Condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata per lite temerariaInquadramentoLa condanna per responsabilità aggravata per colpa grave o dolo, di cui al subito a causa della condotta temeraria primo comma dell'art. 96 c.p.c., presuppone: la soccombenza dell'avversario; la prova dell'altrui malafede o colpa grave nell'agire o resistere in giudizio; la prova del danno della controparte. Pertanto, è necessario dimostrare l'esistenza sia dell'elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza o nell'ignoranza colpevole dell'infondatezza della propria tesi, sia di quello oggettivo, ovvero il pregiudizio subito a causa della condotta temeraria della parte soccombente. La parte istante ha l'onere di fornire elementi probatori sufficienti per provare (sia pure anche mediante presunzioni; cfr. Cass. III, n. 21079/2015) l'esistenza del danno. Ed è questa la ragione per la quale va respinta la relativa domanda quando, pur avendo la parte attrice agito con una certa leggerezza, il convenuto non abbia dimostrato alcunché circa il presunto danno subito sia con riguardo all'an che al quantum debeatur (Cass. n. 6402/2015; Trib. Salerno III, 23 ottobre 2015, n. 4369). Invero, l'art. 96, comma 1, c.p.c. si colloca nell'area della responsabilità civile, con conseguenti profili risarcitori, in relazione ai quali si pongono problemi di onere probatorio a carico del richiedente (Corte cost. n. 435/2008; l'inquadramento della responsabilità in oggetto nell'ambito della responsabilità da fatto illecito, oltre ad escludere una totale distinzione tra le due forme di responsabilità, implica che con riguardo a tale responsabilità sarà applicabile la disciplina dell'illecito aquiliano, salvo riferirsi alle categorie ed alle nozioni processuali per quanto riguarda i suoi presupposti applicativi). Da ciò consegue che la domanda di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. non può trovare accoglimento tutte le volte in cui la parte istante non abbia assolto all'onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato (Cass. III, n. 21798/2015; Cass. n. 3003/2014; Trib. Pisa, 12 ottobre 2016, n. 1257). È opportuno precisare, però, che l'art. 96 c.p.c. contiene la disciplina integrale completa della responsabilità processuale aggravata e si pone con carattere di specialità rispetto all'art. 2043 c.c., di modo che la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando concettualmente nel genere della responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina del ricordato art. 96, senza che sia configurabile un concorso - anche alternativo - tra i due tipi di responsabilità (Cass. n. 18222/2013). Un orientamento minoritario, peraltro, sostiene che, ove venga riconosciuta la temerarietà della lite, sarebbe giustificabile che il giudice, avuto riguardo a tutti gli elementi della controversia, provveda al risarcimento del danno anche nel caso in cui manchi la dimostrazione di concreti e specifici danni, patrimoniali e non patrimoniali, conseguiti nello svolgimento del processo; in questo caso, infatti, non si tratterebbe di riconoscere un danno in re ipsa, ma semplicemente di prendere atto che il subire iniziative giudiziarie pretestuose o resistenze temerarie a fondate pretese giudiziali comporta, secondo le nozioni di comune esperienza, la sicura verificazione di una perdita economica e di danni di natura psicologica a carico della parte vittoriosa (Trib. Milano IV, 2 dicembre 2014, n. 14283). Cass. VI, n. 12029/2017, e Cass. III, n. 26515/2017, hanno ribadito che l'art. 96 c.p.c. si pone in rapporto di specialità rispetto all'art. 2043 c.c., sicché la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando nella generale responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina del citato art. 96 c.p.c., senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra le due fattispecie. È perciò inammissibile la proposizione di un autonomo giudizio di risarcimento per i danni asseritamente derivati da una condotta di carattere processuale, i quali devono essere chiesti esclusivamente nel relativo giudizio di merito. Tuttavia, Cass. III, n. 5037/2017, ha specificato che non ogni illecito che si verifichi nel processo può essere ricondotto alla responsabilità processuale aggravata: così, nell'espropriazione presso terzo, qualora la dichiarazione da questi resa, ai sensi dell'art. 547 c.p.c., risulti, in esito al successivo giudizio di accertamento contemplato dall'art. 549 c.p.c., reticente od elusiva, sì da favorire il debitore ed arrecare pregiudizio al creditore istante, a carico di detto terzo deve ritenersi configurabile non la responsabilità processuale aggravata di cui all'art. 96 c.p.c. (dato che egli, al momento di quella dichiarazione, non ha ancora la qualità di parte), ma, con riguardo al dovere di collaborazione nell'interesse della giustizia che al terzo incombe quale ausiliario del giudice, la responsabilità per illecito aquiliano, a norma dell'art. 2043 c.c., in relazione alla lesione del credito altrui per il ritardo nel conseguimento del suo soddisfacimento provocato con quel comportamento doloso o colposo. Il risarcimento del danno per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. presuppone la totale soccombenza della parte condannata (Cass. n. 11917/2002). Nel costituirsi nel giudizio di opposizione a d.i., un istituto di credito, oltre a chiedere il rigetto dell'opposizione e la condanna dell'opponente al rimborso delle spese processuali, sollecita una ulteriore condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata, ai sensi del terzo comma dell'art. 96 c.p.c., in considerazione della natura palesemente dilatoria dell'opposizione. FormulaTRIBUNALE DI .... [1] COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA [2] Nell'interesse di: Società ...., P.I. .... [3], in persona dell'Amministratore Unico Sig. ...., nato a .... il ...., C.F. .... con sede legale in ...., alla via ....n. ...., elettivamente domiciliato in ...., alla via .... n. ...., presso lo studio dell'Avv. ...., C.F. ...., che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine/in calce al presente atto, con dichiarazione di voler ricevere le comunicazioni, ai sensi dell'art. 125, comma 1, c.p.c. e dell'art. 136, comma 3, c.p.c., al seguente numero di fax ...., oppure tramite PEC .... [4]; -opposta- CONTRO Sig. ...., nato a .... il ...., C.F. ...., con sede legale in ...., alla via .... n. ...., elettivamente domiciliato in ...., alla via .... n. ...., presso lo studio dell'Avv. ...., che lo rappresenta e difende, in virtù di procura in calce/a margine dell'atto di citazione; -opponente- * * * PREMESSO CHE — con ricorso depositato il .... la banca .... ricorreva al Tribunale di ...., chiedendo di ingiungere a ...., quale correntista, il pagamento del saldo passivo del conto corrente n. .... aperto il ...., pari, alla data del ...., ad Euro ....; — il Tribunale adito accoglieva la domanda ed ingiungeva al debitore il pagamento della somma richiesta, oltre interessi e spese processuali, con d.i. n. ....del ....; — il d.i. era notificato il ....: — quest'ultimo proponeva opposizione con atto notificato il ....; — con l'atto in questione egli si doleva dell'indeterminatezza della somma ingiunta, non essendo state specificate le voci di calcolo; del comportamento contrario a buona fede, visto che la banca non aveva risposto alla richiesta, anche stragiudiziale, del dettaglio delle somme pretese; della capitalizzazione trimestrale operata, del difetto di pattuizione scritta del tasso degli interessi passivi, della loro determinazione richiamando gli usi su piazza, dell'usura praticata con il tasso degli interessi superiore a quello soglia; — chiedeva, quindi, l'accoglimento dell'opposizione e la revoca del d.i. DIRITTO L'opposizione è generica e, comunque, manifestamente infondata. Preliminarmente, inammissibile è la contestazione della documentazione prodotta dall'opposta a corredo della propria domanda, che l'opponente ha sollevato genericamente ed apoditticamente richiamando l'art. 2719 c.c. Nel merito, rammentando che si verte in materia di azione di adempimento, nella quale, ai sensi dell'art. 2697 c.c., al creditore che agisce spetta provare la fonte del proprio diritto ed allegare l'altrui inadempimento, toccando al debitore, ai sensi della citata disposizione e dell'art. 1218 c.c., provare di avere pagato oppure di non averlo potuto fare per cause a sé non imputabili (Cass. S.U., n. 13533/2001), e considerato che nel presente giudizio la veste sostanziale di attore e di convenuto è rivestita, rispettivamente, dall'opposta e dall'opponente, è da rilevare, innanzitutto, che la banca ha prodotto: copia del contratto di conto corrente indicato in ricorso sottoscritto il .... dal debitore, recante la disciplina scritta e determinata di tutte le condizioni economiche applicate, compresi i tassi di interesse, nominale ed effettivo, debitori e creditori, e delle condizioni giuridiche, tra le quali la capitalizzazione trimestrale degli interessi a credito ed a debito, recante la specifica approvazione scritta della correntista, come richiesto dalla delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000 richiamata dall'art.120 del d.lgs. n. 385/1993; estratti conto ordinari e scalari dall'apertura del conto alla chiusura. In secondo luogo, l'opponente non solo non ha provato, e nemmeno dedotto, che il credito vantato è stato soddisfatto, ma non ha neanche compiutamente dimostrato l'eccepita usurarietà degli interessi applicati, se si considera che non ha depositato i decreti ministeriali richiamati dall'art. 2 della legge 108/1996. Tutto quanto su esposto comporta il rigetto dell'opposizione e l'esecutività, ex art. 648 c.p.c., del d.i. opposto, con condanna, altresì, dell'opponente al pagamento delle spese di lite. Inoltre, ai sensi dell'art. 96, ultimo comma c.p.c., l'opponente dovrà essere condannato al pagamento della somma equitativamente determinata di euro .... [5], considerata la pretestuosità dell'opposizione ed il fine palesemente dilatorio della stessa, evincibile non solo dalla genericità delle eccezioni sollevate in citazione, ma anche dalla fissazione della prima udienza in citazione per il ...., pur avendo notificato l'atto il .... Tale condotta processuale merita di essere opportunamente sanzionata ex art. 96 c.p.c. In punto di applicabilità della sanzione processuale per responsabilità aggravata, va osservato che tale comportamento puo' essere sanzionato non solo su richiesta di parte, ma anche d'ufficio ex art. 96 comma 3 c.p.c., cosi come modificato dalla l. 69/09, in considerazione del fatto che con tale riforma il legislatore ha introdotto una forma di punitive damages, tenuto conto del danno arrecato al sistema giudiziario che, inteso nella sua complessità, è già gravato da un numero considerevole di procedimenti pendenti, per cui l'aggravamento del carico complessivo con procedimenti introdotti per finalità strumentali e dilatorie è un comportamento abusivo che merita di essere adeguatamente sanzionato con il pagamento di una somma equitativamente individuata. Tale risarcimento tende a ristorare sia il danno arrecato alla parte ingiustamente coinvolta nel presente procedimento, sia il danno arrecato al sistema giudiziario nel suo complesso per l'aggravio di cause che, tutte insieme, concorrono a formare un numero di procedimenti che ormai da tempo superano quanto si possa esigere in termini di produttività da un singolo Giudice, così che normalmente lo stesso sia impossibilitato a definire la totalità dei procedimenti gravanti sul suo ruolo entro i termini che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo ritiene equi, ovvero tre anni dalla data di iscrizione a ruolo per un procedimento di primo grado così come recepito dal nostro ordinamento con la legge n. 89/2001 cd. Legge Pinto in applicazione dell'art. 6 CEDU Ciò espone, in ultima istanza, lo Stato Italiano a continue sanzioni pecuniarie per la durata irragionevole dei suoi procedimenti giudiziari. Tutto ciò considerato, sanzione equa, anche alla luce del principio di diritto espresso dal Cass. VI, Ord. n. 21570 del 30 novembre 2012, appare essere quella pari al .... delle spese di lite liquidate ai sensi del d.m. n. 55/2014. Tanto premesso ed esposto, ...., come in epigrafe rappresentata e difesa, rassegna le seguenti: CONCLUSIONI Voglia l'Ill.mo Giudice adito rigettare l'opposizione e, per l'effetto, confermare il d.i., dichiarandolo esecutivo. Con vittoria di spese, diritti e compensi del giudizio e con condanna dell'opponente al pagamento di una somma equitativamente determinata, ex art. 96, comma 3, c.p.c.[6]. Offre in comunicazione e deposita in Cancelleria i seguenti documenti: 1) ....; 2) ....; Luogo e data .... Firma Avv. .... PROCURA ALLE LITI (se non viene richiamata quella apposta a margine o in calce al ricorso monitorio) [1] La domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata - che rientra nella competenza funzionale del giudice che è competente a conoscere della domanda principale - attiene esclusivamente al profilo del regolamento delle spese processuali, di talché il suo valore non incide su quello della controversia, non potendo essere cumulato, ex art. 10 c.p.c., con il valore di quella principale, con conseguente sua inidoneità a determinare uno spostamento di competenza, ai sensi e per gli effetti degli artt. 34 e 36 c.p.c. (Cass. III, n. 17704/2013). Il contenuto della comparsa di costituzione e di risposta è disciplinato dall'art. 167 c.p.c. Per le indicazioni da effettuare nel corpo della comparsa deve farsi riferimento all'art. 125 c.p.c. Il convenuto deve costituirsi a mezzo del procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge, almeno settanta giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione, depositando in cancelleria il proprio fascicolo contenente la comparsa di cui all'articolo 167 con la copia della citazione notificata, la procura e i documenti che offre in comunicazione. Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti". In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il codice fiscale, oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv., con modif., dalla l. 15 luglio 2011, n. 111). [3] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall'art. 23, comma 50, d.l. 98/2011, conv. con modif. dalla legge 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, d.l. n. 193/2009 conv. con modif. dalla legge n. 24/2010. [4] A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv., con modif., dalla legge n. 114/2014. L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014, conv. con modif., dalla legge n. 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà». [5] Una parte minoritaria della giurisprudenza reputa inammissibile la domanda ex art. 96 c.p.c. che sia stata formulata solo in sede di precisazione delle conclusioni e, non, quindi, nella prima memoria ex art. 183 comma 6 c.p.c. (Trib. Pescara, 10 dicembre 2015, n. 2200). La prevalente giurisprudenza di merito (Trib. Verona III, 23 gennaio 2015), però, sostiene che tale domanda possa essere avanzata fino alla precisazione delle conclusioni del giudizio in cui si è verificato il fatto generatore di responsabilità, fatto salvo il diritto di chiedere successivamente il ristoro degli ulteriori danni che si fossero verificati in seguito. La Suprema Corte condivide quest'ultimo approccio, evidenziando che la domanda di risarcimento del danno per responsabilità aggravata a norma dell'art. 96, comma 1, c.p.c., non attiene al merito della controversia (i cui termini, con riferimento all'oggetto e alla causa petendi delle domande rispettivamente proposte dalle parti, restano immutati) e, pertanto, può essere formulata per la prima volta anche all'udienza di precisazione delle conclusioni, in quanto la parte istante, sovente, solo al termine dell'istruttoria è in grado di valutarne la fondatezza e/o di determinare l'entità del danno subito (Cass. n. 22957/2012). [6] L'azione di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. non può, di regola, esercitarsi in un giudizio separato ed autonomo rispetto a quello da cui la responsabilità stessa ha origine, salvo che la sua proposizione sia stata preclusa per l'evoluzione propria dello specifico processo da cui detta responsabilità è scaturita, ovvero per ragioni non dipendenti dalla inerzia della parte (Cass. I, n. 10518/2016). La domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. può essere proposta per la prima volta nella fase di gravame solo con riferimento a comportamenti della controparte posti in atto in tale grado del giudizio, quali la colpevole reiterazione di tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero la proposizione di censure la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata in modo da evitare il gravame, e non è soggetta al regime delle preclusioni previste dall'art. 345, comma 1, c.p.c., tutelando un diritto conseguente alla situazione giuridica soggettiva principale dedotta nel processo, strettamente collegato e connesso all'agire od al resistere in giudizio, sicché non può essere esercitato in via di azione autonoma (Cass. VI, n. 1115/2016). In ogni caso, presuppone la totale soccombenza della parte in relazione all'esito del singolo grado di giudizio, aggiungendosi essa, ai sensi dell'art. 96, primo comma, c.p.c., alla condanna alle spese, la quale è, invece, correlata all'esito finale della lite (Cass. I, n. 19583/2013). Con riguardo, invece, a giudizi di cassazione ai fini della responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., l'istanza di condanna «deve essere formulata con una prospettazione della temerarietà della lite riferita a tutti i motivi del ricorso, essendo altrimenti impedito alla Corte l'accertamento complessivo della soccombenza dolosa o gravemente colposa, la quale deve valutarsi riguardo all'esito globale della controversia e, quindi, rispetto al ricorso nella sua interezza; inoltre il ricorso può considerarsi temerario solo allorquando, oltre ad essere erroneo in diritto, sia tale da palesare la consapevolezza della non spettanza del diritto fatto valere, o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormali» (Cass. n. 18859/2015). In ogni caso, la proposizione, nel giudizio di legittimità, di ulteriore domanda ai sensi della medesima disposizione deve riferirsi specificamente ai danni patiti per tale grado di giudizio, da allegarsi con sufficiente analiticità ed autonomia rispetto a quelli già risarciti con la precedente condanna (Cass. III, n. 22812/2013). In definitiva, mentre in primo grado la domanda è volta a sanzionare il merito di un'iniziativa giudiziaria avventata, nel secondo grado, regolato dal principio devolutivo, essa deve specificamente riferirsi alla pretestuosità dell'impugnazione, valutata con riguardo non tanto alle domande proposte, quanto, piuttosto, alla palese e strumentale infondatezza dei motivi dell'appello e, più in generale, alla condotta processuale tenuta dalla parte soccombente nella fase di gravame. La richiesta di condanna per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell'art. 96, comma 2, c.p.c., per l'inizio o il compimento dell'esecuzione forzata in mancanza di titolo esecutivo, originaria o sopravvenuta, a seguito dell'accertamento dell'inesistenza del diritto di procedere in via esecutiva, può essere proposta soltanto al giudice del giudizio di merito nel quale il titolo esecutivo si è formato, ovvero dinanzi al giudice dell'opposizione all'esecuzione e non davanti al giudice dell'opposizione agli atti esecutivi (Cass. n. 1590/2013). Peraltro, mentre l'istanza risarcitoria per la trascrizione ingiusta (relativa ad una domanda poi risultata infondata) va presentata, ai sensi dell'art. 96 c.p.c., allo stesso giudice della causa oggetto di trascrizione, l'azione di risarcimento danni in caso di trascrizione illegittimamente eseguita al di fuori dei presupposti previsti dagli artt. 2652 e 2653 c.c. (ad es., effettuata per un appezzamento di terreno più grande di quello oggetto della controversia) può essere proposta anche in via autonoma ex art. 2043 c.c., che integra uno strumento idoneo ad assicurare una tutela estesa alla colpa lieve (invece esclusa ai sensi dell'art. 96 c.p.c.), commisurata alle maggiori responsabilità dell'autore del fatto, e si giustifica per la diversità dell'oggetto dell'accertamento rispetto al giudizio su cui è intervenuta la trascrizione (Cass. III, n. 16272/2015). CommentoI presupposti del risarcimento del danno in base al terzo comma dell'art. 96 c.p.c. Per quanto la responsabilità processuale aggravata di cui al terzo comma dell'art. 96 si sostanzi, invece, in una forma di danno punitivo teso a scoraggiare l'abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia con la censura di iniziative giudiziarie avventate o meramente dilatorie, il presupposto per l'applicabilità della norma (e, quindi, per la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata) è la presenza (al pari di quanto prescritto per la configurabilità della fattispecie di cui al primo comma), in capo al destinatario della condanna, della mala fede - coscienza dell'infondatezza della domanda - o della colpa grave - carenza della ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta coscienza - (laddove il dolo consiste nella colpevole ignoranza in ordine a detta infondatezza; Cass. III, n. 19285/2016; Cass. III, n. 12413/2016). Più precisamente, la malafede processuale consiste nella consapevolezza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione proposta, oppure nella consapevolezza di agire slealmente abusando del proprio diritto o, ancora, nella consapevolezza di utilizzare lo strumento processuale per scopi estranei ai suoi fini istituzionali. La colpa grave, invece, sussiste quando la parte omette di osservare la benché minima diligenza nella verificazione dei necessari presupposti per la proposizione della domanda giudiziale ovvero per la difesa in giudizio; diligenza che consente di avvedersi dell'infondatezza della propria pretesa e di prevedere le conseguenze dei propri atti. È opportuno evidenziare che, ai fini della configurabilità delle ipotesi tassative disciplinate dal secondo comma (applicabile soltanto per alcuni processi - esecutivi e cautelari - e per alcuni atti processuali - trascrizione della domanda giudiziale o iscrizione dell'ipoteca giudiziale), è sufficiente, invece, la colpa lieve. Ai fini dell'applicabilità dell'art. 96, comma 3, c.p.c., la mala fede o la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, al fine di contemperare le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso con la tutela del diritto di azione, suscettibile di essere irragionevolmente leso da danni punitivi non proporzionati (Cass. sez. lav., n. 7726/2016). Tuttavia, il meccanismo introdotto dall'art. 45, comma 12, della l. n. 69/2009, è sottratto, a differenza dell'ipotesi di cui all'art. 96, comma 1, alla rigorosa prova del danno, essendo lo stesso condizionato unicamente all'accertamento di una condotta di grave negligenza o, addirittura, malafede processuale della parte, con la conseguenza che la relativa somma è irrogabile anche in assenza di un pregiudizio effettivamente subito dalla parte a favore della quale è pronunciata la condanna. Inoltre, la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata ha natura sanzionatoria (volta a scoraggiare condotte di abuso del processo) ed officiosa (così come l'istituto disciplinato dal primo comma), non corrispondendo ad un diritto di azione della parte vittoriosa. La sanzione pecuniaria, infine, presuppone una condanna alle spese. Secondo la Suprema Corte, «non vi è alternatività ma cumulabilità tra il comma 1 e 3 dell'art. 96 c.p.c., potendo, astrattamente, il giudice pronunciare, sussistendone le rispettive condizioni, la condanna, in forza di entrambe le disposizioni di legge, applicate cumulativamente, così come desumibile dalla locuzione “altresì”, di cui al comma 3, essendo la condanna per responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, commi 1 e 3, c.p.c., ancorata a presupposti parzialmente differenti, dovendo, tuttavia, il giudice evitare duplicazioni risarcitorie, ristorando il medesimo pregiudizio due volte» (Cass. n. 4925/2013). Quantificazione del danno Nella normalità dei casi e secondo l'id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali (quali quelli di essere costretti a contrastare una pretestuosa iniziativa dell'avversario sovente in una sede diversa da quella voluta dal legislatore e, per di più, non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente; Cass. n. 163/1989), causano ex se anche danni di natura psicologica (Cass. S.U., n. 26972/2008, Cass. S.U., n. 26973/2008, Cass. S.U., n. 26974/2008, Cass. S.U., n. 26975/2008), che per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa (Cass. n. 24645/2007; v. anche Cass. n. 10606/2010). Ciò in quanto il processo impegna una diversa organizzazione della «agenda» della nostra vita (contatti con il difensore, discussioni in famiglia, tempi processuali che vengono a scandire la vita, fastidiose lettere della controparte, lunghe attese presso gli studi professionali, spese dirottate da attività piacevoli a parcelle più o meno consistenti, ecc.). Circa il quantum liquidabile, in termini generali, si può fare riferimento sia a nozioni di comune esperienza, tra cui il pregiudizio che la controparte subisce per il solo fatto di essere stata costretta a contrastare un'ingiustificata iniziativa dell'avversario, sia a ciò che non sia compensato, sul piano strettamente economico, dal rimborso delle spese e degli onorari del procedimento (Cass. S.U. ord., n. 16/2000). Per Cass. n. 21570/2012, si impone al giudice di osservare un criterio equitativo, in applicazione del quale la responsabilità patrimoniale della parte in mala fede ben può essere parametrata sull'importo (o su un multiplo) delle spese processuali, sempre che sia rispettato un limite della ragionevolezza. La giurisprudenza di merito prevalente è favorevole a questa impostazione (nel senso che occorre parametrare l'entità della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. all'entità delle spese di lite liquidate, Trib. Padova, ord. 16 gennaio 2014, Trib. Santa Maria Capua Vetere, ord. 23 dicembre 2013, Trib. Reggio Emilia 25 settembre 2012). In difetto di esplicite indicazioni legislative, la somma di cui all'art. 96, comma 3, c.p.c. può essere ragionevolmente liquidata altresì ricorrendo al parametro fissato dall'art. 2-bis, l. n. 89/2001, che all'uopo stabilisce quale criterio applicativo di equa riparazione quello di un importo pecuniario compreso nel range tra 500 ed 1.500 per ogni anno di durata eccedente il termine di ragionevole durata processuale, tenendo all'uopo conto del comportamento assunto dalle parti, nonché della natura degli interessi coinvolti ed il valore, oltre che della rilevanza della causa (Trib. Modena, 6 dicembre 2012; Trib Modena, 15 febbraio 2013, n. 217; Trib. Napoli Nord 21 luglio 2014; Trib. Savona 24 marzo 2014). Un minoritario orientamento ritiene che la condanna debba essere quantificata come percentuale del capitale riconosciuto alla parte vittoriosa o richiesto dalla parte soccombente (Trib. Milano 27 giugno 2015, Trib. Brescia 15 gennaio 2014, Trib. Lodi 4 marzo 2013, Trib. Milano 4 dicembre 2012). In conclusione, l'ammontare della somma deve essere proporzionato: 1) allo stato soggettivo del soccombente (dolo o colpa grave); 2) alla qualità del responsabile; 3) alla importanza della misura cautelare o esecutiva di cui si discute; 4) alla forza ed al potere economico del responsabile; 5) alla condotta processuale del convenuto. La limitata durata del processo, pur non escludendo in astratto l'applicabilità della norma in esame, assume tuttavia rilievo in sede di quantificazione della condanna (Trib. Verona 19 giugno 2014). La giurisprudenza ha ritenuto ad esempio risarcibili i seguenti danni: — il dispendio di tempo ed energie impiegati per i colloqui col proprio difensore e per l'approntamento delle proprie difese», anche in termini di temporaneo abbandono del proprio lavoro (Trib. Roma 9 ottobre 1996); — il discredito commerciale o la lesione dell'immagine professionale patiti per la temeraria azione di controparte (si pensi ad un ricorso di fallimento temerariamente proposto); — nell'ottica del danno non patrimoniale, l'apprensione connessa all'esito del giudizio e i patemi non qualificabili come “normali” (cioè come frutto di una normale dialettica processuale), ma ampliati da una subita aggressione con una lite del tutto temeraria (Trib. Milano, VIII, 22 marzo 2006, n. 3662). Con riferimento alla fattispecie di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c., secondo una tesi, la condanna va proporzionata al valore della causa, e in particolare alla somma oggetto di domanda (Trib. Lodi 4 marzo 2013). La tesi in esame è contestata da chi evidenzia che difetta ogni riferimento alla percentuale del credito da impiegare per quantificare la condanna; in secondo luogo, potrebbe pregiudicare la funzione sanzionatoria della norma, soprattutto con riferimento alle cause di modesto o modestissimo valore economico. Secondo altra impostazione, più ricorrente, la condanna può essere parametrata ai criteri fissati dall'art. 2-bis, l. n. 89/2001 che stabilisce l'indennizzo per equa riparazione per l'eccessiva durata del processo in un importo pecuniario compreso tra Euro 500 ed Euro 1.500 per ogni anno di durata che eccede il termine ragionevole di durata del processo (Trib. Napoli, 24 settembre 2014). Tale orientamento è tuttavia criticato da chi evidenzia che la durata processuale può dipendere anche da fattori non causalmente riconducibili all'abuso, come, ad esempio, la mole complessiva del ruolo del giudice. Secondo tesi diffusa in giurisprudenza, la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. va parametrata sulle spese di lite liquidate dal giudice, accessori esclusi, e in particolare in una frazione delle spese, o nella misura stessa delle spese, o in un multiplo delle spese liquidate (ex multis, Trib. Padova, ord. 16 gennaio 2014; Cass. VI, n. 21570/2012, ha condiviso la decisione di merito che aveva condannato il soccombente a pagare una somma pari al triplo di quanto liquidato per diritti e onorari). Casistica Integra una ipotesi di abuso del processo, ad esempio, come tale sanzionabile ai sensi dell'art. 96 c.p.c. in commento, l'azione proposta da una parte sulla base di argomentazioni giuridiche ampiamente esaminate nei precedenti gradi di giudizio e rigettate, successivamente riproposte senza modifiche o integrazioni; analogamente, agisce con condotta sleale e scorretta, quindi abusiva, la parte convenuta che, chiamata in giudizio con ricorso sommario, presenti eccezioni e domande riconvenzionali manifestamente infondate al solo fine di ottenere la conversione del rito semplificato in rito ordinario. Parimenti, la proposizione di un'opposizione a decreto ingiuntivo meramente dilatoria costituisce abuso del processo. A tal ultimo riguardo, la pretestuosità dell'opposizione a decreto ingiuntivo ed il fine palesemente dilatorio della stessa sono evincibili non solo dalla genericità delle eccezioni sollevate in citazione, ma anche dalla fissazione della prima udienza a considerevole distanza di tempo dalla notifica dell'atto danno ragione della condanna dell'opponente (Trib. Napoli II, 11 marzo 2016, n. 3214). Trib. Milano IV, 2 dicembre 2014, n. 1428, ha esercitato il potere officioso previsto dall'art. 96, comma 3, c.p.c. in un caso in cui il carattere dilatorio dell'opposizione era desumibile dal concorso dei seguenti indici: un atteggiamento processuale dell'opponente di notificare con udienza fissata a quasi sei mesi di distanza circa dalla citazione; una scarna citazione accompagnata da documentazione praticamente inesistente, e non corredata da alcuna istanza istruttoria; la successiva articolazione di una serie di mezzi istruttori totalmente inammissibili. Sempre con riferimento all'opposizione a decreto ingiuntivo deve segnalarsi l'applicazione della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. in caso di disconoscimento pretestuoso della sottoscrizione apposta su un documento; disconoscimento contraddetto dagli esiti della perizia grafologica disposta (tra i tanti, in questo senso, Trib. Napoli Nord 24 settembre 2014; Trib. Lodi 4 aprile 2013; Trib. Monza 9 gennaio 2013). Costituiscono evidenti indici del carattere dilatorio della resistenza in giudizio (da valutare secondo un criterio di prognosi postuma) e sintomi, quantomeno, di una grave negligenza nell'utilizzo degli strumenti processuali l'atteggiamento processuale di parte convenuta, consistito nel sollevare generiche eccezioni senza la produzione di alcun documento rilevante, e la successiva condotta di non depositare memoria alcuna, nonostante la espressa richiesta concessione dei termini di legge (Trib. Milano, IV, 20 marzo 2014, n. 3900); il mancato uso di un minimo di diligenza, l'infondatezza delle proprie tesi, ovvero il carattere irrituale o fraudolento dei mezzi adoperati per agire o resistere in giudizio (Trib. Messina II, 14 marzo 2014, n. 541); l'aver agito in riconvenzionale in modo manifestamente temerario, senza un minimo di diligenza, negando un titolo (comodato) che, invece, stragiudizialmente aveva espressamente riconosciuto, ed affermando una pretesa (quella relativa all'acquisto per usucapione) incompatibile con il contegno tenuto prima dell'instaurazione della lite (Trib. Bari III, 5 marzo 2014, n. 1167). In genere, nel caso di impugnazione manifestamente infondata e avente carattere strumentale (essenzialmente volta ad impedire il passaggio in giudicato della pronuncia impugnata), il soccombente deve essere condannato al risarcimento del danno per lite temeraria (Cass. VI, n. 2089/2014). In particolare, abuso con colpa grave deve riscontrarsi in una impugnazione che travisi un contenuto chiaro e lineare del provvedimento impugnato, attribuendo ad esso un contenuto diverso per sostenere la propria tesi di impugnante; ed ancora, deve riconoscersi un abuso con mala fede o colpa grave nel caso in cui, senza alcun dubbio, l'impugnazione venga utilizzata per una funzione diversa da quella che il legislatore le affida. Così avviene, per esempio, qualora si presenti una impugnazione esclusivamente di merito dinanzi al giudice di legittimità (cfr., in quest'ultimo senso, Cass. VI, ord. n. 3376/2016). Da ultimo, occorre segnalare che Corte cost. n. 152/2016, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 96, comma 3, c.p.c., censurato, per violazione degli artt. 3,24 e 111 Cost., nella parte in cui dispone che in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore della controparte, anziché a favore dell'Erario. La disposizione censurata ha natura non risarcitoria, ma, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive. La norma fa riferimento alla condanna al «pagamento di una somma», segnando così una netta differenza terminologica rispetto al «risarcimento dei danni», oggetto della condanna di cui ai primi due commi dell'art. 96 c.p.c.; e la sua adottabilità «anche d'ufficio» la sottrae all'impulso di parte e ne conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende quello della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente pubblicistici. Ciò posto, la ragionevolezza della soluzione auspicata dal rimettente, secondo il quale la condanna dovrebbe essere disposta a favore dello Stato, non comporta, però, la irragionevolezza della diversa soluzione adottata dal legislatore, e tantomeno ne evidenzia quel livello di manifesta irragionevolezza od arbitrarietà che unicamente consente il sindacato di legittimità costituzionale in ordine all'esercizio della discrezionalità legislativa in tema di disciplina di istituti processuali, risultando la soluzione prescelta plausibilmente ricollegabile all'obiettivo di assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna, sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico. L'istituto così modulato è suscettibile di rispondere, peraltro, anche ad una concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata anch'essa da una temeraria, o comunque ingiustificata, chiamata in giudizio) nelle, non infrequenti, ipotesi in cui sia per essa difficile provare l'an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento di cui ai primi due commi dell'art. 96 c.p.c. di una siffatta condotta (ord. Corte cost. n. 435/2008; Corte cost. n. 141/2011; Corte cost. n. 138/2012). Di particolare rilievo è la recente ordinanza della Cass., ord. n. 21943/2018, secondo cui la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. configura una sanzione di carattere pubblicistico autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata di cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo e con queste cumulabili, volta al contenimento dell'abuso dello strumento processuale: la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì una condotta oggettivamente valutabile alla stregua dell'”abuso del processo”, quale l'aver agito o resistito pretestuosamente, e cioè nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione. |