Ricorso per cassazione avverso sentenza di condanna per lite temeraria. Condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata per lite temerariaInquadramentoSecondo l'orientamento invalso sinora nella giurisprudenza di legittimità, la Corte d'appello italiana, alla quale è richiesto il riconoscimento di una sentenza straniera di condanna al pagamento di danni punitivi (punitive damages), deve controllare i criteri seguiti dal giudice straniero per qualificare la natura della responsabilità e le relative voci di danno, al fine di evincere la causa giustificatrice dell'attribuzione patrimoniale disposta a favore della parte vittoriosa. Ove nel corso di tale verifica - ritenuta necessaria ai fini del controllo di compatibilità della sentenza estera con l'ordine pubblico italiano - la Corte d'appello rilevasse una causa di attribuzione patrimoniale a carattere punitivo (e non compensativo), la decisione straniera non sarebbe riconoscibile. Si ritiene, in particolare, che anche il solo dubbio circa l'esistenza di una tale sanzione debba indurre la Corte d'appello a negare il riconoscimento. La funzione della responsabilità civile, infatti, privata di ogni componente morale, appare concentrare la sua attenzione unicamente sulla vittima, al fine di ristabilire lo status quo anteriore al danno, disinteressandosi completamente dell'autore dell'illecito e delle caratteristiche della sua condotta. La Prima Sezione della Suprema Corte, intravedendo delle aperture anche nel tessuto normativo, ha rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione, ritenuta di massima di particolare importanza, della riconoscibilità, o meno (per contrasto con l'ordine pubblico), delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi. Nel caso analizzato, un soggetto condannato in appello per lite temeraria, ai sensi del terzo comma dell'art. 96 c.p.c., deduce che tra i presupposti di applicabilità di tale disposizione in esame vi è che la mala fede o la colpa grave coinvolgano l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, laddove nella fattispecie solo uno tra i molteplici motivi di impugnazione era stato reputato “francamente temerario”. FormulaSUPREMA CORTE DI CASSAZIONE RICORSO PER CASSAZIONE [1] avverso la sentenza n. .... emessa dal .... di .... in data .... e notificata in data .... oppure, se la sentenza non è stata notificata, pubblicata in data .... proposto da Soc. ...., C.F. n. .... [2], in persona del legale rappresentante p.t., con sede in ...., alla via .... n. .... elettivamente domiciliato in Roma, alla via .... n. ...., presso lo studio dell'Avv. ...., C.F. ...., che lo rappresenta e difende per procura ...., e che dichiara di voler ricevere le comunicazioni da parte della Cancelleria al numero telefax ....o al seguente indirizzo di posta elettronica certificata [3]: ...., CONTRO ...., residente in ....via ....n. ....; * * * Il Tribunale di ...., adito da ...., accolse il ricorso da costui proposto nei confronti della datrice di lavoro Soc. .... volto alla condanna al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno in misura pari al differenziale delle retribuzioni tra quelle percepite e quelle percipiende se non fosse stato collocato illegittimamente in CIGS tra il ....ed il .... A seguito di gravame della società, la Corte di Appello di ...., con sentenza del ...., respingeva l'impugnazione, condannando l'appellante al pagamento delle spese del grado nonché, ai sensi dell'art. 96 c.p.c., comma 3, della somma equitativamente determinata in Euro .... La Corte di merito considerava, infatti, “manifestamente infondato e temerario” il motivo di appello con cui la società ribadiva l'improponibilità della domanda in ragione di ...., atteso che ....; IN DIRITTO Il presente ricorso è fondato sul seguente motivo: violazione o falsa applicazione dell'art. 96 c.p.c., comma 3, per avere la Corte territoriale condannato la società al pagamento di Euro .... per lite temeraria senza aver verificato in concreto la mala fede o la colpa grave, per di più analizzando solo uno dei motivi di gravame e non anche l'atto di appello nel suo complesso. Invero, la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. necessita dell'accertamento della mala fede o della colpa grave della parte soccombente, non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sè rimproverabile (Cass. n. 21570/ 2012; Cass. n. 24546/2014; Cass. n. 27354/2014; Cass. n. 1115/2016). L'applicazione della sanzione processuale, parificabile ad una pena pecuniaria, è indipendente sia dalla domanda della parte, sia dalla prova del danno casualmente derivato all'avversario, essendo collegata ad una iniziativa anche d'ufficio del giudice e rimessa alla sua discrezionalità (c.f.r. Cass. n. 3003/ 2014). Discrezionalità, tuttavia, non significa che non possano essere sindacati i presupposti per la sua applicazione, anche in ordine all'accertamento effettuato dal giudice di merito circa la sussistenza della mala fede o della colpa grave (v. Cass. n. 327/2010). Va ribadito che la temerarietà della lite può essere in concrete circostanze ravvisata nella coscienza dell'infondatezza della domanda (mala fede) o nella carenza della ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta coscienza (colpa grave). Quest'ultima, infatti, si distingue dal dolo, che presuppone la coscienza dell'infondatezza della domanda, perché consiste nella colpevole ignoranza in ordine a detta infondatezza, vale a dire, per quanto riguarda il giudizio d'appello, nella colpevole insistenza in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero in ragioni di censura della prima sentenza, la cui inconsistenza giuridica ben avrebbe potuto essere apprezzata da parte dell'appellante, tanto da evitare appunto il gravame (ancora Cass. n. 24546/2014, cit.). La Corte territoriale, in assenza una specifica indagine sulla ricorrenza di tale elemento soggettivo, ha indirettamente tratto la convinzione della colpa grave della società appellante dalla circostanza che, tra i molteplici motivi di impugnazione, uno fra essi era da ritenersi “francamente temerario”. Invece, tra i presupposti di applicabilità della disposizione in esame vi è che la mala fede o la colpa grave coinvolgano l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, di modo che si possa considerare meritevole di sanzione punitiva l'abuso dello strumento processuale in sè, anche a prescindere dal danno procurato all'avversario e da una richiesta di questi; tanto per opportuno contemperamento tra le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso e strumentale, che chiaramente animano l'introduzione dell'art. 96, comma 3, c.p.c. e la tutela del diritto di azione di rilevo costituzionale, che potrebbe essere irragionevolmente leso dalla inflizione di danni punitivi non proporzionati. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere su questo punto cassata. Il ricorso è fondato sui seguenti atti processuali e sui seguenti documenti ....che si allegano. Tutto ciò premesso, nell'interesse del Sig. ....si CONCLUDE affinché la Suprema Corte di Cassazione voglia cassare la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, escludere la condanna al risarcimento del danno per lite temeraria; con vittoria di spese processuali. Si depositano i seguenti documenti: 1) copia autentica della sentenza impugnata; 2) richiesta di trasmissione alla Corte di Cassazione del fascicolo d'ufficio; 3) documenti .... Si depositano, inoltre, quattro copie in carta libera del presente ricorso e della predetta sentenza. Ai fini del versamento del contributo unificato per le spese di giustizia dichiara che il valore della causa è di Euro .... Luogo e data .... Firma Avv. .... PROCURA ALLE LITI Il presente modello di ricorso in Cassazione è corrispondente al modello predisposto dalla Corte Suprema di Cassazione, dalla Procura Generale della Corte di Cassazione, dall'Avvocatura Generale dello Stato e dal Consiglio Nazionale Forense che il 1° marzo 2023 hanno sottoscritto un nuovo “Protocollo d'intesa sul processo civile in Cassazione", fornendo indicazioni sulle regole di redazione e sul nuovo schema di ricorso in Cassazione. Il ricorso deve strutturarsi nei seguenti paragrafi: --a) sentenza impugnata, estremi del provvedimento impugnato (Autorità giudiziaria che lo ha emesso, codice ufficio, Sezione, numero del provvedimento, data della decisione, data della pubblicazione, data della notifica se notificato); --b) codice materia correlato al codice-oggetto del giudizio di merito (ad eccezione del giudizio tributario), secondo le disposizioni riportate sul sito della Corte di cassazione ed allegate al presente protocollo (v., All. n. I), al fine della corretta assegnazione del ricorso alla Sezione tabellarmente competente; --c) valore della controversia, specificazione del valore della controversia ai fini della determinazione del contributo unificato; d) parole chiave, massimo 10 ( dieci) parole, che descrivano sinteticamente la materia oggetto del giudizio; --e) sintesi dei motivi del ricorso (in non più di alcune righe per ciascuno di essi e contrassegnandoli numericamente), mediante la specifica indicazione, per ciascun motivo, delle norme di legge che la parte ricorrente ritenga siano state violate dal provvedimento impugnato e delle questioni trattate. Nella sintesi dovrà essere indicato per ciascun motivo anche il numero della pagina ove inizia lo svolgimento delle relative argomentazioni a sostegno nel prosieguo del ricorso, eventualmente inserendo il link di invio diretto alla pagina di riferimento; --f) svolgimento del processo, esposizione, di regola, in massimo 5 pagine, del fatto processuale in modo funzionale alla chiara percepibilità delle ragioni poste a fondamento delle censure sviluppate nella parte motiva; --g) motivi di impugnazione, argomenti a sostegno delle censure già sinteticamente indicate nella parte denominata “sintesi dei motivi”. L'esposizione deve rispondere al criterio di specificità e di concentrazione dei motivi e deve essere contenuta, di regola, nel limite massimo di 30 pagine. Per ciascuno dei motivi devono essere indicati gli atti processuali, i documenti, i contratti o gli accordi collettivi sui quali il motivo si fonda, illustrandone il contenuto rilevante (eventualmente inserendo apposito link); --h) conclusioni, provvedimento richiesto (ad esempio: cassazione con rinvio, cassazione senza rinvio con decisione di merito, ecc.). Sono state dettate disposizione in tema di: documenti da depositare ai sensi dell'art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c. Atti e/o documenti espressamente indicati in relazione a ciascun motivo, elencati secondo un ordine numerico progressivo .I relativi file vanno denominati utilizzando la stessa nomenclatura e numerazione utilizzate nell'elenco caratteri. Per facilitare la lettura, si raccomanda di utilizzare caratteri di tipo corrente e di dimensioni di almeno 12 pt nel testo, con interlinea 1,5 e margini orizzontali e verticali di almeno cm. 2,5; regole di redazione dei controricorsi e ricorsi incidentali. Tutte le indicazioni relative al ricorso, comprese quelle sulle misure dimensionali e i caratteri, si estendono, per quanto compatibili, ai controricorsi. In particolare, per quanto attiene alla sintesi dei motivi, sarà opportuna una sintesi degli argomenti difensivi correlati ai singoli motivi di ricorso (“contromotivi”). Analogamente, sarà opportuno indicare, in relazione a ciascun motivo del ricorso avversario, gli eventuali atti, documenti o contratti collettivi su cui si fonda la difesa. Qualora il controricorso contenga anche un ricorso incidentale, si applicano integralmente le previsioni dettate per i ricorsi; di memorie illustrative. Le memorie non devono superare, di regola, le 15 pagine, con l'osservanza delle raccomandazioni sull'uso dei caratteri previsti per i ricorsi. Sono stati anche forniti chiarimenti sulla presentazione del ricorso in Cassazione. Il mancato rispetto dei limiti dimensionali e delle ulteriori indicazioni sin qui previste non comporta l'inammissibilità o l'improcedibilità del ricorso (e degli altri atti difensivi or ora citati), salvo che ciò non sia espressamente previsto dalla legge. Nel caso che per la loro particolare complessità le questioni da trattare non appaiano ragionevolmente comprimibili negli spazi dimensionali indicati, dovranno essere esposte specificamente, nell'ambito del medesimo ricorso (o atto difensivo), le ragioni per le quali sia risultato necessario scrivere di più. La presentazione di un ricorso incidentale, nel contesto del controricorso, costituisce di per sé ragione giustificatrice di un ragionevole superamento dei limiti dimensionali fissati. L'eventuale riscontrata e motivata infondatezza delle motivazioni addotte per il superamento dei limiti dimensionali indicati, pur non comportando inammissibilità del ricorso (o atto difensivo), può essere valutata ai fini della liquidazione delle spese. Dai limiti dimensionali sono esclusi: a) l'intestazione; b) l'indicazione delle parti processuali, del provvedimento impugnato, dell'oggetto del giudizio, del valore della controversia, della sintesi dei motivi e delle conclusioni; c) l'elenco degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso; d) la procura in calce; e) la relazione di notificazione. L'uso di particolari tecniche di redazione degli atti (in particolare, quando consentano la ricerca testuale all'interno dell'atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all'interno dell'atto), tali da agevolarne la consultazione e la fruizione al magistrato e alle altre parti del processo, comporta l‘aumento del compenso professionale, ai sensi dell'art. 4, comma 1-bis, del d.m. 10 marzo 2014, n. 55. In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il C.F., oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv., con modif., dalla l. 15 luglio 2011, n. 111). [2] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall'art. 23, comma 50, d.l. 98/2011, conv. con modif. dalla legge n. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, d.l. n. 193/2009 conv. con modif. dalla legge n. 24/2010. [3] A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3-bis, d.P.R. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. 90/2014 conv., con modif., dalla legge 114/2014. L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3 bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014, conv. con modif., dalla legge n. 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà». CommentoL'orientamento giurisprudenziale in Italia Con l'ordinanza interlocutoria n. 9978 del 16 maggio 2016, la Prima Sezione della Cassazione ha analizzato il caso di una richiesta di riconoscimento della esecutività in Italia di tre sentenze (passate in giudicato), pronunciate negli Stati Uniti d'America, di condanna di una società produttrice di caschi a manlevare altra società, che aveva provveduto a rivenderli, di quanto quest'ultima aveva corrisposto al danneggiato, a titolo di indennizzo, all'esito ed in esecuzione di una transazione (perfezionata nel corso di una causa risarcitoria intentata dalla vittima). La produttrice, che già in appello aveva denunciato l'avvenuta comminatoria di danni punitivi (cc.dd. punitive damages), con il ricorso per cassazione lamentava, soprattutto, la violazione dell'art. 64, lettere b) e g), della l. 31 maggio 1995, n. 218, concentrando l'attenzione sulla totale omissione dei criteri seguiti per la determinazione del danno e, comunque, il quantum abnorme rispetto ai parametri italiani, circostanze, queste, che, secondo il suo assunto, avrebbero denotato la natura punitiva del risarcimento posto a suo carico. La sezione adìta aveva sottoposto alle Sezioni Unite la questione concernente la possibilità di riconoscere la natura sanzionatoria (o punitiva) al rimedio risarcitorio, in un contesto sociale, normativo e giurisprudenziale in cui finora è stato allo stesso attribuita una funzione solo compensativa (o reintegratoria o riparatoria). Cass. S.U., n. 16601/2017, ha enunciato il seguente principio di diritto: «Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è, quindi, ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve, però, corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità con l'ordine pubblico». Già in passato Cass. III, n. 1183/2007, aveva affermato che restano irrilevanti, ai fini del risarcimento, la condotta del danneggiante, lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell'obbligato. Si è al cospetto di un vero e proprio cd. leading case in cui la Corte aveva ritenuto che la clausola penale non ha natura e finalità punitive, assolvendo alla funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria, tanto è vero che, qualora l'ammontare della clausola penale venga a configurare, secondo l'apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso od uno sconfinamento dell'autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotto. È importante chiarire che l'istituto nordamericano, incompatibile con l'ordinamento italiano, dei cc.dd. danni punitivi (“punitive damages”), non è riferibile, fra l'altro, alla risarcibilità dei danni non patrimoniali e morali e che, nel nostro ordinamento, la risarcibilità del danno è sempre tendenzialmente (sul punto, si rinvia alla formula dedicata ai Danni-conseguenza e danni in re ipsa) condizionata all'accertamento delle sofferenze o delle lesioni inferte dall'illecita condotta altrui e non può considerarsi provata in re ipsa. In quest'ottica, la liquidazione di una somma ingiustificatamente sproporzionata (per eccesso) rispetto al danno in concreto subìto (e, a maggior ragione, rispetto al pregiudizio invocato) integra gli estremi di un indizio della natura punitiva del ristoro riconosciuto. Più di recente Cass. I, n. 1781/2012 (conf. Cass. n. 7613/2015; e, sia pure in parte, Cass. n. 15814/2008) ha ribadito che, nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non é riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive - restando estranea al sistema l'idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta -, ma in relazione all'effettivo pregiudizio subìto dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l'arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all'altro. I parametri della gravità della lesione e della serietà del danno I giudici di merito, nella verifica della contrarietà della sentenza straniera all'ordine pubblico interno, non si devono affidare al mero riscontro della compatibilità dell'intero ammontare della condanna con la natura e la gravità dei pregiudizi subìti dal danneggiato, senza dar conto della ragionevolezza e proporzionalità di tale somma in rapporto ai criteri risarcitori interni, e, per altro verso, devono conferire rilievo alla mancanza di motivazione nella sentenza da riconoscere, in quanto preclusiva della possibilità di evincere la causa giustificatrice dell'attribuzione e la sua natura. Poiché il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto dall'ordinamento con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso ed, al contempo, lo stesso ordinamento non consente l'arricchimento ove non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro (nemo locupletari potest cum aliena iactura), anche nelle ipotesi per le quali il danno sia ritenuto in re ipsa e trovi la sua causa diretta ed immediata nella situazione illegittima posta in essere dalla controparte, la presunzione attiene alla sola possibilità della sussistenza del danno ma non alla sua effettiva sussistenza e, tanto meno, alla sua entità materiale (Cass. II, n. 9286/2014). Nel solco delle pronunce di San Martino, anche di recente si è ribadito che il danno non patrimoniale risarcibile, pur determinato da una lesione di un diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, tutelato dagli artt. 2 e 21 della Costituzione e dell'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno (Cass. VI, n. 222/2016). Ciò ha consentito di affermare, in un caso in cui era stato invocato il ristoro del danno esistenziale, che l'interruzione della somministrazione di energia elettrica non rientra nell'ambito dei danni non patrimoniali meritevoli di considerazione a questo titolo e che le inefficienze di questo genere degli enti fornitori di servizi essenziali sarebbero indubbiamente meritevoli di sanzione tramite peculiari fattispecie di indennizzo automatico, o introducendo, per i casi più gravi di colpa o negligenza, fattispecie di danni punitivi, sì da sollecitare maggiore attenzione e riguardo per gli interessi del pubblico. In quest'ottica, Cass. III, n. 1766/2014, essendo dipeso l'inconveniente tecnico da eventi atmosferici di particolare intensità, ha sostenuto che la vicenda descritta nel ricorso, pur se indubbiamente fonte di disagio, rientrava fra le contrarietà e gli inconvenienti della vita quotidiana, in relazione ai quali l'ordinamento richiede un certo margine di tolleranza. Le aperture nella giurisprudenza di merito, in dottrina e nel panorama normativo La sanzione costituita dai danni punitivi, di sovente applicata dai tribunali statunitensi, ha, al contempo, una finalità positiva e degli effetti criticabili. Infatti, da un lato, persegue la finalità pubblica di deterrente per evitare azioni od omissioni che possano recare danno ad una serie di soggetti, ma, dall'altro, attribuisce al singolo danneggiato un beneficio ingiustificato per finalità estranee all'ordine pubblico internazionale italiano, con conseguente irrimediabile conflitto con esso e non delibabilità della decisione (in tal senso App. Venezia 15 ottobre 2001, in un caso in cui una sentenza statunitense aveva condannato un soggetto italiano al pagamento di somme per danni “punitivi” per un ammontare di gran lunga esorbitante rispetto al risarcimento dei danni). Vanno, peraltro, segnalate aperture nella giurisprudenza di merito, in dottrina e nel contesto normativo. Quanto ai giudici di merito, si è arrivati a sostenere che le assicurazioni sono tenute a risarcire l'attore a titolo di «danno punitivo», allorquando non si siano prodigate per una definizione stragiudiziale della causa ed abbiano così costretto l'attore ad agire in via giudiziale, con conseguente perdita di tempo e spreco di denaro (Trib. Torre Annunziata 24 febbraio 2000). In un più lontano passato spicca l'indirizzo secondo cui il giudice ordinario civile o penale, che, come è noto, ha la facoltà di determinare l'ammontare del danno risarcibile in via equitativa qualora non sia possibile una precisa quantificazione, nell'uso di tale potere deve tener conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore, pur non potendosi intendere una tale liquidazione quale «danno punitivo» (secondo l'orientamento della giurisprudenza di common law), bensì come applicazione pratica dei criteri di liquidazione previsti dall'art. 18, l. n. 349/ 1986 (Pret. Milano 6 luglio 1989). A ben vedere, nel momento in cui il danno morale veniva riconosciuto quasi automaticamente come conseguenza del riscontrato (e medicamente accertabile) danno alla integrità psico-fisica, si procedeva di fatto al riconoscimento di un danno punitivo. Tanto è vero che la Suprema Corte si era vista costretta, al fine di arginare il fenomeno, a sostenere che gravava sul danneggiato l'onere di provare l'esistenza stessa del danno, ivi compreso quello morale, mediante l'allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova potesse considerarsi in re ipsa, atteso che al risarcimento di detto tipo di danno non potevano in alcun modo riconoscersi finalità meramente punitive (cfr., fra le tante, Cass. n. 12767/1998). Fece molto scalpore, per la notevole diffusione mediatica che ebbe, il caso “Vieri” (dal nome del famoso calciatore che ne rimase coinvolto), in cui il Tribunale di Milano ritenne che l'abusivo controllo del traffico telefonico in entrata e in uscita dalle utenze del personaggio famoso integrasse un fatto illecito, consistente nell'indebita intrusione nella sfera privata altrui, suscettibile di determinare un'innegabile e comprovata sofferenza da parte della vittima. Tenuto conto della durata dell'attività illecita e dell'enorme effetto mediatici) sortito dalla vicenda, il giudice reputò equo, con evidente intento punitivo, liquidare, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, la somma complessiva di euro 1.000.000,00 (Trib. Milano, X, 3 settembre 2012, n. 9749). Avuto riguardo al nostro panorama normativo, l'istituto della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., per la sua natura ibrida, sembra avvicinarsi all'istituto tipico dei sistemi giuridici di common law, in particolare inglese e statunitense, dei punitive (o exemplary) damages (danni punitivi o esemplari, per i quali, in caso di responsabilità extracontrattuale, al danneggiato viene liquidata una somma maggiore rispetto a quella necessaria per ristorare il danno subito, ove si accerti che il danneggiante abbia agito con malice, nozione avvicinabile a quella di dolo, o gross negligence, cioè colpa grave). In particolare, l'art. 96 c.p.c. può trovare applicazione, nella pratica giudiziaria, rispettando entrambe le funzioni cui deve assolvere, sia quella sanzionatoria che quella risarcitoria: la prima è assicurata dalla (possibile) officiosità della condanna e dal fatto che può essere pronunciata in assenza di qualsiasi prova di un danno effettivo; la seconda viene, invece, perseguita, in sede di liquidazione della somma, agganciando la quantificazione ai criteri utilizzati per indennizzare il pregiudizio (sia pure presunto) subìto dalla parte vittoriosa per aver dovuto agire o resistere in giudizio; una simile modalità di quantificazione, mantenendo come criterio guida quello indennitario, dovrebbe anche consentire di evitare che la condanna si trasformi in un indebito arricchimento della parte vittoriosa; i criteri sulla base dei quali commisurare la somma potrebbero essere, oltre al grado di gravità della colpa della parte soccombente, anche il valore della causa e la durata del processo e, in alcuni casi, la natura e l'oggetto della causa (valorizzando, ad esempio, i casi in cui il giudizio abbia coinvolto interessi di carattere personale, otre che meramente economico). Di questo avviso è la Cass. III, n. 19285/2016, secondo cui la responsabilità processuale aggravata si sostanzia in una forma di danno punitivo teso a scoraggiare l'abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia con la censura di iniziative giudiziarie avventate o meramente dilatorie (conf. Cass. sez. lav., n. 7726/2016). Sembra muoversi in questa direzione Corte cost. n. 152/2016, nel momento in cui ha chiarito che l'art. 96, comma 3, c.p.c. risponde ad una funzione sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti. Più di recente Cass. III n. 21943/2018 ha affermato che la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 96 e con queste cumulabile, volta al contenimento dell'abuso dello strumento processuale: la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l'aver agito o resistito pretestuosamente, e cioè nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione. Il provvedimento menzionato si segnala altresì per contenere la condanna d'ufficio di una parte al pagamento in favore della controparte, in aggiunta alle spese di lite, di una somma equitativamente determinata in euro 2.000, pari, all'incirca, in termini di proporzionalità alla metà del massimo di compensi liquidabili in relazione al valore della causa. E così, ai fini della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, può costituire abuso del diritto all'impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all'articolo 360 c.p.c., n. 5, ove sia applicabile, ratione temporis, l'art. 348-ter c.p.c., u.c. che ne esclude la invocabilità. In tali ipotesi, secondo Cass. III, 25 giugno 2019 n. 16898, il ricorso per cassazione integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato soltanto ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione. Con la sentenza Corte cost. n. 139/2019 la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata, in riferimento all'art. 23 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 96, comma 3, c.p.c., nella parte in cui, nel prevedere la condanna, anche d'ufficio, della parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, per lite temeraria, non stabilisce l'entità minima e quella massima della somma oggetto della condanna, poiché la riserva di legge relativa risulta rispettata, avendo la giurisprudenza di legittimità, anche recente, precisato che il rinvio all'equità richiama il criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi, con la conseguenza che la somma a tale titolo irrogabile va rapportata alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa. Anche i provvedimenti ex art. 709-ter c.p.c. sono provvedimenti sanzionatori ed appartengono alla categoria dei danni punitivi, vale a dire strumenti di pressione psicologica sul soggetto obbligato che si adottano al fine di dissuaderlo dal perseverare nel comportamento illegittimo, finalità che, peraltro, condividono con il provvedimento di sequestro, ex art. 156 c.c. Entrambi i provvedimenti possono essere adottati, in caso di inadempimento, a tutela del minore, specie con riferimento alla conservazione dell'ambiente abitativo ed al diritto del minore di non subire al riguardo pressioni psicologiche (Trib. Messina I, 25 settembre 2007). Da ultimo, si discute se l'obbligo di pagare una somma di denaro per la violazione, l'inosservanza o il ritardo nell'esecuzione del giudicato amministrativo (è chiara la similitudine con l'istituto della astreinte disciplinata all'art. 614-bis c.p.c. - del quale l'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., costituirebbe la trasposizione nella sede giudiziale amministrativa -; cfr. altresì gli artt. 140, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 - «Codice del consumo» -, e 18, l. 20 maggio 1970, n. 300 - «Statuto dei lavoratori» -) possa essere ascritto alla categoria dei danni punitivi o debba inquadrarsi tra le sanzioni civili indirette (del secondo avviso sono Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 22 gennaio 2013, n. 26; Cons. St. V, n. 6688/2011; Cons. St. V, n. 2744/2012; T.A.R Lombardia (Milano), III, 24 giugno 2013, n. 1621). Non è, invece, revocabile in dubbio che il ristoro patrimoniale di cui all'art. 614-bis c.p.c. non sia riconducibile alla categoria delle pene private, essendo determinato, nell'an e nel quantum, dal giudice (il giudice, peraltro, può decidere di non comminare la sanzione, quando ciò risulti manifestamente iniquo o quando sussistono altre ragioni ostative) e non dalla parte. Conclusioni De iure condito, la funzione del risarcimento, nel nostro ordinamento, è di natura prioritariamente riparatorio-consolatoria. Almeno allo stato, non trova, pertanto, riconoscimento, nel sistema italiano, la categoria dei cc.dd. punitive damages, tanto è vero che l'intervento risarcitorio è prescritto solo quando siano accertate le concrete perdite di utilità o di valore derivanti da fatto illecito. Da ciò consegue che all'attualità, nel sistema della responsabilità civile, la funzione punitiva-preventiva del risarcimento è solo residuale e, comunque, destinata a rimanere sullo sfondo. Probabilmente solo nell'ambito del danno non patrimoniale ex art. 15 d.lgs. n. 193/2006 - Codice sul trattamento dei dati personali il ruolo marginale della funzione preventiva tende fortemente ad accentuarsi, in quanto la responsabilità civile sembra riconnettersi alla particolare riprovevolezza della condotta (diretta, com'è a pregiudicare la riservatezza), giustificando, in quest'ottica, l'attribuzione, in via accessoria, di una funzione anche deterrente al risarcimento stesso. Qui il giudizio di riprovevolezza della condotta tenuta dal danneggiante consente di riconoscere un risarcimento che sia “over-compensativo” del pregiudizio effettivamente sofferto. Si percepisce un tentativo volto ad allargare le maglie del danno risarcibile, il quale disvela una certa insofferenza verso una quantificazione del risarcimento che appare inadeguata, specialmente laddove ricorrano comportamenti ritenuti immorali o riprovevoli. La questione merita senz'altro l'approfondimento delle Sezioni Unite, perché, se il ragionamento sopra riassunto fosse corretto, allora il trend giurisprudenziale di legittimità relativo alla automatica “incompatibilità” dei danni punitivi con il nostro ordinamento dovrebbe essere ripensato (oltre alla già ricordata Cass. n. 1183/2007, si ricordano Cass. n. 15814/2008; Cass. n. 1781/2012 e Cass. S.U., n. 15350/2015). Senza tralasciare che l'attuale posizione dei giudici di legittimità appare, per certi versi, dissonante rispetto alle aperture dimostrate da altri giudici europei non può essere sottaciuta. Potrebbe privilegiarsi, allora, una soluzione intermedia, quale quella accolta in Germania, in Spagna ed in Francia, in cui si è già ritenuto che la valutazione debba essere fatta caso per caso, limitando l'ingresso (rectius, la riconoscibilità) delle sentenze straniere di danno punitivo solo alle ipotesi in cui la misura della sanzione sia eccessiva. Autorevole dottrina (Scognamiglio), come chiosa ad un articolo, ha così concluso: <<Potrà forse dirsi che una verifica circa la suscettibilità di delibazione di una sentenza recante condanna al risarcimento di danni punitivi largamente imperniata sul criterio dell'effettività, per di più da bilanciare con altri valori o interessi, non è tale da soddisfare l'esigenza di prevedibilità, se non addirittura della calcolabilità, delle decisioni che pure sempre più frequentemente si avverte. Ma forse si tratta soltanto di prendere atto che la conclusione che si è venuta in questa sede argomentando non è che un'ulteriore conferma del fatto che, nel tempo presente, secondo la nota formula di Nicola Lipari, “il diritto vive costitutivamente nelle sue applicazioni”>>. La prova che grava sul ricorrente che deduce una o più violazioni di legge in astratto idonee a determinare il diritto all'indennizzo per un trattamento carcerario disumano e degradante riguarda la misura del danno subito (indicato come equivalente ai giorni di detenzione scontati), per il quale, peraltro, deve indicare elementi di riscontro in ordine al nesso causale sussistente tra l'inadempimento asserito e il danno, anche attivando i poteri d'ufficio del giudice di assumere informazioni, conferiti dall'art. 738 c.p.c. che regola il rito camerale, ove la parte onerata deduca di non essere nella materiale possibilità di allegare prontamente la documentazione attestante il periodo di pena scontata o di fornire più precise indicazioni sui luoghi effettivamente occupati durante la detenzione, sul numero dei detenuti con cui ha condiviso gli spazi e sul regime di detenzione applicato nel corso della pena detentiva (Cass. III, 6 dicembre 2018, n. 31555). A tal proposito, in tema di risarcimento del danno conseguente alla violazione dell'art. 3 Cedu nei confronti di soggetti detenuti o internati, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati da assicurare ad ogni detenuto, dalla superficie lorda della cella devono essere detratte l'area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse. Tra queste ultime va considerato il letto, ove questo assuma la forma e struttura “a castello”, costituendo un arredo fisso e comunque non facilmente amovibile. |