Memoria difensiva della società datrice di lavoro per abuso del diritto da parte del lavoratore.

Giovanna Nozzetti

Inquadramento

Costituendosi in giudizio per resistere all'impugnativa del licenziamento promossa dal lavoratore, la società datrice di lavoro deduce l'esistenza della giusta causa di recesso (art. 2109 c.c.) stante l'utilizzo improprio, da parte del ricorrente, dei permessi ex art. 33 legge n. 104/1992, sistematicamente impiegati non per l'assistenza al congiunto diversamente abile, bensì per lo svolgimento di altra attività lavorativa

Formula

TRIBUNALE 1 DI ...

SEZIONE LAVORO

MEMORIA DIFENSIVA 2

Per la Società ... (C.F./P.I. ...) 3 , in persona dell'amministratore e legale rappresentante pro tempore, Sig. ..., (C.F....) residente in ... alla via ... n. ..., rappresentato e difeso dall'Avv. ... 4 (C.F. ...) 5 , con domicilio eletto in ..._ alla via ... n. ... presso il suo studio ..., fax ... 6 , PEC: ...@..., giusta procura ... 7

-resistente-

Contro

il Sig. ..., nato a ... il ... e residente a ... in via ..., rappresentato e difeso come in atti

-ricorrente-

PREMESSO 8

Col ricorso depositato in data ... innanzi a questo Tribunale, in funzione di Giudice del lavoro, e notificato il ..., il Sig. ..., dopo aver esperito infruttuosamente il tentativo di conciliazione, ha adito il presente Tribunale al fine di far dichiarare la illegittimità/nullità/inefficacia del licenziamento intimato in data (omissis ...). dalla società odierna convenuta e per l'effetto condannare quest'ultima a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro ed a pagargli una indennità, a titolo di risarcimento del danno, commisurata alla retribuzione globale di fatto, dal giorni del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione.

Asserisce il ricorrente di aver prestato attività lavorativa alle dipendenze dell'odierna comparente sin dal ... con mansioni di ... e di aver ricevuto, in data ..., una contestazione di addebito del tutto infondata, relativa all'improprio utilizzo dei permessi retribuiti, ex art. 33 legge n. 104/1992.

Impugna, quindi, il licenziamento comminatogli con missiva del ... ritenendolo illegittimo in quanto ...... deducendo, altresì, di averne già contestato la legittimità con missiva stragiudiziale del ...... e negando la rilevanza probatoria delle risultanze delle investigazioni commissionate dalla datrice di lavoro all'agenzia ....

Con il presente atto si costituisce la convenuta ...__, impugnando e contestando la domanda del ricorrente e la documentazione dallo stesso ... prodotta per i seguenti

MOTIVI IN FATTO E IN DIRITTO

1)Il Sig. ..., conviveva con la madre, Sig.ra ..., affetta da una grave malattia che la rendeva bisognosa di continue cure e visite mediche; pertanto, periodicamente, il Sig. ... ha chiesto ed ottenuto permessi lavorativi retribuiti, in forza della previsione contenuta nell'articolo 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, al fine di accompagnare la propria madre a sottoporsi a visite specialistiche.

2)In tempi recenti, dato l'intensificarsi delle istanze e l'inconsueto frazionamento dei permessi mensili, prima goduti per l'intera giornata lavorativa, la convenuta ha affidato ad un'agenzia di investigazione privata l'incarico di controllare se i periodi di permesso erano effettivamente utilizzati per l'assistenza della disabile.

3) Dopo un paio di mesi, l'agenzia investigativa ha trasmesso una relazione (all. n. ...) con una ha comunicato che il Sig.... ha trascorso interamente i periodi di permesso presso la ditta ... , lavorandovi come fattorino.

Non può allora esservi dubbio alcuno della fondatezza della contestazione disciplinare e della idoneità dell'illecito comportamento del ricorrente ad integra una giusta causa del recesso datoriale.

L'art. 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, attribuisce al lavoratore che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, il diritto di richiedere permessi lavorativi giornalieri e/o mensili, retribuiti e coperti da contribuzione figurativa, per assistere il familiare. Tale diritto è riconosciuto in ragione dell'assistenza al diversamente abile, rispetto alla quale l'assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale. Infatti, lo stesso art. 33, al comma 7, aggiunto dall'art. 24, l. 4 novembre 2010, n. 183, prevede che, 'ferma restando la verifica dei presupposti per l'accerta mento della responsabilità disciplinare, il lavoratore di cui al comma 3 decade dai diritti di cui al presente articolo, qualora il datore di lavoro o l'INPS accerti l'insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti'.

Quindi, a fronte dello specifico diritto, in capo al lavoratore, di beneficiare di permessi retribuiti, l'ordinamento ha posto il correlativo potere di controllo in capo all'ente erogatore e, addirittura, al datore di lavoro, che subisce l'assenza del prestatore.

Il controllo in tal caso è legittimo - e le informazione acquisite possono dunque essere veicolate nel processo instaurato dal lavoratore licenziato - perchè circoscritto alla verifica di eventuali atti illeciti, posti in essere dal lavoratore, di rilevanza anche penale, non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione e motivato dal fondato sospetto che il dipendente stesse commettendo un illecito.

Il controllo, diretto all'accertamento dell'utilizzo improprio dei permessi di cui all'art. 33 della l. n. 104, non ha riguardato, per l'appunto, l'esercizio della prestazione lavorativa, essendo stato svolto in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa ed è stato finalizzato all'accertamento dell'eventuale consumazione di atti lesivi dell'affidamento del datore di lavoro, connotati da particolare disvalore sociale ed integranti gli estremi del fatto penalmente rilevante.

La Suprema Corte ha ripetutamente affermato che la condotta del prestatore di lavoro che si avvalga del permesso disciplinato all'art. 33, l. n. 104/1992, non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, estranea a quella di assistenza, integra l'ipotesi di 'abuso del diritto', poiché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede e contraria agli obblighi contrattuali e, valutatane la gravità del caso concreto, può giustificare l'irrogazione della massima sanzione disciplinare. La si è inoltre ritenuta capace di integrare sotto il profilo dell'elemento intenzionale un comportamento determinate una giusta causa del recesso con effetto immediato e senza preavviso (Cass. sez. lav., n. 4984/2014).

L'impugnazione proposta dalla controparte va dunque rigettata.

Occorre peraltro considerare che i permessi in questione vengono retribuiti, in via anticipata, dal datore di lavoro, il quale, in seguito, viene sollevato, del relativo onere, anche ai fini contributivi, dall'ente previdenziale. La fruizione dei permessi impone inoltre una differente organizzazione del lavoro in azienda, che si deve quindi adattare all'assenza del prestatore, anche mediante una maggior penosità dell'attività degli altri lavoratori.

Per questi motivi, è del tutto irrilevante che una parte del permesso sia stata effettivamente utilizzata per l'assistenza al soggetto disabile, poiché anche fruire di una parte del permesso per finalità avulse a quelle previste dalla disciplina in questione costituisce un illecito che crea un danno per il datore di lavoro e per l'ente previdenziale.

In via riconvenzionale, dunque, il ricorrente andrà condannato a risarcire la società comparente del danno patrimoniale commisurato all'ammontare delle retribuzioni che non è stato possibile compensare con i contributi dovuti all'ente assicurativo (che ha frattanto revocato al Sig. ... il beneficio) e delle corrispondenti quote del t.f.r., nonché alla somma, di cui è impossibile dimostrare l'entità e che va liquidata equitativamente, idonea a ristorare il pregiudizio complessivamente arrecato all'organizzazione aziendale e alla sua produttività

Per quanto sopra, il Dott. ..., come sopra rappresentato, difeso e domiciliato, con il presente atto

CONCLUDE

Affinché l'On.le Tribunale adito voglia:

accertare e dichiarare la legittimità del recesso per giusta causa intimato al ricorrente in data ...;

rigettare tutte le pretese avanzate nei riguardi della comparente;

in via riconvenzionale condannare i Sig. ...al risarcimento dei danni patrimoniali subiti dalla società ..., che sin da ora si quantificano in Euro ..., salvo una diversa valutazione da liquidarsi dal Giudice anche con criterio equitativo 9 ;

condannare il resistente al pagamento delle spese di lite 10 .

In via istruttoria 11 :

si chiede di essere ammesso alla prova per testimoni sulle circostanze indicate in premessa ai punti 2) e 3) preceduti dall'espressione 'e vero che..', con i Sigg.ri: 1) il Sig...., residente in ...; 2) il Sig..., residente in ...si deposita copia dei seguenti documenti, con riserva di ulteriori produzioni ed articolazioni di richieste istruttorie: 1) ...; 2) ...; 3) ...

si dichiara che il valore della domanda riconvenzionale è di Euro... 12 per il quale è previsto il pagamento del contributo unificato pari a Euro... 13

Luogo e data...

Firma Avv....

PROCURA AD LITEM

(se non a margine o su documento informatico separato)

[1] [1] A norma dell'art. 413 c.p.c. 'Le controversie previste dall'articolo 409 sono in primo grado di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro'.

[2] [2] Ai sensi dell'art. 416 c.p.c., il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza, dichiarando la residenza o eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito. La costituzione del convenuto si effettua mediante deposito di memoria difensiva, nella quale devono essere proposte, a pena di decadenza, le eventuali domande in via riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio

[3] [3] Ai sensi dell'art. 23, comma 50, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv., con modif., nella l. 15 luglio 2011, n. 111, in tutti gli atti introduttivi di un giudizio, compresa l'azione civile in sede penale e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il codice fiscale, oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio.

[4] [4] A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002 modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv., con modif., nella legge n. 114/2014.

[5] [5] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. come modificato dalla disposizione citata sub nota 3.

[6] [6] L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. come modificato dalla disposizione citata sub nota 3. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla disposizione testè ricordata,«Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale ... il contributo unificato è aumentato della metà».

[7] [7] La procura può essere apposta in calce o a margine della citazione (art. 83 c.p.c.). Può anche trattarsi di una procura generale alle liti, i cui estremi vanno in tal caso menzionati. In questo caso è preferibile produrre copia della procura. La procura speciale, invece, può essere apposta in calce o a margine della citazione. Nell'ipotesi di scelta di deposito telematico della citazione (art. 16-bis comma 1-bis d.l. n. 179/2012) occorrerà indicare la seguente dicitura: «giusta procura allegata mediante strumenti informatici e apposta in calce al presente atto di citazione ai sensi dell'art. 83 comma 3 c.p.c.».

[8] [8] Nella memoria di costituzione il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda e proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto

[9] [9] L'art. 432 c.p.c. dispone che 'quando sia certo il diritto ma non sia possibile determinare la somma dovuta, il giudice la liquida con valutazione equitativa'.

[10] [10] La disciplina delle spese di giudizio segue quella ordinaria prevista dall'art. 91 c.p.c., secondo cui vanno poste a carico della parte soccombente o comunque di quella che ha dato causa alla lite.

[11] [11] L'indicazione specifica dei mezzi istruttori di cui ci si intende avvalere e dei documenti che vanno contestualmente depositati va fatta a pena di decadenza nella memoria difensiva tempestivamente depositata (art. 416 ultimo comma c.p.c.).

[12] [12] Determinabile in base agli artt. 10 ss. c.p.c.

[13] [13] L'ultimo comma dell'art. 14 d.P.R. n. 115/2002 impone alla parte che modifica la domanda o che propone domanda riconvenzionale o formula chiamata in causa o svolge intervento autonomo, cui consegue l'aumento del valore della causa, a farne espressa dichiarazione e a procedere al contestuale pagamento integrativo. L'inosservanza di quest'obbligo è sanzionata dall'art. 13 ultimo comma dello stesso DPR a tenore del quale «se manca la dichiarazione di cui all'articolo 14, il processo si presume del valore indicato al comma 1, lettera g)», ossia quello dello scaglione più elevato (i.e. superiore a 520.000,00 Euro) con conseguente obbligo di versamento del corrispondente contributo unificato.

Commento

L'abuso del diritto e la buona fede.

L'abuso del diritto è espressione del generale principio etico-giuridico di buona fede nell'esercizio dei propri diritti e nell'adempimento dei propri doveri; alle norme che regolano, in modo analitico e circostanziato, la formazione e l'esecuzione del contratto si accompagnano altre disposizioni che indicano un generale criterio di comportamento delle parti contraenti. Sono le norme che impongono loro di comportarsi, l'una nei confronti dell'altra, secondo buona fede e correttezza (artt. 1175, 1375, 1337, 1358 c.c.).

Pur in mancanza di una norma di carattere generale che sanzioni l'abuso del diritto inteso quale deviazione finalistica della prerogativa dallo scopo per il quale è stata riconosciuta dall'ordinamento, dottrina e giurisprudenza maggioritarie condividono l'esigenza di individuare nell'esercizio dei diritti limiti volti a realizzare il principio di solidarietà sancito dalla Costituzione, distinguendosi poi le posizioni di chi non riconosce autonomia concettuale all'abuso di diritto - preferendo inquadrare la fattispecie in termini di eccesso di diritto o di violazione dei canoni della buona fede e della correttezza contrattuale - da quelle che identificano l'abuso del diritto con l'uso emulativo, eccessivo o comunque improprio del diritto, il cui esercizio viene piegato alla realizzazione di scopi diversi da quello per il quale è stato riconosciuto.

In particolare, dal principio di solidarietà e dai canoni codicistici di buona fede e correttezza la Suprema Corte ha desunto il dovere del lavoratore di astenersi, durante la malattia, da attività che possano pregiudicarne la guarigione [14] (Cass. sez. lav., n. 16465/2015) nonché quello di non esporsi a rischi eccessivi tali da compromettere l'interesse datoriale alla effettiva esecuzione della prestazione lavorativa (Cass. sez. lav., n. 1699/2011), configurando in tali casi la responsabilità disciplinare del lavoratore, fino all'applicazione della sanzione della risoluzione del rapporto di lavoro.

Si è invece evocato, espressamente o implicitamente, il concetto di abuso di diritto nei casi di utilizzazione del congedo parentale per svolgere una diversa attività lavorativa (Cass. sez. lav., n. 16207/2008), di fruizione di permessi assistenziali per attendere ad altre attività (Cass. sez. lav., n. 4984/2014) e di uso di permessi sindacali per un'attività estranea all'attività sindacale (Cass. sez. lav. n. 454/2003).

In alcune pronunce relative a simili fattispecie, tuttavia, la giurisprudenza ha dato rilevanza non alla deviazione finalistica dell'esercizio del diritto, quanto alla mancanza stessa dei presupposti per la sua stessa esistenza, ritenendo che l'effettiva assistenza parentale così come lo svolgimento effettivo di attività sindacale costituiscano elemento costitutivo del diritto stesso, la cui assenza rende ingiustificata la sospensione della prestazione lavorativa dovuta e giustifica l'esercizio del potere disciplinare (Cass. sez. lav. n. 4302/2001).

Sono stati ancora qualificati come abuso del diritto i casi di denunce o azioni promosse dal lavoratore per arrecare un danno patrimoniale e d'immagine al datore di lavoro e dunque con finalità emulativa, nonché i comportamenti consistenti in critiche pubbliche, reiterate ed infondate lesive del decoro dell'impresa datoriale (Cass. sez. lav. n. 20048/2008).

Si tratta, a ben guardare, di condotte del prestatore che, in quanto eccedenti i limiti dei diritti normativamente o contrattualmente riconosciuti o contrari ai canoni di buona fede o correttezza, configurano di per sé inadempimenti contrattuali.

E' invece certamente appropriato ed utile il ricorso alla figura dell'abuso di diritto [15] in presenza di una pluralità di istanze, richieste, diffide, messe in mora, etc del lavoratore che, astrattamente ed atomisticamente considerate, potrebbero considerarsi legittime in quanto rivendicazione di diritti che la legge riconosce come meritevoli di tutela, e che riguardati invece complessivamente ed unitariamente rappresentano un'abnorme utilizzazione di procedure previste a tutela del lavoratore, strumentalmente finalizzata ad arrecare disturbo al datore di lavoro e ad acconsentire alle pretese del lavoratore altrimenti non suscettibili di essere favorevolmente valutate. Recentemente, i giudici di legittimità, chiamati a pronunciarsi sul licenziamento di una lavoratrice che aveva presentato molteplici istanze pretestuose al solo fine di destabilizzare il clima dell'ambiente lavorativo e indurre il datore di lavoro pubblico alla concessione di un trasferimento impossibile per legge, hanno ritenuto che, ai fini della contestazione disciplinare, fosse configurabile una condotta unitaria costituente abuso di diritto (in senso funzionale) per deviazione finalistica dallo scopo dei singoli atti, arrivando a confermare la sussistenza della giusta causa di recesso (Cass. sez. lav., n. 1248/2016).

Anche nelle pronunce più recenti risulta, comunque, ribadito il principio, già in precedenza affermato dalla Corte (Cass. sez. lav., n. 10568/2013), che l'abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto non abbia tenuto una condotta idonea a salvaguardare gli interessi dell'altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo invece configurabile allorchè il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, e al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti.

Conseguenze della violazione

La violazione del dovere di buona fede comporta, di regola, l'obbligazione di risarcire il danno che si è cagionato alla controparte.

Ulteriore rimedio diverso dall'azione di danni è quello che va sotto il nome dell'exceptio (e della replicatio) doli generalis, invocabile quando l'altrui pretesa (o eccezione) si manifesti, in quanto contraria ai principi della buona fede o della correttezza, come doloso esercizio di un diritto: in tal caso il rimedio è diretto a provocare la reiezione dell'altrui pretesa o eccezione.

In ambito lavoristico il comportamento del prestatore gravemente lesivo dei criteri di correttezza e buona fede assume rilievo disciplinare e può assurgere anche a giusta causa di licenziamento. In ordine ai criteri che il giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci, affermando ripetutamente (come ripercorso in Cass. sez. lav. n. 5095/2011 e poi da Cass. n. 6498/2012) che, per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.

Ai fini dell'immediatezza della contestazione disciplinare, quando a connotare in termini di 'abuso' o 'emulazione' la condotta del lavoratore è la sistematica o smodata reiterazione dei singoli atti la tempestività della contestazione dell'addebito va valutata in relazione all'insieme e non alle singole infrazioni; va perciò intesa in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell'illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l'espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più complessa è l'organizzazione aziendale (Cass. sez. lav., n. 1248/2016).

L'abuso del diritto ai permessi di assistenza.

Sovente i giudici, sia di merito che di legittimità, sono stati chiamati a decidere fattispecie, espressione di un (purtroppo diffuso) malcostume sociale, accomunate dall'uso distorto dei permessi da parte dei fruitori del diritto, loro riconosciuto, di assentarsi dal lavoro per lo svolgimento di attività assistenziali in favore di congiunti portatori di handicap fisici o psichici.

Sono i casi dei dipendenti che hanno usufruito dei predetti permessi per partire per le vacanze (Cass. n. 4984/2014) o per porre rimedio a modo proprio al diniego delle ferie per esigenze di servizio (Trib. Milano, n. 5432/2010) o per svolgere un'altra prestazione lavorativa (App. L'Aquila n. 544/2011; Trib. Teramo, n. 392/2015) o, semplicemente, per motivi di svago personale (Cass. n. 8784/2015).

La legge 5 febbraio 1992 n. 104 in tema di 'assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone portatrici di handicap, all'articolo 33, prevede la possibilità di ottenere particolari permessi lavorativi giornalieri e/o mensili, retribuiti e coperti da contribuzione figurativa, per i congiunti che assistono persone disabili e per le persone gravemente disabili stesse.

Lo stesso articolo, al comma 7, aggiunto dall'art. 24, l. n. 183/2010, stabilisce però che «Ferma restando la verifica dei presupposti per l'accerta mento della responsabilità disciplinare, il lavoratore di cui al comma 3 decade dai diritti di cui al presente articolo, qualora il datore di lavoro o l'INPS accerti l'insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti. Dall'attuazione delle disposizioni di cui al presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Quindi, a fronte dello specifico diritto, in capo al lavoratore, di beneficiare di permessi retribuiti, per sé qualora sia disabile, oppure per un familiare che versi in tale condizione, l'ordinamento ha posto il correlativo potere di controllo in capo all'ente erogatore e, addirittura, al datore di lavoro, che subisce l'assenza del prestatore.

La ratio della norma in esame emerge dalla piana lettura del testo normativo. Il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa spetta al "lavoratore dipendente ... che assiste persona con handicap in situazione di gravità ..."; esso è riconosciuto dal legislatore in ragione dell'assistenza, la quale è causa del riconoscimento del permesso. Tale essendo la ratio del beneficio e in mancanza di specificazioni ulteriori da parte del legislatore, l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile.

Nessun elemento testuale o logico consente di attribuire al beneficio una funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per l'assistenza prestata al disabile. Tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto (come quando i permessi siano sistematicamente utilizzati per proprie esigenze personali, in situazioni di tempo e di luogo incompatibili con l'espletamento dell'assistenza), non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto.

Secondo il costante orientamento della Suprema Corte (Cass. sez. lav. n. 4984/2014; Cass., n. 9217/2016; Cass., n. 8784/2015), il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 l. n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi dell'abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale. I permessi devono essere fruiti, dunque, in coerenza con la loro funzione. In difetto di tale nesso causale diretto tra assenza dal lavoro e prestazione di assistenza, devono ritenersi violati i principi di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell'Ente assicurativo.

Siffatta condotta è anzi connotata da 'un disvalore sociale' poiché il lavoratore, usufruendo del permesso per soddisfare proprie esigenze personali, ne scarica il costo sull'intera collettività.

Proprio per gli interessi in gioco, l'abuso del diritto, nel caso di specie, è particolarmente odioso e grave ripercotendosi senz'altro sull'elemento fiduciario trattandosi di condotta idonea a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento in quanto sintomatica di certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti.

Per tali ragioni, in siffatti casi, è stata ritenuta irrilevante, ai fini della legittimità del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la mancata affissione del codice disciplinare nei locali aziendali, essendo consolidata, nella giurisprudenza della Suprema Corte, l'affermazione secondo la quale in materia di licenziamento disciplinare, il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto "minimo etico" (Cass. n. 22626/2013, V. anche Cass., n. 20270/2009 secondo cui in tema di sanzioni disciplinari, la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica laddove il licenziamento faccia riferimento a situazioni concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro).

Ai fini della valutazione della gravità della condotta incidente sul sindacato circa la legittimità del recesso datoriale, rilevano, oltre all'intrinseco disvalore sociale del comportamento, la consapevolezza (se non addirittura la preordinazione) dell'utilizzo improprio dei permessi, insita nel fatto di avanzare una richiesta di frazionamento dei permessi strumentale al soddisfacimento di esigenze personali, prive di qualsiasi nesso con la prestazione di assistenza, ma anche nel carattere sistematico e continuativo dell'uso indebito, costituenti elementi anche sintomatici dell'intensità dell'elemento psicologico, trattandosi di circostanze idonee a integrare il precetto normativo della giusta causa (Cass. sez. lav., n. 17968/2016).

È stato, inoltre, ritenuto irrilevante che una parte del permesso sia stata effettivamente utilizzata per l'assistenza al soggetto disabile, poiché anche fruire di una parte del permesso per finalità avulse a quelle previste dalla disciplina in questione, legittima il licenziamento. Si rammenta, in particolare, che i permessi in questione vengono retribuiti, in via anticipata, dal datore di lavoro, che in seguito viene sollevato, del relativo onere ed anche ai fini contributivi, dall'ente previdenziale. Tali circostanze, inoltre, comportano una differente organizzazione del lavoro in azienda, che si deve quindi adattare all'assenza del prestatore.

L'attività di controllo sull'abuso del diritto ai permessi.

Riguardo all'attività di controllo esercitata dal datore di lavoro sul lavoratore assente dal posto di lavoro per fruizione del permesso di cui all'art. 33 in commento, la Corte di Cassazione (Cass. sez. lav., n. 4984/2014), ha ritenuto legittimo l'affidamento del relativo incarico, ad opera dello stesso datore, ad un'agenzia di investigazione privata. I controllo esercitato dalle guardie particolari giurate, ovvero da un'agenzia investigativa, mentre non può riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né l'inadempimento del l'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, in quanto riconducibile all'attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, risulta invece ammissibile se circoscritto alla verifica di eventuali atti illeciti, posti in essere dal lavoratore, di rilevanza anche penale, non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione, e qualora vi sia il fondato sospetto che il dipendente stia commettendo un illecito ed è pertanto necessario tutelare il patrimonio aziendale. Nel caso de quo il controllo, diretto all'accertamento dell'utilizzo improprio dei permessi di cui all'art. 33 della l. n. 104, non concerne, per l'appunto, l'esercizio della prestazione lavorativa, in quanto svolto al di fuori dell'orario di lavoro ed in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa.

Quindi, le prove emerse in esito alle indagini investigative ben possono rappresentare la base di un licenziamento per giusta causa del dipendente, essendo venuto meno il rapporto fiduciario che regge il contratto di lavoro.

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