Ricorso ex art. 3 l. 89/2001 per il risarcimento dei danni da irragionevole durata del processoInquadramentoCon il ricorso ex lege Pinto, il soggetto - parte del processo dalla durata eccessiva chiede, in particolare, il risarcimento del danno non patrimoniale derivatogli dal protrarsi sine die della vicenda giudiziaria e consistente nello stato d'animo negativo, caratterizzato da senso di impotenza e di sfiducia nella giustizia. FormulaPRESIDENTE DELLA CORTE DI APPELLO DI .... 1 RICORSO EX LEGE N. 89/2001 PER la Sig.ra ...., nato a ...., il ...., C.F. ...., residente in ...., via ...., rappresentato e difeso, come da procura in calce (oppure, a margine) del presente atto, dall'Avv. ...., C.F. ...., presso il cui studio elettivamente domiciliano in .... Si dichiara di volere ricevere tutte le comunicazioni relative al presente procedimento al fax ...., ovvero all'indirizzo PEC .... CONTRO il Ministero dell'Economia e delle Finanze 2, in persona del Ministro p.t., C.F. ...., con sede legale in ...., via ...., domiciliato ex lege presso l'Avvocatura Generale/Distrettuale dello Stato di .... in ...., via ...., PREMESSO CHE La ricorrente è una dipendente dell'Amministrazione comunale di ...., assunta per l'attuazione di programmi socialmente utili. Ai sensi della normativa in materia, la ricorrente avrebbe dovuto svolgere un periodo di prova della durata di un anno, consistente sia nell'effettivo esercizio dell'attività lavorativa presso l'ente, sia nella frequentazione di un corso di formazione; per il periodo indicato la ricorrente avrebbe subito una decurtazione del 30% in busta paga. La dipendente, tuttavia, nel periodo di prova previsto per l'arco di tempo da ...., a ...., non seguiva alcun corso di formazione, mai indetto né approvato dalla Regione .... e, sebbene in tal periodo svolgesse attività lavorativa ordinaria ed a tempo pieno, subiva ugualmente la decurtazione stipendiale. Con atto di diffida ad adempiere e di costituzione in mora, notificato il ...., la ricorrente, in uno ad altri, chiedeva all'ente il pagamento delle differenze retributive spettanti. Con ricorso al T.A.R. per la ...., ad R.G. ...., depositato in data .... la dipendente impugnava il silenzio - rifiuto serbato dall'Amministrazione comunale avverso la suddetta richiesta - diffida del .... L'Amministrazione intimata non si costituiva. In data ....la ricorrente depositava istanza di fissazione di udienza. In data ....la ricorrente depositava istanza di prelievo .... 3 Il TAR ...., con sentenza n. ...., depositata il ...., accoglieva nel merito il ricorso, e per l'effetto dichiarava illegittimo il silenzio - rifiuto e condannava l'ente intimato alla corresponsione delle somme richieste. Avverso tale sentenza, il Comune di ....proponeva appello al Consiglio di Stato, ad R.G. .... Con memoria di costituzione del ...., la ricorrente chiedeva il rigetto dell'appello, perché infondato in fatto e in diritto. A seguito di istanza di fissazione di udienza depositata dalla Sig.ra .... in data ...., nonché l'istanza di prelievo sempre dalla stessa depositata il ...., il Consiglio di Stato depositava in data ...., sentenza n. ...., con la quale rigettava l'appello proposto dall'Ente. La sentenza passava in giudicato in data .... L'irragionevole protrarsi della pendenza giudiziaria, nonostante le innumerevoli istanze di prelievo depositate innanzi al Tar .... ed al Consiglio di Stato dalla ricorrente 4, configura chiaramente il mancato rispetto del termine ragionevole del procedimento di cui all'art.6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della l. n. 848/1955. La causa, considerati entrambi i gradi di giudizio, è durata anni ...., ovvero dal deposito del ricorso innanzi al TAR .... in data ...., sino al deposito della sentenza del Consiglio di Stato del ...., chiaramente ben oltre i termini di ragionevolezza fissati dall'art. 2 della l. n. 89/2001. Né la vertenza presentava particolari difficoltà sul piano giuridico trattandosi di fattispecie pacifica in giurisprudenza. La mancata decisione nel merito ha inciso gravemente sulla vita della ricorrente, appartenente a famiglia monoreddito, per cui le somme spettanti erano necessarie e destinate al soddisfacimento dei bisogni alimentari propri e del nucleo familiare. Sussiste, ovviamente, il danno non patrimoniale derivante dall'enorme ritardo nella definizione della vertenza, alla luce del senso di stanchezza, sfiducia nella giustizia, di impotenza e quindi, in definitiva, di uno stato d'animo negativo suscettibile di ristoro in termini di danno morale. Danni che vanno liquidati secondo quanto stabilito dall'art. 2 bis, comma 1, della legge 89/2001. Tanto premesso, la ricorrente istante, come sopra rapp.ta, difesa e dom.ta, RICORRE perché l'Ecc.mo Presidente della Corte di Appello di ...., voglia dichiarare fondata la domanda e per l'effetto condannare il Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t., al risarcimento dei danni patrimoniali da liquidare in forma equitativa, nonché dei danni non patrimoniali nella misura equitativa di euro 800,00 per ogni anno trascorso di irragionevole durata del procedimento presupposto, dal deposito del ricorso al TAR ...., datato ...., sino al deposito della sentenza del Consiglio di Stato, oltre l'applicazione dell'incremento percentuale del .... %, per gli anni successivi al .... (terzo/settimo), ovvero nella somma diversa, minore o maggiore, ritenuta di giustizia, oltre rivalutazione monetaria ed interessi nella misura di legge sulla somma rivalutata. Si deposita copia autentica dei seguenti atti 5: a) ricorso TAR e Consiglio di Stato; b) memorie difensive TAR e Consiglio di Stato; c) istanze fissazione udienza e prelievo TAR e consiglio di Stato; d) verbali causa; e) provvedimenti del giudice; f) sentenze TAR e Consiglio di Stato. Luogo e data .... Firma Avv. .... PROCURA [1] [] [1] L'art. 3, comma 1, l. n. 89/2001 prevede che: “La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al presidente della corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto”. La domanda può essere proposta, a pena di decadenza, entro 6 mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva. Anteriormente alla modifica introdotta dalla l. n. 134/12 era possibile proporre la domanda anche “lite pendente”: in ordine all'attuale esclusione della detta possibilità si veda Cass., n. 13556/2016 che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 l. n. 89/2001 laddove condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo alla previa definizione del processo medesimo, in quanto il legislatore nell'esercizio della sua discrezionalità ha introdotto un sistema di rimedi preventivi diretti ad impedire la stessa formazione del ritardo processuale, così aderendo alla sentenza di monito n. 30/2014 della Corte Costituzionale circa la violazione dei principi CEDU. Sotto altro profilo le Sezioni Unite hanno chiarito da quando decorra il termine semestrale per la proposizione della domanda allorché, in relazione alla tutela del medesimo diritto, si siano succeduti un giudizio di cognizione e la fase di esecuzione forzata: ove si sia attivata nel termine di 6 mesi dalla definizione del procedimento di cognizione, la parte può esigere la valutazione unitaria dei procedimenti finalisticamente considerati come unicum, mentre qualora abbia lasciato spirare quel termine essa non può più far valere la irragionevole durata del procedimento di cognizione, essendovi soluzione di continuità rispetto al successivo processo esecutivo (v. Cass. S.U., n. 9142/2016). Con riferimento, poi, alle procedure fallimentari, è stato chiarito che il termine semestrale decorre dalla data di definitività del decreto di chiusura del fallimento, coincidente con il decorso del termine per la proposizione del reclamo o con il rigetto del reclamo medesimo, se esperito, ovvero con la decisione sul ricorso per cassazione proposto avverso la decisione assunta in sede di reclamo. Per il processo penale, il dies a quo va individuato nella data di irrevocabilità della sentenza conclusiva del processo presupposto, evidenziandosi che tale momento coincide con lo spirare dei termini per impugnare detta decisione ex art. 585 c.p.p. (v. Cass. n. 22818/2016). [2] [] [2] L'art. 3, comma 2, l. n. 89/2001 prevede che: “Il ricorso è proposto nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del Ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare. Negli altri casi è proposto nei confronti del Ministro dell'economia e delle finanze”. [3] [] [3] Cfr. art. 1 ter, l. n. 89/2001. [4] [] [4] Con riguardo all'istanza di prelievo da presentarsi nel processo amministrativo presupposto, è stato affermato che la detta istanza, presentata dal difensore in forza del mandato ricevuto per la costituzione in giudizio, è valida finché è efficace la procura alla lite che la sorregge e, dunque, anche dopo la morte della parte rappresentata, ove il procuratore, non dichiarando l'evento interruttivo, si avvalga della conseguenziale ultrattività del mandato all'interno del medesimo grado di giudizio ai sensi dell'art. 300 c.p.c. (v. Cass., n. 92/2016). Sotto altro profilo, è stato precisato che l'istanza di prelievo, anche quando condiziona, ratione temporis, la proponibilità della domanda di indennizzo, non incide sul computo della durata del processo, che va riferita all'intero svolgimento processuale non alla sola fase seguente la detta istanza (cfr. Cass., n. 13554/2016); più di recente v. Cass. II n. 30946/2017 secondo cui l'istanza di prelievo presentata nel giudizio presupposto ai sensi dell'art. 51 r.d. n. 642 del 1907, e l'istanza prevista dall'art. 71, comma 2, d.lgs. n. 104 del 2010, devono essere assimilate ai fini della proponibilità della domanda di equa riparazione, identificandosi le stesse per struttura e per funzione. [5] [] [5] Unitamente al ricorso dovrà depositarsi copia autentica degli atti della causa in quanto necessari a valutare la tempistica processuale e l'eventuale ritardo. Gli atti all'uopo richiesti sono: atto di citazione, comparse, memorie, verbali di causa e provvedimenti del giudice, nonché il provvedimento che ha definito il giudizio. CommentoNozione. Principi generali Il legislatore italiano ha introdotto un procedimento per salvaguardare il cittadino dall'irragionevole durata dei processi, senza dover ricorrere agli organi della Giustizia Europea. La disciplina dell'equa riparazione della Legge Pinto è stata, poi, oggetto di modifica ed integrazione ad opera del c.d. decreto Crescitalia (d.l. n. 83/2012, convertito con modificazioni dalla l. n. 134/2012). La nuova disciplina si applica ai ricorsi depositati a decorrere dalla data dell'11 settembre 2012. La legge prevede dei parametri fissi che identificano l'eccessiva durata del processo (sia esso civile, penale amministrativo o tributario). Sussiste la violazione allorché il processo ecceda la durata di 3 anni in primo grado, di due anni in appello e di un anno nel giudizio di legittimità; in ogni caso, si considera rispettato il termine ragionevole, se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore ai 6 anni. I termini si computano dal deposito del ricorso introduttivo del giudizio, ovvero dalla notifica dell'atto di citazione in ambito civile, dall'assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile oppure dalla legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari in sede penale. Non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso o di quello intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l'impugnazione e la proposizione della stessa; vanno, altresì, esclusi dal computo dei termini i ritardi dovuti a rinvii che il difensore chiede per aver aderito all'astensione dalle udienze (v. Cass., n. 12477/2015). È stato, poi, affermato che, ove l'erronea o incompleta notificazione dell'atto introduttivo sia imputabile alla parte, non potrà addebitarsi all'amministrazione della giustizia la necessità di procedere alla rinnovazione della notifica (ovvero all'integrazione del contraddittorio) sicché il relativo periodo non dovrà essere computato ai fini della determinazione della durata irragionevole - così v. Cass., n. 26208/2016. Ai sensi dell'art. 83, comma 10, del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 (in G.U. 17 marzo 2020 n. 70) - recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19, ascrivibile nell'ambito del quadro della cd. “normativa emergenziale”, è escluso dal computo dei termini per l'irragionevole durata del processo e della conseguente maturazione del diritto all'equa riparazione il periodo compreso tra l'8 marzo e il 30 giugno 2020. Il giudice, nel procedimento finalizzato ad accertare la violazione, andrà a valutare, oltre ai termini, anche la complessità del caso, l'oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione. Sul piano processuale, vale evidenziare che l'intervenuta decadenza dall'azione indennitaria, per mancato rispetto del termine semestrale ex art. 4 l. n. 89/01, è rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità, costituendo l'avvenuta proposizione della domanda entro detto termine una componente indefettibile del giudizio di equa riparazione. Si segnala che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 88/2018, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto. La disposizione censurata, nella interpretazione giurisprudenziale costante, preclude la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della ragionevole durata si assume essersi verificata (sentenza n. 30 del 2014; Corte di cassazione, sesta sezione civile, sentenze 1° luglio 2016, n. 13556, 12 ottobre 2015, n. 20463, 2 settembre 2014, n. 18539; seconda sezione civile, sentenza 16 settembre 2014, n. 19479). Invero, la Corte Costituzionale, già con la sentenza n. 30 del 2014, nello scrutinare analoga questione di legittimità costituzionale, aveva ravvisato nel differimento dell'esperibilità del rimedio un pregiudizio alla sua effettività, sollecitando l'intervento correttivo del legislatore. Il vulnus costituzionale riscontrato, tuttavia, non sarebbe stato colmato attraverso la previsione dei rimedi preventivi introdotti dall'art. 1, comma 777, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, tesi a prevenire l'irragionevole durata del processo ma non incidenti sull'effettività della tutela indennitaria una volta che essa sia maturata. Il legislatore del 2015 ha introdotto in particolare una serie di rimedi preventivi il cui mancato esperimento rende inammissibile la domanda di equa riparazione (art. 2, comma 1, della legge Pinto, come modificata) – per i processi che al 31 ottobre 2016 non abbiano ancora raggiunto una durata irragionevole né siano stati assunti in decisione (art. 6, comma 2-bis, della legge Pinto come modificata) – e che, in relazione alle diverse tipologie processuali, consistono o nell'impiego di riti semplificati già previsti dall'ordinamento (art. 1-ter, comma 1, della legge Pinto come modificata) o nella formulazione di istanze acceleratorie (art. 1-ter, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge Pinto come modificata). Si fa riferimento, invero, alla scelta del rito sommario cognizione ovvero, se il giudizio si sta svolgendo secondo le previsioni del rito ordinario di cognizione, alla circostanza che, entro sei mesi prima della scadenza del termine massimo di durata del giudizio, in relazione al grado di riferimento, la parte abbia richiesto la conversione del procedimento in quello sommario ex art. 183- bis c.p.c. ovvero la pronuncia di sentenza orale ai sensi dell' art. 281- sexies c.p.c. Tuttavia, già la Corte EDU aveva avuto modo di evidenziare come, per i paesi dove esistono già violazioni legate alla sua durata, per quanto auspicabili per l'avvenire, detti rimedi preventivi possono rivelarsi inadeguati (Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).
La compatibilità tra i sopra cennati rimedi preventivi e l'art. 6 CEDU è questione sottoposta all'esame della Corte Costituzionale, espressasi sul punto con la pronuncia di rigetto n. 121/2020. In particolare, la Consulta fondava la decisione di rigetto della sollevata questione di legittimità costituzionale sulla circostanza per cui la normativa censurata condiziona l'ammissibilità della domanda di equa riparazione alla proposizione di moduli procedimentali alternativi, idonei a catalizzare il corso del processo, evitando lo spirare del termine di durata massima; si tratta, invero, di forme di collaborazione della parte con l'autorità giudiziaria con le quali viene manifestata la disponibilità al passaggio al rito semplificato o al modello decisorio concentrato, in tempo potenzialmente utile ad evitare il superamento del termine di ragionevole durata del processo stesso (e che consentono, poi, se utilizzati, di proporre la domanda di equa riparazione ove tale superamento non venga scongiurato). Dunque, il legislatore opera con la normativa in commento un bilanciamento di valori di pari rilievo costituzionale, segnatamente il diritto di difesa e la ragionevole durata del processo, bilanciamento che rende la sanzione dell'inammissibilità della domanda per l'ipotesi nella quale tali rimedi preventivi non vengano attivati non sproporzionata né irragionevole La Consulta, nella motivazione della citata sentenza n. 88/2018 sottolinea a sua volta, che rinviare alla conclusione del procedimento presupposto l'attivazione dello strumento – l'unico disponibile, fino all'introduzione di quelli preventivi di cui s'è detto – volto a rimediare alla lesione dell'interesse a veder definite in un tempo ragionevole le proprie istanze di giustizia, seppur a posteriori e per equivalente, significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina. Il vulnus di effettività della tutela assicurata dalla legge in materia di equo indennizzo per irragionevole durata del processo viene rimarcato anche in sede europea. Il riferimento è alla decisione della Corte EDU, Sez. I, 28 aprile 2022, nel caso Verrascina ed altri c. Italia, ove viene riconosciuto ai cittadini il diritto di presentare ricorso dinanzi al giudice nazionale al fine di lamentare l'eccessiva durata del processo e richiedere l'equa riparazione in qualsiasi fase del procedimento principale, dunque anche in una fase antistante alla decisione definitiva. Legittimazione attiva L'attuale disciplina (come novellata dalla l. n. 134/2012) prevede il diritto all'equa riparazione in favore di chiunque abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa della durata eccesiva del processo. Vi rientrano, pertanto, tutte le parti processuali, indipendentemente dall'esito della causa, ed anche gli eredi della parte che abbia introdotto il giudizio del quale si lamenta la durata non ragionevole (v. Cass., n. 4842/2007; Cass., n. 28507/05; in senso parzialmente contrario v. la recente Cass. 8508/2016 secondo cui “in tema di equa riparazione, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, gli eredi dell'imprenditore fallito nel corso della procedura fallimentare hanno titolo per il riconoscimento dell'indennizzo “iure proprio” purché abbiano partecipato alla procedura, mediante istanze, richieste o ricezione di atti, potendo solo in tal caso configurarsi un interesse giuridicamente rilevante alla definizione in tempi ragionevoli del giudizio”). Anche le persone giuridiche hanno diritto all'equa riparazione del danno per l'irragionevole durata del processo (v. Cass., n. 8604/2007). È stata, invece, esclusa la legittimazione attiva in capo al debitore esecutato rimasto inattivo, posto che il processo esecutivo è preordinato al soddisfacimento dell'interesse del creditore, al cui potere coattivo egli soggiace, recuperando, solo nelle fasi di opposizione ex artt. 615 e 617 c.p.c., la pienezza della propria posizione di parte con il correlato contraddittorio e la possibilità della difesa tecnica (v. in tal senso Cass., n. 89/2016, ma anche Cass., n. 14382/2015, secondo la quale “la presunzione di danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo esecutivo non opera per l'esecutato, poiché egli dall'esito del processo riceve un danno giusto. Pertanto, ai fini dell'equa riparazione da durata irragionevole, l'esecutato ha l'onere di provare uno specifico interesse alla celerità dell'espropriazione, dimostrando che l'attivo pignorato o pignorabile fosse “ab origine” tale da consentire il pagamento delle spese esecutive e da soddisfare tutti i creditori e che spese ed accessori sono lievitati a causa dei tempi processuali in maniera da azzerare o ridurre l'ipotizzabile residuo attivo o la restante garanzia generica, altrimenti capiente”). È stata, altresì, negata la legittimazione della persona offesa dal reato relativamente alla irragionevole durata del procedimento di opposizione all'archiviazione, in quanto essa non assume, in detto giudizio, la necessaria veste di parte di una causa civile, né tantomeno quella di destinataria di un'accusa penale (v. Cass., n. 8291/2016; v., invece, Cass., n. 5294/2012 che riconosce il diritto della persona offesa all'indennizzo allorché si sia costituita parte civile). L'erede della parte deceduta nelle more del procedimento giudiziario ha diritto all'indennizzo iure proprio per il periodo successivo alla sua costituzione volontaria in giudizio ovvero alla notifica dell'atto di riassunzione, tenuto conto che prima di tale momento questi avrebbe, potenzialmente, potuto rinunciare all'eredità, essere un mero chiamato all'eredità ovvero versare in una condizione di non conoscenza della pendenza di una lite. Per cui allorquando l'erede è formalmente coinvolto nel giudizio può dolersi degli effetti disfunzionali dello stesso legati alla sua durata eccessiva. Non è esercitabile l'azione surrogatoria in riferimento al diritto all'equa riparazione derivante dalla irragionevole durata del processo, vertendosi di diritto ed azione che possono essere fatti valere solo dal loro titolare (Cass. 22975/2017. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva escluso l'accoglibilità dell'azione surrogatoria esercitata dai ricorrenti, creditori del convenuto nel processo presupposto, per far valere il diritto di costui all'equa riparazione per irragionevole durata di detto giudizio). Legittimazione passiva La parte che intende avanzare pretese riparatorie del pregiudizio derivatole dalla non ragionevole durata di giudizi svoltisi, in relazione alla medesima vicenda, davanti a giudici ordinari e a giudici amministrativi deve convenire in giudizio sia il Ministero della Giustizia che la Presidenza del Consiglio (oggi il MEF) (si v. da ultimo Cass. II, n. 25203/2023). Il diritto all'indennizzo: caratteri e pregiudizi risarcibili L'indennizzo previsto ha natura di “equa riparazione” e viene liquidato in una somma di danaro non inferiore ai 500 Euro e non superiore a 1500,00 Euro per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi che ecceda il termine ragionevole di durata del processo; la misura dell'indennizzo, in ogni caso, non potrà essere superiore al valore della causa, o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice. L'indennizzo viene determinato, a norma dell'art. 2056 c.c., tenendo conto dell'esito del processo in cui si è verificata la violazione di durata, del comportamento del giudice e delle parti, della natura degli interessi coinvolti e del valore e della rilevanza della causa rapportati anche alle condizioni personali del soggetto. Vale evidenziare che, sebbene il giudice goda di una certa discrezionalità nella quantificazione del risarcimento rispetto ai parametri fissati dalla CEDU, in ogni caso la cifra liquidata a titolo di equa riparazione non potrà mai essere “meramente simbolica” o irragionevole, dovendo il giudicante allinearsi alla tradizione giuridica ed al tenore di vita del paese interessato (v. Cass., n. 1364/2015). Viene, tuttavia, escluso il diritto all'indennizzo: a) in favore della parte soccombente condannata per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.; b) per la parte che abbia rifiutato senza giustificato motivo la proposta conciliativa del giudice (ex art. 91 comma 1 secondo periodo c.p.c.), ovvero quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponda esattamente al contenuto della proposta; c) nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte (cfr. ex multis, Cass. 27407/2019); d) quando l'imputato non abbia presentato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di cui all'art. 2 bis; e) in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia provocato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento. Non può invece escludersi la sussistenza del pregiudizio nelle ipotesi in cui il processo si sia estinto per rinuncia o inattività delle parti in causa. In tal senso, si è espressa la S.C. con sentenza Cass. n. 1606 /2021, evidenziando come il pregiudizio da irragionevole durata del processo non sia ancorabile al solo esito finale del giudizio a prescindere dalle varie fasi e gradi in cui il giudizio stesso si è svolto. L'indennizzo, infatti, proseguono gli Ermellini, va valutato con specifico riferimento anche alla sola durata della fase di primo grado, valutazione che nel caso concreto non era stata svolta (essendo durato il giudizio più di due decenni). L'indennizzo deve dunque essere valutato con specifico riferimento anche alla sola durata della fase di primo grado. Giova sottolineare che, mentre il danno economico direttamente scaturente dal ritardo processuale andrà provato nella sua esistenza e nel suo ammontare, per i danni non patrimoniali è destinata ad operare una presunzione di esistenza, con inversione dell'onere della prova a carico della parte convenuta (v. Cass. S.U., n. 1338/2004). Il danno non patrimoniale viene, dunque, considerato quale conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo: sebbene debba escludersi la configurabilità in tale materia di un danno in re ipsa, il giudice, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata l. n. 89/2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (ad es. è stato ritenuto idoneo, in diritto, a superare la presunzione di dannosità derivante dall'eccesso di durata del giudizio - e pertanto a determinare il rigetto della domanda di equa riparazione pronunciata dal giudizio di merito - il rilievo, nella sentenza impugnata, che nel decreto di citazione a giudizio per il reato di ricettazione fosse stata fissata per il dibattimento una data così lontana da implicare che necessariamente il reato si sarebbe estinto per prescrizione, di tal che neppure nel periodo di tempo successivo alla notifica del decreto il ricorrente aveva avuto reale incertezza sull'esito per lui favorevole della vicenda giudiziaria, onde nessun patema d'animo o sofferenza psichica egli poteva aver sofferto; v. per le argomentazioni e la fattispecie peculiare Cass., n. 19666/2006). Più di recente si segnala Cass.civ. II, ord. n. 9919/2019 secondo cui la presunzione del danno non patrimoniale conseguente all'accertata violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della CEDU, può essere superata qualora il giudice ravvisi nel caso concreto la ricorrenza di peculiari circostanze attinenti al giudizio presupposto, idonee a escludere la configurabilità di qualsivoglia patimento o stress ricollegabili all'irragionevole protrarsi del giudizio (in applicazione del predetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza della corte d'appello che aveva riconosciuto presuntivamente il danno non patrimoniale conseguente all'accertata irragionevole durata di un processo amministrativo, omettendo di considerare che il ricorrente, che aveva impugnato il giudizio di non ammissione all'esame di maturità, ma che era stato ammesso in via cautelare a sostenerlo, lo aveva poi superato conseguendo il relativo diploma, il che aveva determinato l'improcedibilità del ricorso per carenza di interesse). Quanto, poi, al danno biologico che si assuma derivare dall'eccessivo protrarsi del giudizio, esso non può ritenersi presuntivamente sussistente come voce autonoma (ed ulteriore rispetto al patema d'animo ed alla sofferenza morale, normalmente insiti nell'accertamento che la controversia non si è conclusa nei termini fisiologici), rivelandosi, piuttosto, necessaria la prova dell'esistenza del pregiudizio alla salute, fisica o psichica e del nesso di causalità tra questo e la irragionevole durata del processo (v. Cass. n. 26969/2016). Il decreto che provvede sulla domanda di equa riparazione deve necessariamente fornire la motivazione, anche sintetica, dei criteri adottati per la liquidazione del danno non patrimoniale in riferimento al caso concreto. Tale onere motivazionale sussiste anche nel caso in cui la liquidazione del danno non patrimoniale si attesti in misura corrispondente al livello minimo del parametro liquidatorio (cfr. sul punto Cass. civ.,sez. II, 16 luglio 2021, n. 20332: fattispecie, non emergeva il criterio con cui il primo giudice avesse ritenuto congruo il valore di 400 euro, pari al minimo della forbice prevista dal legislatore). In ordine alla prova del danno, con riferimento ai procedimenti nei quali trova applicazione l'art. 4 della l. n. 89/01, laddove consente la proponibilità della domanda indennitaria anche pendente lite, è stato precisato che il ricorrente che si avvalga della facoltà di agire per l'equa riparazione prima della definizione del giudizio presupposto ha l'onere di proporre e coltivare la domanda per ogni profilo di danno già maturato, attesi i principi di unicità, concentrazione e infrazionabilità, sicché nell'eventuale nuovo procedimento volto ad ottenere l'indennizzo per la durata ulteriore della causa, egli non può far valere danni verificatisi nell'arco temporale coperto dalla prima domanda di riparazione (v. Cass., n. 15803/2016). Giova segnalare che la S.C. è ritornata in argomento precisando che la successiva estensione della domanda di indennizzo al periodo di ulteriore durata del processo presupposto non costituisce “mutatio libelli”, venendo in rilievo una protrazione della medesima violazione, oggetto di specifica integrazione dell'originaria domanda ed insuscettibile di ledere il principio del contraddittorio. Inoltre, il rito applicabile a tale estensione, pure ove essa sia stata richiesta dopo l'entrata in vigore della l. n. 134 del 2012, resta quello dell'epoca di introduzione del giudizio “ex lege” Pinto, in ragione del carattere unitario dello stesso, nonostante quest'ultimo sia stato instaurato nel sistema regolato dalla normativa antecedente la citata l. n. 134 (così v. Cass. II n. 22300/2019). In particolare: irragionevole durata del processo e parte contumace Nell'ambito della giurisprudenza di legittimità era insorto un contrasto in ordine al rilievo da attribuire alla mancata costituzione della parte ai fini della configurabilità del diritto all'equa riparazione: mentre per alcune pronunce, solo in capo ad una parte processualmente attiva può presumersi un pregiudizio da durata irragionevole del processo, dovendosi, invece, escludere il diritto alla riparazione per la parte contumace (in questo senso v. Cass., n. 16284/2009), altre sentenze avevano sposato la soluzione positiva, valorizzando il dato formale per cui il contumace è comunque parte del giudizio (tra le molte, v. Cass., n. 21508/2007). Le Sezioni Unite con la sentenza n. 585/2014 aderiscono al secondo orientamento: viene, in particolare, evidenziato che, sul piano normativo, sia internazionale che interno, non sono previste per il contumace limitazioni del diritto ad ottenere la conclusione del giudizio in tempi ragionevoli, dovendosi considerare la mancata costituzione, anzitutto, come un comportamento della parte utilizzabile dal giudice quale parametro di valutazione del principio di ragionevole durata ai sensi dell'art. 2 co. 2 l. Pinto e, secondariamente, come una condotta che, lungi dal rappresentare indice univoco di disinteresse nei confronti della lite, induce a ritenere aprioristica la negazione del verificarsi di qualsivoglia danno in capo al contumace conseguente alla irragionevole durata del processo. A questo indirizzo si è conformata anche la successiva giurisprudenza (cfr. Cass., n. 25619/2014; sulla scorta di argomentazioni in parte analoghe, si è poi affermato il diritto all'equa riparazione in capo all'attore, allorché il giudizio si sia concluso con una statuizione di inesistenza della procura conferita al proprio difensore e tale questione abbia rappresentato l'oggetto esclusivo della decisione; così v. Cass., n. 26976/2016). Segue. Irragionevole durata del processo e procedura fallimentare La giurisprudenza (cfr. Cass. n. 950/2011) aveva già avuto modo di chiarire che, in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la nozione di procedimento presa in considerazione dall'art. 6 CEDU include anche i procedimenti fallimentari. Sulla base di tale premessa, è stato ulteriormente precisato che occorre aver riguardo - quale dies a quo - al decreto con il quale ciascuno dei creditori sia stato ammesso, in via tempestiva o tardiva al passivo (artt. 97, 101 e 99 l. fall.), rimanendo invece irrilevante il momento in cui l'allora presunto creditore abbia proposto domanda di insinuazione. Come precisa il Collegio, infatti, «solo dal momento dell'ammissione i creditori, effettivamente riconosciuti come tali, subiscono gli effetti dell'irragionevole durata dell'esecuzione fallimentare nella quale si sono insinuati, rimanendo per gli stessi irrilevante la durata pregressa della procedura». (così Cass. II, ord. n. 21200/2018). Segue. Irragionevole durata del processo e procedura esecutiva. Con l'ordinanza interlocutoria n. 806/2019 la S.C. ha interpellato le Sezioni Unite sulla seguente questione: “se la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell'Amministrazione nel pagamento dell'indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo costituito dal decreto di condanna pronunciato dalla Corte d'Appello ai sensi dell'art. 3 l. n. 89/2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole del processo per equa riparazione e, più in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettivo da vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole dello stesso processo presupposto”. Dovrà essere, dunque, chiarito se «nel caso in cui il processo presupposto sia un processo ex legge Pinto (c.d. Pinto su Pinto), ed al procedimento di cognizione, culminato con emissione di decreto di condanna (per irragionevole durata del processo) definitivo, abbia fatto seguito il procedimento esecutivo nei confronti della PA che non ha spontaneamente adempiuto, debba o meno essere considerato, ed in quali limiti, anche il periodo intercorso tra la notifica del titolo alla PA e l'instaurazione del processo esecutivo». Con un ultimo quesito, viene sollevata la questione «se detto periodo possa o meno qualificarsi come periodo intermedio, trattandosi di un lasso temporale sottratto all'amministrazione della giustizia, ma in cui si perpetua l'inadempimento dello Stato alla realizzazione del diritto accertato nel processo di cognizione ex legge Pinto». In tale contesto viene dunque chiesto alle Sezioni Unite di chiarire se «si debba superare la concezione autonoma delle due “fasi”, prescindendo, ai fini della continuità tra le stesse, da una instaurazione tempestiva della procedura esecutiva». Dubbia è anche la questione se il privato debba in ogni caso attendere l'infruttuoso maturare del termine di 6 mesi e 5 giorni prima di attivare la procedura esecutiva. Inoltre resta da chiarire se nell'arco temporale di 6 mesi dall'irrevocabilità della decisione di cognizione definitiva debba essere notificato l'atto di pignoramento o sia sufficiente la notifica del titolo esecutivo o dell'atto di precetto, se sia sufficiente per il privato notificare entro 6 mesi dall'irrevocabilità il titolo esecutivo all'Amministrazione o la notifica debba avvenire immediatamente. Con la pronuncia n. 19883/2019, le Sezioni Unite interpellate intervengono in materia e chiariscono che, ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso ex art. 4 della l. n. 89 del 2001, la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all'indennizzo a carico dello Stato-debitore va considerata unitariamente alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata entro sei mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo detto termine dalla definitività della fase esecutiva. Nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo non va considerato come "tempo del processo" quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l'inizio della fase esecutiva, quest'ultimo, invece, potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell'esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. All'uopo precisano, altresì, che la fase esecutiva eventualmente intrapresa dal creditore nei confronti dello Stato-debitore inizia con la notifica dell'atto di pignoramento e termina allorché diventa definitiva la soddisfazione del credito indennitario. |