Appello in tema di azione di risarcimento danni derivati dalla alterazione del decoro architettonico

Andrea Penta
aggiornata da Francesco Agnino

Inquadramento

Il condomino di un fabbricato propone appello avverso la sentenza di primo grado che, pur avendo riconosciuto in suo favore la tutela ripristinatoria, a seguito della modifica, posta in essere dal convenuto-appellato, della facciata del fabbricato, ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni, ritenendo il pregiudizio economico sganciato da quello estetico.

Formula

CORTE D'APPELLO DI ....

ATTO DI APPELLO 1

Per il Sig. ...., nato a .... il ...., C.F. .... 2, residente in ...., alla via .... n. ...., elettivamente domiciliato in ...., alla via .... n. ...., presso lo studio dell'Avv. ...., C.F. ...., che lo rappresenta e difende in virtù di procura apposta a margine/in calce del presente atto, con dichiarazione di voler ricevere le comunicazioni al fax n. ....o all'indirizzo di PEC .... 3,

-appellante-

CONTRO

Sig. ...., C.F. ...., residente in ...., alla via ....n. ....rappresentata e difesa dall'Avv. ....;

-appellato-

avverso la sentenza n .... emessa in data .... dal Tribunale di ...., Giudice dott. ...., pubblicata il .... e notificata il ....(o: non notificata).

PREMESSO CHE

Con atto di citazione notificato in data ...., il Sig. ...., quale proprietario di una porzione dell'edificio sito in ...., alla via .... n. ...., ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di .... il Sig. ...., altro condomino del medesimo condominio, per sentirlo condannare alla riduzione in pristino del fabbricato ed al risarcimento dei danni, oltre alle spese del presente giudizio, esponendo che:

— il convenuto aveva modificato la facciata del comune fabbricato mediante variazioni in altezza, interruzione della linea di gronda, realizzazione di un terrazzo incassato nel tetto, intonacazione della facciata, apertura di nuove finestre non allineate, sostituzione delle persiane a chiusura classica con altre a scorrimento 4;

— le sue richieste di ripristino dello status quo ante non erano state neppure prese in considerazione, con la conseguenza che si era visto costretto a ricorrere all'autorità giudiziaria.

Il convenuto si era costituito in giudizio, sostenendo la piena legittimità del proprio operato e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna delle attrici al rimborso pro quota delle spese che aveva affrontato per il risanamento dello stabile.

All'esito dell'istruzione della causa, il Tribunale di ...., con sentenza n. .... del ...., ha accolto in parte la sua domanda, escludendo, alla stregua della consulenza tecnica espletata, che la presunta turbativa del decoro architettonico avesse determinato un deprezzamento dell'intero fabbricato.

La sentenza è ingiusta per i seguenti:

MOTIVI

È incontestato e, comunque, risultante dalle rappresentazioni fotografiche prodotte, oltre che confermato dal c.t.u. all'uopo designato, che "gli interventi realizzati dal .... (vale a dire, .... ) hanno comportato un vero e proprio stravolgimento della fisionomia architettonica dell'edificio di cui si tratta", il quale "nella configurazione preesistente ai lavori, evidenziava un proprio stile architettonico ben definito tipico dell'edilizia di fine ottocento, caratterizzata da .... e che risulta completamente stravolto nella sua semplicità dalle innovazioni introdotte", sicché "l'edificio è stato trasformato nella parte superiore in un pessimo esempio di edilizia moderna tipica di tante periferie degradate".

Orbene, la giurisprudenza della Suprema Corte è univocamente orientata nel senso che il pregiudizio economico costituisce, nei casi di stravolgimento come quello in considerazione, una conseguenza normalmente insita nella menomazione del decoro architettonico (v., tra le più recenti, Cass. n. 5899/2004, Cass. n. 1025/2004, Cass.n. 16098/2003, Cass. n. 5417/2002), il quale peraltro è tutelato, dalle norme che ne vietano l'alterazione, come una qualità dell'edificio meritevole in sè di salvaguardia.

Dal danno estetico, che ha per oggetto il fabbricato, deriva automaticamente, in quanto implicito, un danno economico avente ad oggetto la situazione patrimoniale del proprietario condomino, che vede pregiudicato il valore venale dell'immobile.

L'art. 1122 c.c. vieta a ciascun condomino di poter eseguire, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, opere che rechino danno alle parti comuni dell'edificio. Il concetto di danno, cui la norma fa riferimento, non va limitato esclusivamente al danno materiale, inteso come modificazione della conformazione esterna o della intrinseca natura della cosa comune, anche se di ordine edonistico o estetico. Ricadono, pertanto, nel divieto in questione tutte quelle modifiche che costituiscono un peggioramento del decoro architettonico del fabbricato. Decoro da correlarsi non soltanto all'estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture che connotano il fabbricato stesso e gli imprimono una determinata armonia, ma anche all'aspetto dei singoli elementi o di singole parti dell'edificio che abbiano una sostanziale e formale autonomia o siano comunque suscettibili per sé di considerazione autonoma. La voce di danno di cui all'art. 1122 c.c., in altri termini, fa riferimento non solo al pregiudizio per la sicurezza e la stabilità del fabbricato, deterioramento di parti comuni causati da lavori, ma anche all'alterazione del decoro architettonico (Cass. II, n. 53/2014).

In definitiva, nel caso in cui venga riscontrato un danno estetico di particolare rilevanza, non vi è necessità di una specifica indagine al fine di accertare il danno economico, il quale deve ritenersi implicito (Cass. II, n. 5417/2002).

In ogni caso, a conforto del pregiudizio di tipo economico subìto, in primo grado è stata depositata una perizia tecnica stragiudiziale, i cui contenuti non sono stati in alcun modo contestati, ed è stato sollecitato l'espletamento di una CTU volta alla esatta quantificazione dei danni.

Tanto premesso, il Sig. ...., come sopra rappresentato e difeso,

CITA

Il Sig. ...., elettivamente domiciliato presso l'Avv. ...., C.F. ...., con studio in .... via .... n. ...., a voler comparire dinanzi a codesta Eccellentissima Corte d'Appello…all'udienza del…., ore e locali soliti, Sezione e Consigliere Relatore designandi, con l'invito a costituirsi nel termine di settanta giorni prima dell'udienza indicata, ai sensi e nelle forme stabilite dall'art. 166 c.p.c. e a comparire all'udienza indicata innanzi al Collegio o al Consigliere Relatore nominati, con l'avvertimento

  • che la costituzione oltre il suddetto termine implica tutte le decadenze di legge tra cui quelle di cui agli artt. 38,167,168,343 e 345 c.p.c.,
  • che la difesa tecnica mediante avvocato è obbligatoria in tutti i giudizi davanti al tribunale fatta eccezione per i casi previsti dall'articolo 86 o da leggi speciali e
  • che la parte, sussistendone i presupposti di legge, può presentare istanza per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato;

ciò al fine di ivi sentir accogliere, anche nella sua contumacia, le seguenti

CONCLUSIONI

Voglia la Corte d'Appello adita, disattesa ogni contraria istanza, in riforma della sentenza n. .... del Tribunale di ...., condannare l'appellato al risarcimento danni derivati dalla alterazione del decoro architettonico, nella misura di Euro ....,o in quella maggiore o minore che emergerà in corso di causa.

Con vittoria di spese e compensi del doppio grado di giudizio.

Si allegano i seguenti documenti.

1) Sentenza n. ....;

2) ....;

Si dichiara che il valore della causa è di Euro ....

Luogo e data ....

Firma Avv. ....

PROCURA ALLE LITI

(se non apposta a margine)

[1] [1] In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il C.F., oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv., con modif., dalla l. 15 luglio 2011, n. 111).

[2] [2] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall'art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv. con modif. dalla legge n. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, d.l. n. 193/2009 conv. con modif. dalla legge n. 24/2010.

[3] [3] A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv., con modif., dalla legge n. 114/2014.

L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014, conv. con modif., dalla legge 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà».

[4] [4] La nullità della citazione per omessa determinazione dell'oggetto della domanda postula la totale omissione o l'assoluta incertezza dell'oggetto della domanda, inteso sotto il profilo formale del provvedimento giurisdizionale richiesto, e nell'aspetto sostanziale, come bene della vita di cui si domanda il riconoscimento, omissione che non pare sussistere se l'attore abbia indicato, seppur in maniera sommaria, le opere che a suo dire arrecavano danno alla stabilità e sicurezza dell'edificio ed al suo decoro architettonico, indicazione che permette ai convenuti di prendere posizione sulle richieste di controparte, svolgendo sin dalla comparsa di costituzione e risposta, una difesa ben articolata, sulla cui scorta non può ritenersi in alcun modo leso il loro diritto di difesa.

Commento

Premessa

L'art. 1102 c.c., norma allocata nella disciplina giuridica della comunione, ma da ritenere applicabile anche al regime giuridico del condominio in base al richiamo di cui all'art. 1139 c.c., regola tre diverse situazioni:

- la prima relativa al diritto di ciascun compartecipe di servirsi della cosa comune senza portare modificazioni alla stessa e nel rispetto del diritto di godimento spettante agli altri;

- la seconda disciplinante l'ipotesi delle modifiche della cosa comune effettuate dal singolo partecipante a proprie spese per il proprio maggior godimento;

- la terza, prevista nel comma secondo del predetto art. 1102 c.c., regola la diversa ipotesi della natura e dell'estensione del compossesso: la citata norma persegue lo scopo di assicurare al singolo partecipante, quanto all'esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa e pertanto legittima quest'ultimo, entro i suddetti limiti, a servirsi di essa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità, non potendosi la nozione di “uso paritetico” intendersi in termini di assoluta identità di utilizzazione della cosa comune, poiché una lettura in tal senso, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe il sostanziale divieto, per ciascun condomino, di fare qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio della cosa comune (Cass. n. 1499/1998; Cass. n. 11268/1998; Cass. n. 12873/2005).

L'art. 1102 c.c. subordina l'uso dei beni comuni ad opera del singolo condomino a due fondamentali limitazioni: il divieto di alterare la destinazione della cosa comune e l'obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri condomini («la quota di proprietà di cui all'articolo 1118 c.c., quale misura del diritto di ogni condomino, rileva relativamente ai pesi ed ai vantaggi della comunione, ma non in ordine al godimento che si presume uguale per tutti, come ribadisce l'articolo 1102 c.c. con il porre il limite del “pari uso”»; così Cass. II, n. 26226/2006). A rendere illecito l'uso basta il mancato rispetto dell'una o dell'altra delle due condizioni, così che anche l'alterazione della cosa comune, determinata non soltanto dal mutamento della funzione ma anche dal suo scadimento in uno stato deteriore, ricade sotto il divieto stabilito dall'art. 1102 c.c.. Deve, invece, ritenersi legittima l'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, purché nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri condomini; è altresì legittimo l'uso più intenso della cosa, purché non sia in ogni caso alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine sempre avere riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno (Cass. n. 1554/1997).

Pertanto a rendere illecito l'uso basta il mancato rispetto dell'una o dell'altra delle predette condizioni (Cass. II, n. 19615/2012; Cass. II, n. 3188/2011). La Cassazione ha precisato, quanto al primo profilo, che la nozione di pari uso della cosa comune non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, posto che nei rapporti condominiali si richiede un costante equilibrio tra le esigenze di tutti i partecipanti alla comunione (Cass. II, n. 15523/2011; Cass. II, n. 23243/2016). L'uso particolare o più intenso della cosa comune, consentito ai sensi dell'art. 1102 c.c., presuppone, perché non si configuri come illegittimo, che non ne risultino impedito l'altrui uso paritario né modificata la destinazione né arrecato pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio (Trib. Busto Arsizio I, 8 aprile 2011). Se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l'uso della cosa comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento; peraltro, fino a quando non vi sia richiesta di un uso ternario da parte degli altri comproprietari, il semplice godimento ad opera di taluni non può assumere la idoneità a produrre qualche pregiudizio in danno di coloro che abbiano mostrato acquiescenza all'altrui uso esclusivo, salvo che non risulti provato che i comproprietari che hanno avuto l'uso esclusivo del bene ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale (Cass. II, n. 24647/2010).

La tutela

La tutela, in caso di violazione dei menzionati principi, alcune volte può essere ripristinatoria, altre volte per equivalente.

La giurisprudenza ha avuto modo di osservare che tendenzialmente l'ostacolo al diretto godimento della cosa comune, da parte di uno dei comproprietari, frapposto dagli altri fa sorgere, a carico di chi lo ponga in essere, l'obbligo di prestazione risarcitoria sostitutiva del godimento non fruito (Cass. n. 15111/2013, cit.).

Tuttavia, in primo luogo, il danno inerente al “godimento non fruito” non può ritenersi sussistente in re ipsa e coincidente con l'evento, che é viceversa un elemento del fatto produttivo del danno, ma, ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c., trattasi pur sempre di un danno-conseguenza, sicché il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un'effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l'occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti (Cass. n. 15111/2013, cit.).

A fronte di tale orientamento, è, peraltro, a darsene atto di un altro di segno contrario, a mente del quale, nell'ipotesi di sottrazione delle facoltà dominicali di godimento e disposizione del bene, il danno da lucro cessante (risarcibile sotto l'aspetto non solo del lucro interrotto, ma anche di quello impedito nel suo potenziale esplicarsi, ancorché derivabile da un uso della cosa diverso da quello tipico) sarebbe da ritenersi in re ipsa e ben potrebbe essere quantificato in base ai frutti civili che l'autore della violazione abbia tratto dall'uso esclusivo del bene, imprimendo ad esso una destinazione diversa da quella precedente (Cass. II, n. 14213/2012). Parimenti, in materia di comunione, ove sia provata l'utilizzazione da parte di uno dei comunisti della cosa comune in via esclusiva in modo da impedirne l'uso, anche potenziale, agli altri comunisti, si ritiene sussistente un danno in re ipsa (Cass. II, n. 11486/2010), facendosi decorrere il relativo risarcimento dalla data di commissione dell'illecito (Cass. II, n. 23065/2009).

Non è, invece, revocabile in dubbio che l'uso esclusivo del bene comune da parte di uno dei comproprietari, nei limiti di cui all'art. 1102 c.c., non sia idoneo a produrre alcun pregiudizio in danno degli altri comproprietari che siano rimasti inerti o abbiano acconsentito ad esso in modo certo ed inequivoco, essendo l'occupante tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa soltanto se gli altri partecipanti abbiano manifestato l'intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non gli sia stato concesso (Cass. n. 2423/2015; in senso conforme, Cass. II, n. 24647/2010 e Cass. I, n. 7466/2015).

Alla stessa stregua, in tema di comproprietà di immobile adibito ad uso abitativo, in caso di godimento esclusivo di un solo comproprietario, con ostacolo al godimento degli altri, questi ultimi hanno diritto ad ottenere il risarcimento del danno solo per il periodo in cui non hanno potuto fruire dell'immobile ed hanno manifestato la loro volontà contraria all'uso esclusivo, non potendosi produrre alcun pregiudizio in danno di coloro che invece mostravano acquiescenza per tale situazione (Trib. Milano, 8 giugno 1998).

Alcune fattispecie

Nel settore dell'uso indebito delle cose comuni sarebbe utopistico prendere in rassegna, sia pure sinteticamente, le varie fattispecie astrattamente configurabili.

A titolo meramente esemplificativo, l'innovazione eseguita in assenza della delibera formale prevista dal regolamento condominiale, che non alteri il decoro architettonico dell'edificio (v., sul punto, postea), è da considerarsi illegittima ed obbliga chi la eseguì alla rimessione in pristino, ma non al risarcimento del danno (Trib. Milano, 16 giugno 1988).

D'altra parte, il pregiudizio può derivare anche indirettamente dall'opera compiuta in una comunione. Si pensi alla collocazione di una tubatura di scarico di un servizio, di pertinenza esclusiva di un condomino, in un muro maestro dell'edificio condominiale: per quanto la stessa rientri nell'uso consentito del bene comune, per la funzione accessoria cui esso adempie, resta impregiudicata la domanda di condanna del risarcimento del danno, anche in forma specifica, ossia mediante sostituzioni e riparazioni, proponibile per le infiltrazioni derivatene alla proprietà, o comproprietà, di altro condomino (Cass. II, n. 1162/1999).

In mancanza di norme limitative della destinazione e dell'uso delle porzioni immobiliari di proprietà esclusiva di un edificio condominiale, derivanti dal regolamento che sia stato approvato da tutti i condomini, la norma dell'art. 1122 c.c. non vieta di mutare la semplice destinazione della proprietà esclusiva ad un uso piuttosto che ad un altro, purché non siano compiute opere che possano danneggiare le parti comuni dell'edificio o che rechino altrimenti pregiudizio alla proprietà comune (Cass. II, n. 22428/2011). In tal caso il giudice può inibire la nuova destinazione, ordinando la rimozione delle opere pregiudizievoli, qualora sia stata ritualmente proposta la domanda in tal senso (in applicazione di tale principio, Cass. II, n. 5612/2001, ha confermato la sentenza del giudice di merito che aveva statuito il divieto del mutamento di destinazione di porzione di proprietà esclusiva di un condomino da autorimessa ad abitazione, costituendo detta modifica un peggioramento dell'estetica della facciata e creazione di una situazione di "basso", risolventesi anche in pregiudizio economicamente apprezzabile per il decoro abitativo generale dell'edificio, posto in zona residenziale).

L'apertura di un varco nel muro perimetrale per esigenze del singolo condomino è consentita, quale uso più intenso del bene comune, con eccezione del caso in cui tale varco metta in comunicazione l'appartamento del condomino con altra unità immobiliare attigua, pur di proprietà del medesimo, ricompresa in un diverso (limitrofo) edificio condominiale, poiché in questo caso il collegamento tra unità abitative determina la creazione di una servitù a carico di fondazioni e struttura del fabbricato; in quest'ultima ipotesi, peraltro, affinché il comportamento illecito del condomino determini un danno risarcibile, occorre la prova di un concreto pregiudizio economico (v. sul punto, infra), la cui verificazione, in assenza di un'effettiva dimostrazione, può ritenersi solo possibile o probabile (Cass. II, n. 3035/2009; Cass. II, n. 4501/2015). Nel senso che l'apertura di un varco nel muro perimetrale comune per mettere in comunicazioni due unità immobiliari dello stesso soggetto, ma site in distinti e diversi edifici condominiali limitrofi, è illegittima, perché, in tal caso, essa «comportando la cessione a favore di soggetti estranei al condominio del godimento di un bene comune, ne altera la destinazione, giacché in tal modo viene imposto un peso sul muro perimetrale che dà luogo a una servitù, per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i partecipanti al condominio», cfr. altresì Cass. n. 9036/2006, Cass. n. 369/1995, Cass. n. 5780/1988, Cass. n. 2176/1982.

L'alterazione del decoro architettonico

Un ambito nel quale la Suprema Corte è stata chiamata a più riprese a pronunciarsi è quello della lesione del decorso architettonico.

Poiché l'art. 1102 c.c., nel vietare le innovazioni pregiudizievoli alle parti comuni dell'edificio, fa riferimento non soltanto al danno materiale, inteso come modificazione esterna o della intrinseca natura della cosa comune, ma a tutte le opere che elidono o riducono in modo apprezzabile le utilità da essa detraibili, anche se di ordine edonistico, devono ritenersi vietate tutte quelle modifiche che comportino un peggioramento del decoro architettonico del fabbricato; al riguardo, il decoro è correlato non solo all'estetica - che è data dall'insieme delle linee e delle strutture che connotano il fabbricato imprimendogli una determinata armonia complessiva -, ma anche all'aspetto dei singoli elementi o di singole parti dell'edificio che abbiano una sostanziale e formale autonomia o siano suscettibili per sè di considerazione autonoma (Cass. II, n. 1076/2005).

La voce di danno di cui all'art. 1122 c.c. fa riferimento, non solo al pregiudizio per la sicurezza e la stabilità del fabbricato, deterioramento di parti comuni causato dai lavori (es. infiltrazioni), ma anche all'alterazione del decoro architettonico. Con l'ulteriore specificazione che il condomino, nell'eseguire opere su parti di sua proprietà, altera il decoro architettonico dello stabile se, tenendo conto delle caratteristiche dello stabile al momento dell'opera, reca un pregiudizio tale da comportare un deprezzamento dell'intero fabbricato e delle unità immobiliari in esso comprese (Cass. II, n. 53/2014).

Ai fini della tutela prevista dall'art. 1120, comma 2, c.c. in materia di divieto di innovazioni sulle parti comuni dell'edificio condominiale, non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall'innovazione, abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale decoro sia stato già gravemente ed evidentemente compromesso da precedenti interventi sull'immobile, ma è sufficiente che vengano alterate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità (in applicazione di tale principio, Cass. II, n. 14455/2009, ha confermato, sul punto, l'impugnata sentenza, che aveva ritenuto dimostrata la violazione del decoro architettonico in un caso in cui la trasformazione in veranda dell'unico balcone esistente al piano ammezzato aveva spezzato il ritmo proprio della facciata ottocentesca del fabbricato, che nei vari piani possedeva un preciso disegno di ripetizione dei balconi e di alternanza di pieni e vuoti, non potendosi trascurare, a tal fine, anche la rilevanza delle caratteristiche costruttive della veranda e il suo colore bianco brillante, contrastante con le superfici più opache dei circostanti edifici).

Peraltro, il pregiudizio per l'aspetto architettonico, che deve essere evitato da chi sopraeleva l'edificio in condominio, è diverso dall'alterazione del decoro architettonico preveduto per le innovazioni dall'art. 1120 c.c. e consiste in un danno estetico che si risolva in danno economico per l'edificio anche privo di tale decoro (Cass. II, n. 4804/1978).

L'"alterazione" giuridicamente rilevante deve poter essere tenuta distinta, nel caso concreto, tanto dalla "modifica ripristinatoria", quanto dalla "modifica migliorativa", nel senso che il giudice di merito è chiamato ad accertare che, nella fattispecie sottoposta al suo scrutinio, le innovazioni apportate all'edificio non abbiano avuto, appunto, la funzione di ripararne la struttura o di migliorarne la fisionomia.

In quest'ottica, la Corte ha ritenuto che l'alterazione del decoro architettonico, se e in quanto priva di funzione riparatoria o migliorativa dell'assetto preesistente, costituisce un pregiudizio per l'edificio, a prescindere dall'accertamento − giudicato irrilevante − del risultato estetico ottenuto con la modifica, la quale deve essere considerata non consentita anche se apparentemente "gradevole" (cfr. Cass. II, n. 17398/2004).

Una volta definito il significato di "decoro architettonico", occorre delineare il rapporto sussistente tra la lesione dello stesso ed il danno derivante.

Dall'alterazione del decoro architettonico può, infatti, scaturire un nocumento economico che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, viene ritenuto automaticamente desumibile dal pregiudizio estetico, a prescindere dallo svolgimento di specifiche indagini volte ad appurarne la sussistenza (per Cass. II, n. 7625/2006, "in tema di condominio negli edifici, nell'ipotesi di stravolgimento della fisionomia architettonica dell'edificio condominiale, il pregiudizio economico è una conseguenza normalmente insita nella menomazione del decoro architettonico che, costituendo una qualità del fabbricato, è tutelata − in quanto di per sé meritevole di salvaguardia − dalle norme che ne vietano l'alterazione"; cfr. altresì Cass. II, n. 5417/2002; Cass. II, n. 1297/1998).

Il riconoscimento giudiziale della lesione del decoro architettonico dell'edificio comporta evidenti conseguenze di carattere patrimoniale, ossia il risarcimento del danno in favore dei soggetti lesi dal deprezzamento di valore del fabbricato e delle singole unità immobiliari in esso ricomprese (App. Napoli, 11/10/2023, n. 4312).

Ovviamente, in mancanza di dimostrazione in concreto di un nocumento ulteriore rispetto a quello idoneo ad essere ristorato mediante la demolizione, il risarcimento in forma specifica è l'unico al quale abbia diritto la parte istante.

Dunque, mentre l'an del danno può essere ritenuto desumibile in maniera implicita dall'alterazione del decoro architettonico, il modus e il quantum del relativo ristoro necessitano di una dimostrazione da parte del soggetto richiedente che non si sottrae al generale principio dell'onere della prova.

Non manca, peraltro, una parte della giurisprudenza di legittimità secondo cui dalla gravità del "danno estetico" si potrebbe desumere la sussistenza del "danno economico" (cfr. Cass. II, n. 16098/2003, in cui la Suprema Corte ha affermato che il pregiudizio estetico dell'edificio è suscettibile di un'apprezzabile valutazione economica, se l'alterazione del decoro architettonico risulta appariscente e di non trascurabile entità, e che tale tipo di alterazione può essere affermata senza necessità di una specifica indagine, laddove il danno estetico abbia avuto una rilevanza tale, per entità e/o natura, che il danno economico possa ritenervisi insito).

Dunque, secondo questo orientamento, il pregiudizio al decoro architettonico dell'edificio comporterebbe e conterrebbe il nocumento alla sfera economica del condomino proprietario e ciò renderebbe non necessaria una specifica indagine in tal senso.

Tuttavia, se è vero che il danno estetico comporta quello economico, è vero anche che il secondo deve essere ritenuto ulteriore e diverso rispetto al primo.

Se, cioè, dal danno estetico, che ha per oggetto il fabbricato, deriva automaticamente, in quanto implicito, un danno economico avente ad oggetto la situazione patrimoniale del proprietario condomino, che vede pregiudicato il valore venale dell'immobile, ciò non significa che il primo debba necessariamente coincidere con il secondo sino a configurare con questo una fattispecie unica ed unitariamente risarcibile.

In difetto di prova di un concreto danno ulteriore, l'esigenza di ristoro del danno economico viene ritenuta integralmente soddisfatta dalla forma specifica del relativo risarcimento.

Il ripristino dello status quo ante, peraltro, mentre è sicuramente suscettibile di riparare il danno all'estetica dell'immobile, non può dirsi altrettanto idoneo a ristorare la sfera patrimoniale del soggetto che sia stato leso nel proprio diritto di proprietà.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario