Ricorso per risarcimento del danno da illegittima reiterazione di contratti a termine nell'impiego pubblico contrattualizzato

Giovanna Nozzetti

Inquadramento

Un lavoratore, già impiegato, in virtù di due successivi contratti a termine, presso una società interamente partecipata da un ente locale, alla scadenza del secondo contratto invoca il risarcimento del danno “da precarizzazione” nei confronti del datore di lavoro pubblico e ne chiede la quantificazione ai sensi dell'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010.

Formula

TRIBUNALE [1] DI .... [2] SEZIONE LAVORO

RICORSO EX ART. 414 C.P.C. [3]

Per il Sig. .... (C.F. ....) [4], residente in .... alla via .... n. ...., rappresentato e difeso dall'Avv. .... [5] (C.F. ....) [6], con domicilio eletto in .... alla via .... n. .... presso il suo studio ...., fax .... [7], PEC: .... @ ...., giusta procura .... [8]

-ricorrente-

CONTRO

la Società ...., C.F. ...., P.I. ...., in persona del legale rappresentante p.t. ...., con sede in ....;

-resistente-

PREMESSO [9]

Il ricorrente ha lavorato alle dipendenze della ...., Società a totale partecipazione pubblica che gestisce il servizio pubblico locale di ...., con 2 contratti a termine succedutisi nel tempo, rispettivamente dal ..../..../.... al ..../..../.... e dal ..../..../.... al ..../..../.... , con le medesime mansioni rientranti nel profilo di .... alle manifestazioni categoria ...., posizione economica ....

A fronte di tale illegittima reiterazione di contratti a termine, In data ..../..../.... il Sig. .... presentava alla pubblica amministrazione resistente istanza di stabilizzazione, ma alla stessa non seguiva alcun riscontro.

Confidando nell'assunzione a tempo indeterminato presso la resistente, il Sig. .... rifiutava le offerte di lavoro alternative nel frattempo pervenute dalla società ....

Pertanto, in ragione della predetta condotta, il ricorrente ha subito un danno patrimoniale quantificabile in ....

Con istanza depositata in data ...., il ricorrente ha richiesto l'esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c., tenutosi in data ....e conclusosi con esisto negativo;

DIRITTO

1) Sulla illegittima reiterazione di contratti a termine nel pubblico impiego privatizzato.

In tema di lavoro privato l'illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato è sanzionato con la conversione del rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato, nonché nel riconoscimento del risarcimento del danno da mancata assunzione.

Nel rapporto di lavoro privatizzato alle dipendenze di una pubblica amministrazione, invece, la reazione dell'ordinamento giuridico all'illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato è differenziata, e consiste nel solo risarcimento del danno.

Il lavoratore che subisce l'abuso della successione di contratti a termine rimane confinato in una situazione di precarizzazione e, pur non potendo lamentare un danno da mancata assunzione, subisce tuttavia un danno da perdita della chance di conseguire l'assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato.

Con riguardo all'onere probatorio di tale danno subito dal lavoratore si sono pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 5072/2016, riconoscendo che «Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla l. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, e quindi nella misura pari ad un'indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella l. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8».

Nel caso di specie, in considerazione della durata del rapporto di lavoro illegittimamente instaurato dall'amministrazione convenuta nonché del fatto che ...., il danno subito va ristorato col riconoscimento dell'indennità nella misura massima di Euro .... o in quell'altra misura che il Giudice ritenesse adeguata al caso di specie.

Tanto esposto e considerato il Sig. ....come sopra rappresentato e difeso

CHIEDE

che l'Ill.mo Giudice designato, presso il Tribunale di ...., in funzione di Giudice del Lavoro, Voglia fissare l'udienza di comparizione delle parti e di discussione della causa per l'accoglimento delle seguenti

CONCLUSIONI

Accertare e dichiarare l'illegittimità della reiterazione di contratti a termine avvenuta in danno del Sig. .... e, per l'effetto, condannare la .... a risarcire il danno subito dallo stesso nella misura e nei limiti di cui alla legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 comma 5, condannare il resistente al pagamento delle spese di lite [10].

IN VIA ISTRUTTORIA

Senza che ciò significhi inversione dell'onere della prova, in caso di ammissione della prova richiesta da controparte, chiede ammettersi prova contraria con gli stessi testi.

Si allegano i seguenti documenti:

1. contratti di lavoro subordinato a termine del ....

2. contratto di lavoro subordinato a termine del ....

3. Verbale negativo di conciliazione

Il presente procedimento, vertendo sulla materia del lavoro, è esente dal pagamento del contributo unificato.

Luogo e data ....

Firma Avv. ....

PROCURA AD LITEM

(se non a margine o su documento informatico separato)

[1] A norma dell'art. 413 c.p.c. “Le controversie previste dall'articolo 409 sono in primo grado di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro”.

[2] Per quanto riguarda il foro, il secondo comma dell'art. 413 c.p.c., derogando all'art. 18 c.c., dispone che “competente per territorio è il giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto ovvero si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto”. Competente per territorio per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è il giudice nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto. Nelle controversie nelle quali è parte una Amministrazione dello Stato non si applicano le disposizioni dell'articolo 6 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611.Qualora non trovino applicazione le disposizioni dei commi precedenti, si applicano quelle dell'articolo 18”.

[3] Ai sensi dell'art. 414 c.p.c. la domanda si propone con ricorso.

[4] Ai sensi dell'art. 23, comma 50, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv., con modif., nella l. 15 luglio 2011, n. 111, in tutti gli atti introduttivi di un giudizio, compresa l'azione civile in sede penale e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il codice fiscale, oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio.

[5] A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002 modificati dall'art. 45-bis d.l. 90/2014 conv., con modif., nella legge n. 114/2014.

[6] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c..

[7] L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c.. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla disposizione testè ricordata, «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà».

[8] La procura può essere apposta in calce o a margine della citazione (art. 83 c.p.c.). Può anche trattarsi di una procura generale alle liti, i cui estremi vanno in tal caso menzionati. In questo caso è preferibile produrre copia della procura. La procura speciale, invece, può essere apposta in calce o a margine della citazione. Nell'ipotesi di scelta di deposito telematico della citazione (art. 16-bis comma 1-bis d.l. n. 179/2012) occorrerà indicare la seguente dicitura: «giusta procura allegata mediante strumenti informatici e apposta in calce al presente atto di citazione ai sensi dell'art. 83 comma 3 c.p.c.».

[9] Il ricorso deve tra l'altro contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni (art. 414 n. 4 c.p.c.)

[10] La disciplina delle spese di giudizio segue quella ordinaria prevista dall'art. 91 c.p.c., secondo cui vanno poste a carico della parte soccombente o comunque di quella che ha dato causa alla lite.

Commento

L'illegittima reiterazione di contratti a termine e il divieto di conversione

La normativa del lavoro a tempo determinato alle dipendenze di enti pubblici non economici nel contesto del lavoro pubblico contrattualizzato, pur articolata in varie disposizioni, mutate nel tempo (art. 36 comma 4, d.lgs. 29 marzo 1993, n. 29, nel testo modificato dall'art. 7 d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546; l'art. 22 comma 8, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80), si è mossa costantemente lungo una direttrice di fondo segnata dall'esigenza costituzionale di conformità al canone espresso dall'ultimo comma dell'art. 97 Cost. che prescrive che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.

Essendosi sempre dovuta confrontare con questo principio ineludibile, la disciplina del lavoro a tempo determinato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, pur in un quadro di tendenziale unitarietà, è risultata connotata da questo elemento differenziale rispetto a quella del lavoro privato, dove non vige un simmetrico principio di accesso all'impiego stabile mediante procedura di concorso.

In continuità con le disposizioni che l'hanno preceduto, l'art. 36 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 - pur rimaneggiato più volte, nella sua formulazione, dal legislatore (sostituita dapprima dall'art. 3, comma 79, l. 24 dicembre 2007, n. 244 e poi dall'art. 49 l. 6 agosto 2008, n. 133 - ha mantenuto invariati i due aspetti fondamentali della disciplina (che si ritrovavano già nell'art. 22 d.lgs. n. 80/1998): da una parte la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione di lavoratori ad opera delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato; d'altra parte il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivatogli dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative.

Il presupposto legittimante il ricorso a forme di lavoro flessibile, quali quelle del contratto a tempo determinato, che già l'art. 4 l. 9 marzo 2006, n. 80 aveva ancorato ad “esigenze temporanee ed eccezionali” delle pubbliche amministrazioni, è stato confermato negli stessi termini dal secondo comma dell'art. 36 cit., come sostituto dall'art. 49 l. n. 80/2006: solo per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego. Ed anzi - precisa il terzo comma del medesimo art. 36 così riformulato - al fine di evitare abusi nell'utilizzo del lavoro flessibile, le pubbliche amministrazioni non possono ricorrere all'utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell'arco dell'ultimo quinquennio.

Si è quindi ripetutamente affermato da parte della giurisprudenza (ex plurimis Cass. sez. lav., n. 14350/2010) che nel pubblico impiego un rapporto di lavoro a tempo determinato in violazione di legge non è suscettibile di conversione in rapporto a tempo indeterminato, stante il divieto posto dall'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001, il cui disposto non è stato modificato dal d.lgs. n. 368/2001, contenente la regolamentazione dell'intera disciplina del lavoro a tempo determinato; ne consegue che, in caso di violazione di norme poste a tutela dei diritti del lavoratore, in capo a quest'ultimo, essendo preclusa la conversione del rapporto, sussiste solo il diritto al risarcimento dei danni subiti.

Pronunciandosi sul tema, anche le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. S.U., n. 5072/2016) hanno ribadito, da un canto, il divieto di conversione del rapporto quale «sanzione dell'illegittima apposizione del termine al rapporto di lavoro o comunque dell'illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale, ma hanno osservato, dall'altro, che il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato - oltre che dall'obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente - anche da disposizioni al contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l'illegittimo ricorso al contratto a termine. Sicché può dirsi che l'ordinamento giuridico prevede, nel complesso, “misure energiche” (come richiesto dalla Corte giustizia UE, sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare l'illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale».

Ed infatti, la Corte di Giustizia, nell'ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 (che richiama i precedenti enunciati dalla stessa Corte con le sentenze del 4 luglio 2006 Adeneler e a. C-212/04; del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, Vassallo, C-180/2004 del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07, e ordinanze del 12 giugno 2008 Vassilakis e a., C-364107; del 24 aprile 2009, Koukou, C-519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a., daC-162108, e dell'1 ottobre 2010, Affatato, C-3/10) aveva ribadito che la clausola 5 dell'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva n. 1999/70/CE, non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato «lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia». Neppure la direttiva contiene una disciplina generale del contratto a tempo determinato, ma pone principi specifici che, per gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell'abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5).

La vigente disciplina ha d'altra parte superato il vaglio di legittimità costituzionale (Corte cost. n. 89/2003; Corte cost. n. 190/ 2005, Corte cost. n. 205/2004 e Corte cost. n. 34/2004) essendosi escluso ogni contrasto con gli artt. 4 e 97 Cost. dell'art. 36 d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui tale ultima norma non consente, a differenza di quanto accade nel lavoro privato, che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori possa dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni. È, infatti, giustificata la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, dato che il principio dell'accesso mediante concorso - enunciato dall'art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione - rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto di lavoro alle dipendenze di datori privati. In particolare nella citata pronuncia la Corte ha enunciato, come criterio generale, che «il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello (...) dell'accesso mediante concorso, enunciato dall'art. 97 Cost., terzo comma, della Costituzione» a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione.

L'abusivo ricorso al contratto a termine è fonte di danno risarcibile per il lavoratore che abbia reso la sua prestazione lavorativa in questa condizione di illegalità. Ma, quando il risarcimento del danno si accompagna alla conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato (cfr. ex plurimis Cass. sez. lav., n. 18378/2006), il risarcimento del danno è contenuto nella misura fissata dall'art. 32, comma 5, l. 4 novembre 2010 n. 183, che prevede che, in tal caso, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della l. 15 luglio 1966, n. 604.

Più complessa l'individuazione del danno risarcibile per i dipendenti a termine delle pubbliche amministrazioni in considerazione del regime differenziato e della preclusione alla conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato. Al riguardo, le Sezioni Unite, con la richiamata pronuncia, hanno chiarito che la mancata conversione del rapporto non determina un danno di per sè risarcibile ed hanno perciò escluso che il danno suscettibile di ristoro pecuniario ex art. 36 comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 possa consistere nella perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perché in nessun caso il rapporto di lavoro a termine si potrebbe convertire in rapporto a tempo indeterminato. «Lo stesso art. 36, comma 5, cit., definisce il danno risarcibile come derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative e non già come derivante dalla perdita di un posto di lavoro. Se la pubblica amministrazione non avesse fatto illegittimo ricorso al contratto a termine, non per questo il lavoratore sarebbe stato assunto a tempo indeterminato senza concorso pubblico».

Il danno rapportato alla “prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”, secondo la formulazione testuale della norma, è configurabile come perdita di chance, nel senso che «se la pubblica amministrazione avesse operato legittimamente emanando un bando di concorso per il posto, il lavoratore, che si duole dell'illegittimo ricorso al contratto a termine (ossia di illegittimità originaria della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso nel ricorso a tale fattispecie contrattuale, in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem) avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore» ovvero «le energie lavorative del dipendente sarebbero state liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato» (così Cass. S.U., n. 5072/2016 cit.).

L'evenienza ordinaria è, dunque, la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l'illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile.

Ma non può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un'occupazione migliore. In ogni caso l'onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore, il quale dovrà agire secondo la regola generale della responsabilità contrattuale posta dall'art. 1223 c.c. per vedersi riconoscere il risarcimento del danno nel senso sopra indicato.

L'onere della prova del danno

L'onere probatorio a carico del lavoratore, pur potendo essere agevolato dal ricorso a presunzioni semplici (art. 2729 c.c.), può rivelarsi in concreto di difficile assolvimento.

La Corte di Giustizia (ordinanza Papalia) aveva a tale proposito affermato che il pur forte carattere dissuasivo delle misure previste dall'ordinamento italiano per contrastare il legittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato (sia quella risarcitoria, sia quelle di indiretto presidio della legalità dell'azione dell'Amministrazione pubblica) non è sufficiente per assicurare il rispetto della clausola 5 dell'accordo quadro ove il lavoratore, il quale desideri ottenere il risarcimento del danno sofferto, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non goda di nessuna presunzione d'esistenza di un danno e, di conseguenza, debba dimostrarlo concretamente.

Occorre pertanto una disciplina effettivamente dissuasiva che sia, per il dipendente, agevolativa e di favore.

Le Sezioni Unite civili sono state investite della questione con l'ordinanza interlocutoria del 4 agosto 2015, n. 16363, nell'ambito del vasto ed annoso contenzioso insorto in ordine alle conseguenze derivanti dall'illegittima apposizione del termine nel pubblico impiego privatizzato, avuto riguardo alle diverse interpretazioni registrate nella giurisprudenza di merito e di legittimità in ordine all'art. 36 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che, nel porre il divieto della trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, affida al risarcimento del danno la tutela del lavoratore e - di riflesso - la compatibilità dell'ordinamento interno con la normativa comunitaria in materia.

In particolare, nell'ordinanza si osservava che, mentre la Corte territoriale, nelle sentenze impugnate, aveva individuato nella disciplina di cui all'art. 18, commi quarto e quinto, l. n. 300/1970 - nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla l. 28 giugno 2012, n. 92 - il parametro di riferimento più idoneo a garantire una tutela effettiva e dissuasiva, la Corte di legittimità si era già pronunciata con decisioni difformi, nell'un caso (Cass. sez. lav., n. 19371/2013) ancorando la determinazione del risarcimento all'art. 32, commi 5 e 7, l. 4 novembre 2010, n. 183, a prescindere dalla prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e omnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine, nell'altro caso (Cass. sez. lav., n. 27481/2014, condivisa da Cass. sez. lav., n. 13655/2015) utilizzando come criterio di liquidazione quello indicato dall'art. 8 l. 15 luglio 1966, n. 604, sempre a prescindere dalla prova concreta del danno, ma in virtù dell'elaborazione di un'autonoma figura di danno (“danno comunitario”), da intendere come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro.

Nel procedere ad un'opera di interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità costituzionale della normativa ordinaria, il Supremo Collegio ha ritenuto di poter individuare la disciplina regolatrice comunitariamente adeguata «in un ambito normativo omogeneo, sistematicamente coerente e strettamente contiguo, che è quello del risarcimento del danno nel rapporto a tempo determinato nel lavoro privato e non già in quella del risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo in cui sia stata ordinata la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300 (Statuto dei lavoratori), né in quella di licenziamento parimenti illegittimo in cui sia stata ordinata dal giudice la riassunzione ex art. 8 legge n. 604/1966, e neppure in quella di licenziamento illegittimo in cui non possa essere ordinata la reintegrazione ma ci sia solo una compensazione economica (art. 1 l. n. 92/2012 e successivamente, per i contratti di lavoro a tutele crescenti, art. 3 d.lgs. n. 23/2015). L'ipotesi del licenziamento evoca, infatti, la perdita del posto di lavoro che nella fattispecie del lavoro pubblico contrattualizzato - per quanto sopra diffusamente argomentato - è esclusa in radice dalla legge ordinaria (art. 36 d.lgs. n. 165/2001 cit.)».

La fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, è invece quella del cit. art. 32, comma 5, legge n. 1831/2010 che prevede - per l'ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato - che «il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604»(in tal senso già Cass. sez. lav., n. 19371/2013; da ultimo Cass. sez. lav., n. 1767/2017; Cass. sez. lav., n. 8885/2017).

Ad avviso delle Sezioni Unite, la trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come un danno comunitario (così già Cass. n. 27481/2014 e Cass. n. 13655/2015) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5 cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva.

In tal modo il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo.

Sicché, mentre per il lavoratore privato l'indennità ex art. 32 rappresenta una forma di contenimento del danno risarcibile, che potrebbe essere in ipotesi superiore qualora egli avesse accesso ai rimedi risarcitori ordinari, il lavoratore pubblico ha invece diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova, ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall'onere probatorio, all'indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5 legge n. 183/2010 (vds, in questo senso, App. Firenze 14 aprile 2016; Trib. Roma 21 aprile 2016; cfr. anche Trib. Treviso 6 maggio 2016 secondo cui l'indennità in questione non ha natura retributiva e conseguentemente non è soggetta né a rivalutazione monetaria, né alla maggiorazione degli interessi legali per il periodo anteriore alla decisione).

Non è però precluso al prestatore di lavoro di provare che le chance di lavoro perdute nel tempo in cui è stato impiegato mediante reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato.

In ordine alla quantificazione dell'indennità, «nel caso in cui lo stesso lavoratore sia stato destinatario di plurime assunzioni a termine illegittime, non è possibile ipotizzare la liquidazione di una somma ex art. 32, comma 5, l. n. 183/2010 per ogni contratto illegittimo. Infatti, il danno che, secondo l'impostazione della Suprema Corte, beneficia del vantaggio sul piano probatorio, è quello costituito dalla «illegittima precarizzazione» (così, letteralmente, il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite) [...] e ciò comporta inevitabilmente una valutazione unitaria dell'illegittima condotta posta in essere dalla P.A. Invece, il numero e la durata dei singoli contratti a tempo determinato rilevano quali circostanze di fatto delle quali il giudice deve tener conto nell'individuazione dell'ammontare del quantum (comunque compreso nei limiti minimo e massimo stabiliti dalla norma del 2010) da riconoscere nei singoli casi. Invero, tanto più si protrae nel tempo l'illegittimo impiego a termine, tanto più assume carattere pregiudizievole la situazione di precarizzazione in cui versa il lavoratore. In questo senso, un'altra circostanza di fatto da tener presente è costituita dall'esistenza di intervalli tra un'assunzione a termine e l'altra e dalla durata di quegli intervalli. Infatti, in presenza di lunghi intervalli, deve ritenersi che la situazione di precarizzazione nella quale le ripetute assunzioni a termine avrebbero confinato il lavoratore non sia stata particolarmente significativa». Tra i criteri di quantificazione indicati dalla Suprema Corte (sent. n. 5072/2016) mediante esplicito rinvio ai fattori previsti dall'art. 8 della l. n. 604 del 1966 (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'impresa, anzianità di servizio del prestatore di lavoro, comportamento e condizioni delle parti), la giurisprudenza di merito mostra di dare rilievo agli ultimi due, con particolare riguardo al numero e alla durata dei contratti a tempo determinato e all'esistenza o e meno di intervalli tra un'assunzione a termine e l'altra. «Infatti, se il danno da risarcire è quello della prolungata precarizzazione subita dal lavoratore, l'anzianità di servizio coincide con la durata dei vari contratti a tempo determinato, il comportamento delle parti è qualificato dal numero delle assunzioni a termine disposte e dall'intervallo tra l'una e l'altra, mentre le condizioni delle parti, e specificamente quelle del lavoratore, dipendono dalle caratteristiche dello stato di precarizzazione a sua volta influenzato, da numero, durata e intervalli delle assunzioni a termine. Meno significativi, invece, i dati relativi al numero dei dipendenti e alle dimensioni della parte datoriale, i quali assumono una razionale influenza sull'ammontare dell'obbligo risarcitorio quando il debitore è un'impresa privata, perché essi sono indici della solidità economico-finanziaria della parte cui deve essere accollato l'onere patrimoniale di cui si tratta, mentre paiono neutri quando il debitore ha natura di ente pubblico (così Trib. Roma 12 aprile 2016)».

Con una recentissima pronuncia (Cass. sez. lav., n. 4632/2017) la Corte di legittimità ha osservato che la disciplina di favore sin qui esaminata si giustifica in relazione alla necessità di garantire efficacia dissuasiva alla clausola 5 dell'Accordo quadro recepito nella e, concernendo quest'ultima la prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di contratti o rapporti a termine, non può logicamente trovare applicazione alcuna nell'ipotesi in cui l'illegittimità concerna l'apposizione del termine ad un unico contratto di lavoro.

L'illegittima reiterazione di contratti a termine nel settore scolastico

Una disciplina speciale (d.lgs. n. 297/1994, l. n. 124/1999, d.m. 27 marzo 2000 n. 23; da ultimo l. n. 107/2015; per la ricostruzione del sistema cfr. Cass. n. 22552/2016) riguarda, invece, il reclutamento del personale scolastico, docente ed ATA, che costituisce un “corpus” normativo completo e speciale, anche rispetto alle forme di reclutamento del personale delle amministrazioni pubbliche (come espressamente riconosciuto dall'art. 70 del d.lgs. n. 165 del 2001), ritenuto incompatibile con la normativa di carattere generale dettata per il contratto a termine dal d.lgs. n. 368 del 2001, quanto ai requisiti di forma ed al regime delle proroghe e dei rinnovi.

La Corte Costituzionale con l'ordinanza n. 207 del 2013, ha sottoposto alla Corte di giustizia dell'Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell'art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea, la questione di interpretazione della clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE.

Dalla sentenza della CGUE del 26 novembre 2014 (Mascolo e altri, cause riunite C-22/13; C-61/13; C-62/13; C-63/13; C-418/13) che ha deciso i ricorsi pregiudiziali di giudici di merito italiani e della Consulta, emerge che la non conformità della normativa nazionale al diritto dell'Unione consegue al fatto che tale normativa, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un'esigenza reale, sia idoneo a conseguire l'obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall'altro, non prevede nessun'altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.

Con la sentenza n. 187/2016 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, dell'art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124, nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino. Esaminando la questione oggetto dei giudizi nei quali era stata sollevata la questione di costituzionalità, alla luce dello “ius superveniens”, costituito dalla l. n. 107/2015, adottata dal legislatore al fine di garantire la corretta applicazione dell'accordo quadro, il Giudice delle leggi ha desunto l'esistenza, “in tutti i casi che vengono in rilievo”, di una delle misure rispondenti ai requisiti richiesti dalla Corte di giustizia, individuandole, quanto ai docenti, nelle procedure privilegiate di assunzione che attribuivano a tutto il personale interessato serie ed indiscutibili chances di immissione in ruolo. Ha, di contro, ritenuto che, non essendo stato previsto per il personale ATA alcun piano straordinario di assunzione, dovesse trovare applicazione la misura ordinaria del risarcimento del danno, misura del resto prevista dal comma 132 dell'art. 1 della l. n. 107/2015.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale, “in parte qua” e con effetto “ex tunc”, dell'art. 4, commi 1 e 11, della l. n. 124/1999 pronunciata dalla Corte Costituzionale comporta che la reiterazione dei contratti a termine stipulati ai sensi della richiamata disposizione configura un illecito, rilevante sul piano del diritto comunitario e, quindi, sul diritto interno.

La l. n. 107/2015, come affermato dalla sentenza 187 della Corte Costituzionale, ha senz'altro cancellato l'illecito comunitario perché, per il futuro, ha previsto le misure idonee ad evitare la irragionevole reiterazione senza limiti delle supplenze nella scuola nella quale la Corte di Giustizia ha ravvisato l'illecito stesso, ma la nuova legge certamente non ha eliminato, per il solo fatto di aver previsto procedimenti di stabilizzazione, i pregressi illeciti consistiti nella reiterazione di contratti a termine, per supplenze su organico di diritto ed al di fuori del quadro temporale individuato in trentasei mesi (art. 400 d.lgs. n. 297/1994; art. 1 comma 113 l. n. 107/2015), reiterazione realizzata nella vigenza della disciplina dichiarata incostituzionale ai sensi dell'art. 117 della Costituzione e comunque successivamente al 10 luglio 2001 (termine previsto dall'art. 2 della Direttiva 1999/70/CE per l'adozione da parte degli stati membri delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla Direttiva).

Quanto alle conseguenze della relativa violazione, nelle ipotesi di reiterazione illegittima dei contratti a termine stipulati ai sensi dell'art. 4, commi 1 e 11, della l. n. 124/1999 oltre l'indicato limite temporale, la Suprema Corte ha reputato misure proporzionate, effettive, sufficientemente energiche ed idonee a sanzionare debitamente l'abuso ed a cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell'UE, la stabilizzazione prevista nella l. n. 107/2015 per il personale docente, attraverso il piano straordinario destinato alla copertura di tutti i posti comuni e di sostegno dell'organico di diritto, sia nel caso di concreta assegnazione del posto di ruolo sia in quello in cui vi sia certezza di fruire, in tempi certi e ravvicinati, di un accesso privilegiato al pubblico impiego, nel tempo compreso fino al totale scorrimento delle graduatorie ad esaurimento, secondo l'art. 1, comma 109, della l. n. 107/ 2015, nonché l'immissione in ruolo acquisita da docenti e personale ATA attraverso l'operare dei pregressi strumenti selettivi-concorsuali, che non preclude la domanda per il risarcimento dei danni ulteriori e diversi rispetto a quelli esclusi dalla stessa, con oneri di allegazione e prova a carico del lavoratore che, in tal caso, non beneficia di alcuna agevolazione probatoria da danno presunto.

Non costituisce invece misura adeguata e proporzionata la astratta “chance” di stabilizzazione, che può ravvisarsi nei casi in cui il conseguimento del posto di ruolo non è certo ovvero non è conseguibile in tempi ravvicinati, intendendo per tali tempi quelli compresi tra l'entrata in vigore della l. n. 107/2015 ed il totale scorrimento delle graduatorie ad esaurimento, secondo quanto previsto dal comma 109 dell'art. 1 della l. n. 107/ 2015. In siffatte situazioni, oltre che in quelle nelle quali l'interessato non è mai potuto accedere alla prospettiva di stabilizzazione, deve essere riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in conformità a quanto previsto nell'Accordo Quadro, allegato alla Direttiva, nel significato attribuito nella sentenza CGUE, Mascolo, del 26 settembre 2014, secondo i principi affermati dalle Sezioni Unite nella già esaminata sentenza n. 5072 del 2016 (Cass. sez. lav., n. 22552/2016).

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