Atto di citazione per risarcimento dei danni da violenza privata/maltrattamenti contro familiari e conviventi

Maria Carolina De Falco

Inquadramento

Con l'atto di citazione in commento, la parte attrice (moglie) chiede la condanna del convenuto (marito) al risarcimento del danno non patrimoniale per illecito endofamiliare, ai sensi dell'art. 2059 c.c., derivante dalla sua condotta trasgressiva posta in essere in aperta e grave violazione di uno o più doveri morali, attraverso continue vessazioni e i giudizi offensivi.

Tali danni, consistendo in pregiudizi di tipo non economico ma personale, e quindi difficilmente quantificabili nel suo esatto ammontare da parte attrice, vengono richiesti in via equitativa, tenendo conto delle circostanze del caso concreto, quali la gravità del fatto, le condizioni soggettive della vittima, l'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d'animo.

Formula

TRIBUNALE DI .... [1]

ATTO DI CITAZIONE

Per ...., nata a .... il ...., residente in .... alla via .... n ...., C.F. .... [2], n. q. di esercente la potestà genitoriale sul minore ...., elettivamente domiciliata [3] in .... alla via .... n. .... presso lo studio dell'Avv. ...., C.F. .... [4] che la rappresenta e difende in virtù di procura in calce del presente atto, il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni al n. di fax .... [5] o all'indirizzo di posta elettronica .... [6], espone quanto segue:

FATTO [7] E DIRITTO:

1. l'istante è vittima, fin dal ...., di continue e sistematiche vessazioni da parte di ...., consistenti soprattutto in provocazioni e di giudizi offensivi nei suoi confronti;

2. il Sig. ...., infatti, si è spesso rivolto alla moglie, sovente anche in pubblico, chiamandola .... e sostenendo che fosse ...., attaccandola quindi sia sotto un profilo estetico che culturale;

3. detta condotta, oltre a costituire una grave violazione dei doveri nascenti dal matrimonio ex art. 143 c.c., configura una persistente violazione anche dei diritti fondamentali della persona umana e in particolare della dignità e della personalità di ...., la cui violazione rileva come fatto generatore della responsabilità aquiliana [8];

4. Ed invero, sostiene la Corte che la mera violazione dei doveri matrimoniali, o anche la pronuncia di addebito di separazione che, ove richiesta, vi consegue, non sono di per sé fonte di responsabilità risarcitoria, dovendo anche sussistere i requisiti richiesti dagli artt. 2043 e 2059 c.c.

Nell'illecito endofamiliare, cioè, il risarcimento del danno non patrimoniale è accordato se la condotta trasgressiva di un coniuge, posta in essere in aperta e grave violazione di uno o più doveri morali (reciproca fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell'interesse della famiglia, coabitazione, contribuzione ai bisogni della famiglia), determina anche l'aggressione ai diritti inviolabili della persona dell'altro coniuge, come la salute fisica o psichica, la sessualità, l'integrità morale, la dignità, l'onore, la reputazione, la privacy, secondo una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. [9].

5. A causa di dette circostanze, la Sig.ra .... ha patito gravi danni alla psiche e alla sfera esistenziale tanto che ella, a seguito delle offese e mortificazioni di cui sopra, ha intrapreso una dieta talmente drastica da sfiorare l'anoressia e da aver bisogno di continua assistenza psicologica per recuperare l'autostima;

6. tali danni, consistendo in pregiudizi di tipo non economico ma personale e quindi difficilmente quantificabili nel suo esatto ammontare da parte attrice, vanno liquidati dal giudice in via equitativa, tenendo conto delle circostanze del caso concreto, quali la gravità del fatto, le condizioni soggettive delle vittima, l'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d'animo [10].

7. Nel caso di specie, tenuto conto che le continue vessazioni e i giudizi offensivi sono stati espressi in pubblico e che ...., il danno non patrimoniale patito dall'istante è sommariamente quantificabile nella somma di Euro ....;

8. con lettera raccomandata del ...., la Sig.ra ...., a mezzo del sottoscritto procuratore costituito, ha invitato il ...., al procedimento di negoziazione assistita [11], ma la richiesta restava inevasa.

Tutto ciò premesso l'attore, come in epigrafe rappresentato, difeso e domiciliato

CITA

il Sig. ...., (C.F. ....), residente in .... via .... n. ...., a comparire innanzi al Tribunale di ...., nell'udienza del ...., ora di rito, dinanzi al Giudice Istruttore che sarà designato ai sensi dell'art. 168-bis c.p.c., con l'invito a costituirsi nel termine di almeno venti giorni prima della suddetta udienza ai sensi e nelle forme stabilite dall'art. 166 c.p.c., con l'avvertimento che la costituzione oltre il suddetto termine implica le decadenze di cui agli artt. 167 e 38 c.p.c. e che, in difetto di costituzione, si procederà in sua contumacia, per sentir accogliere le seguenti

CONCLUSIONI

Voglia il Tribunale adito, respinta ogni contraria istanza ed eccezione, accertare la fondatezza della domanda e, per l'effetto, condannare il convenuto a corrispondere all'attrice, a titolo di risarcimento danni non patrimoniali la somma di Euro ...., quantificata in via indicativa, o comunque la minore o maggiore somma ritenuta equa dall'adito Tribunale, oltre rivalutazione e interessi.

Con vittoria di spese, competenze e onorari del giudizio. Con sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege.

IN VIA ISTRUTTORIA

chiede ammettersi prova testimoniale sui seguenti capitoli di prova e per i testi a fianco di ciascuno indicati:

1) «Vero che il Sig. ....ha più volte chiamato la Sig.ra ....“ ....” in pubblico» - Sig. ....

2) «Vero che la Sig.ra ....ha seguito una dieta molto drastica» - Sig. ....

3) «Vero che la Sig.ra ....ha sofferto di cali di autostima» - Sig. ....

Si allegano:

1) lettera raccomandata a/r ....

2) relazione della Dott.ssa ....

3)

4)

Ai sensi dell'art. 14, comma 2, d.P.R. n. 115/2002 si dichiara che il valore del presente procedimento è di Euro ....

Luogo e data ....

Firma Avv. ....

PROCURA AD LITEM

Nella qualità, conferisco il potere di rappresentanza e difesa, in ogni fase, stato e grado del giudizio ed atti inerenti, conseguenti e successivi, ivi compresa l'eventuale fase esecutiva ed il giudizio di opposizione, all'Avv. ...., ivi compreso il potere di proporre domande riconvenzionali, chiedere provvedimenti cautelari, chiamare terzi in causa, farsi sostituire, transigere, conciliare, abbandonare il giudizio e rilasciare quietanze.

L'autorizzo, ai sensi dell'art. 13 d.l. n. 196/2003, ad utilizzare i dati personali per la difesa dei miei diritti e per il perseguimento delle finalità di cui al mandato, nonché a comunicare ai Colleghi i dati con l'obbligo di rispettare il segreto professionale e di diffonderli esclusivamente nei limiti strettamente pertinenti all'incarico conferitoLe.

Ratifico sin d'ora il Suo operato e quello di eventuali Suoi sostituti.

Eleggo domicilio presso il Suo studio in ....(indicare la città),via ....n ....

Dichiaro di essere stato informato ai sensi dell'art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 28/2010 della possibilità di ricorrere al procedimento di mediazione ivi previsto e dei benefici fiscali di cui agli artt. 17 e 20 del medesimo decreto, come da specifico atto separato.

Luogo e data ....

Sig. ........

È autentica

Firma Avv. ....

[1] Il foro stabilito dall'art. 20 c.p.c., per le cause relative a diritti di obbligazione concorre con i fori generali di cui agli art. 18 e 19 c.p.c. e l'attore può liberamente scegliere di adire uno dei due fori generali, oppure il foro facoltativo dell'art. 20 c.p.c. La norma - infatti - stabilisce che per le cause relative a diritti di obbligazione (tra le quali rientrano anche le obbligazioni scaturenti da responsabilità extracontrattuale) è anche competente il giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi la obbligazione. In particolare, in tema di obbligazioni nascenti da fatto illecito, l'azione di risarcimento sorge nel luogo in cui l'agente ha posto in essere l'azione produttiva del danno (forum commissi delicti) e in relazione a tale luogo deve essere determinata la competenza territoriale ex art. 20 c.p.c. (Cass. II, n. 13223/2014).

[2] In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il codice fiscale, oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., dalla l. n. 111/2011).

[3] L'elezione di domicilio nel Comune in cui ha sede il Tribunale adito è obbligatoria: essa individua il luogo legale ove effettuare le comunicazioni e notificazioni inerenti al processo: artt. 165 e 170 c.p.c.

[4] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. come modificato dalla disposizione sopra citata.

[5] L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. come modificato dalla disposizione citata sub nota 2. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla disposizione testè ricordata, «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax .... ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà».

[6] A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv., con modif., dalla l. n. 114/2014.

L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014, conv. con modif., dalla l. n. 114/2014.

[7] L'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragione della domanda dell'attore rappresenta un elemento essenziale della citazione. L'indicazione della causa petendi, e cioè del titolo della domanda, è richiesto dall'art. 163 comma 3, n. 4 c.p.c. Tuttavia solo la mancanza dell'indicazione dei fatti posti a fondamento della domanda produce la nullità della citazione a norma dell'art. 164, comma 4, c.p.c.

[8] Cfr. Cass., n. 5652/2012, Cass., n. 9801/2005.

[9] Cfr. Cass., n. 9801/2005.

[10] Cfr. Cass. n. 208595/2015

[11] È obbligatorio il ricorso alla procedura di negoziazione assistita e costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale) nelle ipotesi in cui la somma pretesa non superi l'importo di 50.000 Euro (art. 3 d.l. n. 132/2014, conv. con modif. in l. n. 162/2014) e dovrà essere prodotta la relativa documentazione. Va, in proposito, ricordato che la negoziazione è prescritta, quando si intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti 50.000 Euro, ad eccezione delle controversie assoggettate alla disciplina della c.d. mediazione obbligatoria (in altri termini, la procedura di negoziazione assistita non opera quando è prevista la mediazione obbligatoria). Ebbene, quest'ultima non è prescritta in subiecta materia, se si fa eccezione per il risarcimento del danno derivante da responsabilità medica. In ogni caso, la negoziazione non è condizione di procedibilità della domanda giudiziale (e, quindi, è sempre e solo volontaria) per le controversie concernenti obbligazioni contrattuali derivanti da contratti conclusi tra professionisti e consumatori (art. 3 l. n. 162/14).

Commento

La fattispecie incriminatrice contemplata dall'art. 572 c.p. si sostanzia in una serie di reiterati atteggiamenti di violenza, sia fisica che morale tali da integrare una condotta sistematicamente vessatoria nei confronti della persona offesa.

Ai fini della configurabilità del reato si rileva necessario provare sia la sussistenza di tali condotte, che la reiterazione delle stesse, non potendosi sussumere nella previsione incriminatrice della richiamata norma quelle condotte che, seppure violente e minacciose, presentino il carattere della episodicità.

È stato, infatti, puntualizzato dalla giurisprudenza di merito che “Il delitto di maltrattamenti in famiglia, pertanto, deve essere escluso ogni qualvolta, come nel caso di specie, il rapporto tra i coniugi, seppure conflittuale e spesso contrassegnato da insulti reciproci non sia mai stato caratterizzato da maltrattamenti o vessazioni sistematiche, poiché ivi non raggiunta la prova dei profili ontologici del reato contestato. (nella specie la stessa persona offesa ha escluso che vi fossero stati inadempimenti da parte dell'imputato circa gli obblighi di mantenimento del nucleo familiare, ovvero minacce o altre condotte di coartazione nei confronti suoi o dei figli, per cui deve farsi luogo a una pronuncia assolutoria per insussistenza del fatto)” (Trib. Foggia, 19 marzo 2013 n. 141).

Per maltrattamenti si intendono, tra l'altro, sia le aggressioni fisiche, ovvero qualsiasi atto di disprezzo, vilipendio e sopruso, idonei ad incidere sulla integrità psichica ed sul complesso della personalità del soggetto passivo.

Si tratta di reato proprio poiché posto in essere da soggetti qualificati (familiari o soggetti investiti di autorità), e a forma libera, potendosi realizzare attraverso una moltitudine di diversi comportamenti, posti in essere abitualmente.

Sul piano soggettivo l'illecito si caratterizza per un dolo generico in quanto la condotta lesiva attuata, è dettata dalla volontà di assoggettare la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali, appunto in modo abituale.

Sebbene l'art. 572 c.p. inquadri il reato di maltrattamenti in famiglia tra i “delitti contro la famiglia”, in chiave moderna, la dottrina suole collocare la condotta illecita tra i reati contro la persona o, meglio, “contro soggetti deboli”.

L'elemento soggettivo. Il dolo

L'elemento soggettivo del reato si concretizza “nell'inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte” (Cass. pen. VI, n. 6541/2004).

Per la configurabilità del reato di maltrattamenti, l'art. 572 c.p. richiede quale elemento soggettivo il dolo generico, “volto ad instaurare un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità (Cass. pen. VI, n. 39927/2005; Cass. pen. VI, n. 8598/2010).

Ai fini dell'integrazione del reato in questione, è necessaria la coscienza e la volontà dell'agente “di sottoporre i soggetti passivi ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuativo ed abituale” (Cass. pen. VI, n. 1212/2008).

È evidente che la mera pluralità di episodi vessatori, quali percosse, ingiurie o minacce non è di per sé sufficiente a integrare il reato de quo, “qualora manchi un dolo in grado di abbracciare le diverse azioni ed unire i vari episodi di aggressione alla sfera morale e psichica del soggetto passivo” (Cass. pen. VI, n. 14409/2009).

Soggetti attivi e passivi del reato

Il concetto di persona della famiglia, dettato dal disposto del reato in esame, tradizionalmente veniva circoscritto ai coniugi, consanguinei, affini, adottati e adottanti, ma a seguito della revisione dell'art. 572 c.p. la novellata norma, attua un'applicazione estensiva, fino a ricomprendervi ogni consorzio di persone legate da relazioni e consuetudini di vita tali da fare sorgere reciproci rapporti di convivenza, assistenza e solidarietà, com'è ben percepibile dallo stesso testo normativo (modificato dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119) che tutela espressamente anche la persona “comunque convivente”: dunque vi rientrano i soggetti legati da qualsiasi rapporto di parentela, nonché i domestici, a patto che vi sia convivenza e dunque anche del convivente more uxorio.

Invero la legge n. 172 dell'1 ottobre 2012, recante “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale”, conclusa a Lanzarote il 25 ottobre 2007, all'art. 4, comma 1, lett. d), ha novellato l'art. 572 c.p., ora denominato, infatti, “Maltrattamenti contro familiari e conviventi” aggiungendo, dunque, i conviventi nel novero dei soggetti passivi del reato.

La modifica ha interessato il complessivo inasprimento del trattamento sanzionatorio e l'estensione della tutela nei confronti di persone “comunque conviventi, in una prospettiva orientata, per un verso, a valorizzare l'incidenza della relazione intersoggettiva nell'ambito di operatività della fattispecie, e, per altro verso, ad allargare anche ad un rapporto di mera “convivenza” - non necessariamente qualificato dalla particolare natura del legame che ha portato alla sua instaurazione - la rilevanza del rapporto “familiare”, ferme restando le altre relazioni di tipo non propriamente familiare, la cui elencazione è rimasta immutata” (Cass. pen. VI, n. 28603/2013).

Orientamento confermato più volte dalla Suprema Corte, che colloca nelle ipotesi di maltrattamenti in famiglia, “l'intenzione di sottoporre il soggetto passivo a una serie di sofferenze in modo continuo e abituale, ma anche nella sola consapevolezza dell'agente di persistere in un'attività vessatoria e prevaricatrice, già posta in essere altre volte, la quale riveli attraverso l'accettazione dei singoli episodi un'inclinazione della volontà a maltrattare una o più persone conviventi, o sottoposte alla sua cura e custodia” (Cass. VI, n. 17049/2011).

Il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile, nel rapporto tra coniugi, “anche in caso di separazione e di conseguente cessazione della convivenza, purché la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della fattispecie (Cass. pen. VI, n. 49109/2003).

Con la pronuncia n. 26571 del 2 luglio 2008, la VI sezione della Cassazione penale, afferma che del reato di maltrattamenti in famiglia “è responsabile anche il coniuge separato (e quindi non più convivente), autore di reiterate ed offensive manifestazioni di aggressività, attuate per convincere la moglie a riprendere la convivenza.”

A conferma di tale impostazione si veda anche la successiva decisione della Cass. pen. VI, n. 7369/2013, che ha statuito che “il reato di maltrattamenti in famiglia può persistere anche a seguito della cessazione del rapporto di convivenza e, pertanto, ha accolto in parte il ricorso di un uomo condannato ad un monte pena più alto per il sommarsi del reato di maltrattamenti, per il periodo della convivenza, con quelli di ingiuria, minaccia e molestie, per il periodo successivo alla fine della coabitazione. Ragion per cui “laddove l'agente, come nel caso in disamina, perseveri nelle condotte integranti il reato di maltrattamenti, dopo la cessazione della convivenza, senza alcun iato cronologico, si verifica una protrazione dell'arco temporale di esplicazione del reato di cui all'articolo 572 c.p.” .

Condotta del reo

Come chiarito supra, il reato di maltrattamenti in famiglia si configura dalla condotta dell'agente che sottopone il soggetto debole ad atti vessatori reiterati, e tali da cagionare sofferenza, prevaricazione ed umiliazioni quali fonti di uno stato di disagio continuo.

Rilevano infatti, entro tale prospettiva, “non soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni ed umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa arrecati alla sua dignità, che si risolvano nell'inflizione di vere e proprie sofferenze morali” (Cass. pen. VI, n. 4849/2015).

Va precisato che il reato in esame, richiede una condotta reiterata nel tempo che si manifesti con violenza morale e non solo fisica, sicché appare irrilevante il motivo con cui si contesta la presenza di un solo certificato medico attestante una presunta aggressione ai danni della persona offesa (Cass. pen. VI, n. 34405/2011)

.

Per quanto attiene il disagio arrecato dalle vessazioni psicologiche, un'interessante pronuncia della Cassazione ha statuito che “il coniuge che insulta e dileggia la moglie, ricordandole in continuazione precedenti episodi di infedeltà coniugale, è punibile per il reato di maltrattamenti in famiglia.” (Cass. pen. VI, n. 38125/2009).

Sul punto ancora viene affermato che “l'infedeltà ostentata rendeva certa l'esistenza di una condotta dell'imputato reiteratamente e abitualmente prevaricatrice, tendente a umiliare e sottoporre la congiunta a sofferenze fisiche e morali, così da renderle penosa l'esistenza” (Cass. pen. III, n. 40845/2012).

Configura ancora il reato di maltrattamenti in famiglia anche la condotta del marito che dà della mantenuta alla moglie che non lavora in quanto “è stato evidenziato come l'uomo, fin dall'inizio della vita coniugale, era solito offendere la moglie rivolgendosi a lei con epiteti infamanti e umilianti, facendole pesare di essere a suo carico non percependo un proprio reddito, si da instaurare un regime di vita logorante, volto al continuo discredito della moglie annientandone la personalità” ( Cass. pen. VI, n. 24575/2012).

Il reato di maltrattamenti e vessazioni, strettamente si ricollega al reato di violenza sessuale di cui all'art. 609 c.p., “configurabile ogni qualvolta vi sia un costringimento fisico-psichico idoneo ad incidere sulla libertà di autodeterminazione del partner, a nulla rilevando l'esistenza di un rapporto di coppia coniugale o paraconiugale tra le parti, atteso che non esiste all'interno di un tale rapporto un “diritto all'amplesso”, né conseguentemente il potere di esigere o imporre una prestazione sessuale” (Cass. pen. III, n. 14789/2004; Cass. pen. VI, n. 39228/2016).

Maltrattamenti contro minori

Nell'ambito della condotta di maltrattamenti e vessazioni, viene circoscritta anche la c.d. violenza assistita dei minori, consistente in atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale, consumati all'interno della famiglia su figure di riferimento o altre figure affettivamente significative, adulte o minori.

L'esperienza del minore può essere diretta, quando tali atti avvengono nel suo campo percettivo, o indiretta, quando il minorenne ne è a conoscenza e/o ne percepisce gli effetti. La Suprema Corte, ha statuito che “costituisce maltrattamento verso i minori, integrante la condotta di cui all'art. 572 c.p., sottoporre gli stessi ad un clima familiare violento. A tal fine, è necessario che gli atti vessatori si ripetano nel tempo, restando collegati da un nesso di abitualità e da un'unica intenzione criminosa ed in maniera tale da ledere l'integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo” (Cass. pen V, n. 2318/2010).

Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia anche la condotta del genitore che tenga nei confronti del figlio minore “comportamenti iperprotettivi tali da incidere sullo sviluppo psicofisico dello stesso, a prescindere dal fatto che il minore abbia o meno percepito tali comportamenti come un maltrattamento o vi abbia acconsentito” (Cass. pen. V, n. 36503/2011).

Ancora la Corte precisa che integra il delitto di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione la consumazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore “di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l'agente è portatore” (Cass. pen. V, n. 48272/2009).

Il genitore si renderà a sua volta passibile di provvedimenti ablativi della potestà di cui è investita laddove “pur pienamente consapevole dei danni inferti alla personalità psicofisica della prole dalla condotta aggressiva, violenta e vessatoria del convivente, condotta legittimante la decadenza dalla potestà, decida di continuare a convivere con il “partner”, esponendo così la prole ai rischi di sue ulteriori, e quasi certe, manifestazioni aggressive, violente e vessatorie”. (Tribunale minorenni L'Aquila, 7 dicembre 1993).

Assimilabilità delle vessazioni sul lavoro ai maltrattamenti in famiglia

Anche l'ambiente di lavoro può assumere le caratteristiche tipiche dell'ambito endo-familiare (relazioni intense ed abituali, consuetudini di vita tra i soggetti interessati, soggezione di una parte con corrispondente supremazia dell'altra, fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia) - “dunque anche in questo contesto le vessazioni ripetute possono assumere i connotati dei maltrattamenti in famiglia con la conseguente applicazione della disciplina di cui all' articolo 572 c.p. ” (Cass. pen. V, n. 12517/2012).

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto in questione qualora “il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente assume natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.” (Cass. pen. V, n. 28603/2013)

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E comunque affinché possa integrarsi il reato in esame, è richiesto un contesto che “per le caratteristiche peculiari della prestazione lavorativa ovvero per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro - comporti relazioni intense e abituali, una stretta comunanza di vita ovvero una relazione di affidamento del soggetto più debole verso quello rivestito di autorità, assimilabili alle caratteristiche proprie del consorzio familiare. (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso la sussistenza del delitto in parola, per essersi verificate le condotte vessatorie nel contesto di un'articolata realtà aziendale, caratterizzata da uno stabilimento di ampie dimensioni e da decine di dipendenti sindacalizzati)“ (Cass. pen. V, n. 13088/2014).

La liquidazione del danno. Il danno morale

Il bene giuridico tutelato dalla norma è dato dalla salvaguardia del soggetto passivo affinché venga tutelata la sua integrità psicofisica.

Nel caso di maltrattamenti familiari protrattisi per numerosi anni e concretizzatisi in reiterati atti lesivi dell'integrità fisica e morale, della libertà e della dignità di un coniuge (nello specifico, la moglie), “sì da rendere abitualmente e progressivamente dolorose e mortificanti le relazioni tra gli stessi soggetti, il danno morale, in difetto di prova di lesioni permanenti o temporanee (art. 572 c.p.) consiste sia nella sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata e, quindi, nell'ingiusto turbamento conseguente all'offesa ricevuta, sia nel pregiudizio non patrimoniale che si identifica nella “sofferenza morale determinata dal non poter fare” cioè la forzosa rinuncia alle proprie abitudini di vita in conseguenza del fatto illecito (App. Salerno, 8 gennaio 2009).

Configura una persistente violazione anche dei diritti fondamentali della persona umana e in particolare della dignità e della personalità la cui violazione rileva come fatto generatore della responsabilità aquiliana (v. Cass. I, n. 5652/2012 e Cass. I, n. 9801/2005).

Pertanto, come sostengono gli Ermellini, “la sola violazione dei doveri matrimoniali, o anche la pronuncia di addebito di separazione che, ove richiesta, vi consegue, non sono di per sé fonte di responsabilità risarcitoria, dovendo anche sussistere i requisiti richiesti dagli artt. 2043 e 2059 c.c.”.

Nell'illecito endofamiliare, cioè, il risarcimento del danno non patrimoniale è accordato se la condotta trasgressiva di un coniuge, posta in essere in aperta e grave violazione di uno o più doveri morali (reciproca fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell'interesse della famiglia, coabitazione, contribuzione ai bisogni della famiglia), “determina anche l'aggressione ai diritti inviolabili della persona dell'altro coniuge, come la salute fisica o psichica, la sessualità, l'integrità morale, la dignità, l'onore, la reputazione, la privacy, secondo una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c.” (Cass. I, n. 9801/2005).

Sulla liquidazione del danno, la Corte ha statuito che per quei danni arrecati all'integrità fisica e psichica, ovvero tutto ciò che si circoscrive nella sfera esistenziale, consistendo pertanto in pregiudizi di tipo non economico ma personale e quindi difficilmente quantificabili nel suo esatto ammontare da parte attrice, “vanno liquidati dal giudice in via equitativa, tenendo conto delle circostanze del caso concreto, quali la gravità del fatto, le condizioni soggettive della vittima, l'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d'animo” (Cass. I, n. 208595/2015; vedi anche Tribunale Teramo, 11 marzo 2015, n. 393 per cui “Nel risarcimento del danno biologico cagionato alla moglie per maltrattamenti in famiglia e lesioni volontarie, in assenza di elementi che permettono di determinare in modo preciso l'entità del danno, occorre fare ricorso alla valutazione equitativa, come stabilito dall'art. 1226 c.c.”).

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