cass. sez. lav., n. 535/2013). d) Risarcimento del danno da licenziamento illegittimo Il cumulo tra interessi e risarcimento del danno da rivalutazione monetaria, previsto dall' art. 429, terzo comma, c.p.c., trova applicazione anche nel caso di crediti liquidati, ai sensi dell' art. 18 della l. n. 300/1970, a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, i quali, sebbene non siano sinallagmaticamente collegati con una prestazione lavorativa, rappresentano pur sempre l'utilità economica che, da questa, il lavoratore avrebbe tratto, ove la relativa esecuzione non gli fosse stata impedita dall'ingiustificato recesso della controparte. Ne consegue che sia la rivalutazione monetaria che gli interessi legali vanno attribuiti d'ufficio, con decorrenza dalla data del licenziamento sulla somma capitale via via rivalutata ( Cass. sez. lav., n. 11235/2014). e) Ingiustificato arricchimento ed indennizzo L'indennizzo ex art. 2041 c.c., in quanto credito di valore, va liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia ed il giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell'interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell'indennizzo medesimo. La somma così liquidata produce interessi compensativi, i quali sono diretti a coprire l'ulteriore pregiudizio subito dal creditore per il mancato e diverso godimento dei beni e dei servizi impiegati nell'opera, o per le erogazioni o gli esborsi che ha dovuto effettuare, e decorrono dalla data della perdita del godimento del bene o degli effettuati esborsi, coincidente con quella dell'arricchimento (Cass. III, n. 1889/2013). |