Ricorso per cassazione avverso ordinanza della corte d'appello di liquidazione di indennizzo a titolo di equa riparazione per ingiusta detenzioneInquadramentoIn termini generali, l'istituto della riparazione per ingiusta detenzione risponde all'esigenza di alleviare il pregiudizio subito dall'individuo che sia rimasto, suo malgrado, vittima dell'erroneo esercizio della giurisdizione penale cautelare, patendo la limitazione della libertà personale nelle forme della custodia preventiva carceraria ovvero domiciliare. Il fondamento di tale istituto è di natura solidaristica, in quanto non mira al risarcimento del danno derivante da un fatto illecito (doloso, colposo o non imputabile sotto il profilo psicologico), ma costituisce una misura riparatoria, riequilibratirce e (solo in parte) compensatrice, in considerazione dei beni coinvolti, compressi con l'esercizio della giurisdizione penale cautelare, intrinsecamente portatrice di una componente di alea per la persona stessa. Un imputato assolto con formula piena dal reato di tentato furto in abitazione, aggravato dal numero delle persone e dall'uso di violenza sulle cose, e sottoposto, nel corso della fase delle indagini preliminari, dapprima alla misura della custodia in carcere e poi a quella degli arresti domiciliari, propone ricorso per cassazione avverso l'ordinanza con la quale la competente corte d'appello gli ha liquidato l'indennizzo per l'ingiusta detenzione subìta, evidenziando che il pregresso stato di detenzione sofferto in precedenza per altri fatti non giustificava, di per sé, una riduzione dell'indennizzo. FormulaSUPREMA CORTE DI CASSAZIONE RICORSO PER CASSAZIONE [1] avverso la sentenza n. .... emessa dal .... di .... in data .... e notificata in data .... (oppure, se la sentenza non è stata notificata, pubblicata in data ...) proposto dal Sig. ...., codice fiscale n. ... [2], residente in ...., alla via .... n. .... elettivamente domiciliato in Roma, alla via .... n. ...., presso lo studio dell'Avv. ...., codice fiscale ...., che lo rappresenta e difende per procura ...., e che dichiara di voler ricevere le comunicazioni da parte della Cancelleria al numero telefax .... o al seguente indirizzo di posta elettronica certificata [3]: CONTRO Ministero della Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t., domiciliato presso l'Avvocatura dello Stato, in Roma, alla via .... n. .... * * * Il Sig.... con sentenza del .... emessa all'esito di giudizio abbreviato, era stato assolto dal Tribunale di .... in relazione al reato di tentato furto in abitazione, aggravato dal numero delle persone e dall'uso di violenza sulle cose; nel corso delle indagini era stato sottoposto per .... alla misura cautelare della custodia in carcere e per .... a quella degli arresti domiciliari; con ricorso depositato il .... adiva la Corte d'Appello di .... per ottenere il riconoscimento, in suo favore, di un indennizzo, a titolo di equa riparazione per l'ingiusta detenzione subita dal .... al .... quantificato in euro ....; a tal fine deduceva di aver subìto, oltre ad un evidente danno non patrimoniale, la perdita di chances lavorative e il deterioramento dei legami affettivi familiari a causa della restrizione personale; la Corte territoriale, con ordinanza del .... depositata il .... gli riconosceva la minor somma di euro .... [4], ponendo la corresponsione a carico dell'amministrazione finanziaria. IN DIRITTO Il presente ricorso viene proposto deducendo l'unico motivo di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.: 1) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale; erronea qualificazione del fatto e degli elementi a fondamento della richiesta di riparazione per ingiusta detenzione; errata quantificazione dell'indennizzo concesso; mancata e/o apodittica motivazione [5]. La Corte di merito erroneamente ha reputato non fornita la prova sul tipo di attività svolta prima dell'incarcerazione, del danno da relazione con i propri familiari e di quello da mancato sfruttamento di chance lavorative. Ha, inoltre, ritenuto apoditticamente che il precedente periodo di carcerazione dal .... al .... avrebbe determinato un impatto meno negativo con l'ambiente carcerario, riconoscendo, quindi, un indennizzo di Euro 150,00 giornalieri per il periodo trascorso in regime di custodia cautelare e di Euro 100,00 per il periodo trascorso agli arresti domiciliari. Partendo da quest'ultimo profilo, la giurisprudenza ha affermato che l'importo da liquidarsi per la detenzione in carcere ammonta ad Euro 235,85 giornaliere, mentre quello per gli arresti domiciliari può essere dimezzato. L'eventuale discostamento da tali importi andrebbe motivato, mentre nel caso di specie l'unico elemento invocato dal giudicante, come mero riferimento, a sostegno della decisione sarebbe la precedente carcerazione subita dal .... che nessuna influenza può avere avuto sulla carcerazione ingiustamente subita. La corte locale avrebbe dovuto fornire una motivazione sia pure in maniera sintetica, ma comunque esaustiva, che desse conto del materiale probatorio utilizzato e delle valutazioni espresse, laddove si è limitata apoditticamente ad affermare: “deve qui rilevarsi che dal certificato penale del .... emerge che egli ha espiato, in ambito inframurario dal .... al .... la pena detentiva irrogatagli con sentenza del Tribunale di .... in data .... per cui l'impatto psicologico con l'ambiente carcerario è stato certamente meno traumatico avendone egli già avuto pregressa, e non minimale, esperienza". Nel caso di specie non è sufficiente il riferimento a precedenti condanne, in quanto, se è legittimo operare una riduzione per la preesistenza di condanne, non è sufficiente la mera constatazione della loro esistenza, occorrendo uno specifico riferimento alle esperienze detentive subite e alla loro idoneità a determinare una rilevante compromissione dell'immagine sociale o una assuefazione all'ambiente carcerario, tali da giustificare la presunzione di una minore afflittività della pena ingiustamente subita (Cass. pen., n. 112/2011 e Cass. pen. IV, n. 15909/2013). Va ricordato che la giurisprudenza della Corte Suprema, in tema di liquidazione del quantum relativo alla riparazione per ingiusta detenzione, è ormai consolidata nell'affermare (cfr. per tutte Cass. pen., S.U., n. 24287/2001) la necessità di contemperare il parametro aritmetico - costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell'indennizzo di cui all'art. 315 c.p.p., comma 2 (Euro 516.456,90), e il termine massimo della custodia cautelare di cui all'art. 303 c.p.p., comma 4, lett. c), espresso in giorni (sei anni ovvero 2190 giorni), moltiplicato per il periodo anch'esso espresso in giorni, di ingiusta restrizione subita - con il potere di valutazione equitativa attribuito al giudice per la soluzione del caso concreto, che non può mai comportare lo sfondamento del tetto massimo normativamente stabilito. In più pronunce successive si è poi affermato che la liquidazione dell'indennizzo per la riparazione dell'ingiusta detenzione è svincolata da parametri aritmetici o, comunque, da criteri rigidi, e si deve basare su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, (così Cass. pen., IV , n. 40906/2009, che, in applicazione di detto principio, ha confermato la legittimità della liquidazione dell'indennizzo per l'ingiusta detenzione effettuata tenendo conto non soltanto dei parametri aritmetici, ma anche delle sofferenze morali patite e della lesione della reputazione conseguente allo strepitus fori; conf. Cass. Pen., IV, n. 34857/2011; Cass. pen., IV, n. 46772/2013). In tema di riparazione per l'ingiusta detenzione, nel liquidare l'indennità, dunque, il giudice è vincolato esclusivamente al tetto massimo normativamente stabilito, che non può essere superato, ma non anche al parametro aritmetico fondato su tale limite, individuato dalla giurisprudenza per determinare la somma dovuta per ogni giorno di detenzione sofferto. Tale meccanismo offre, perciò, solo una base di calcolo, che deve essere maggiorata o diminuita con riguardo alle contingenze proprie del caso concreto, pur restando ferma la natura indennitaria e non risarcitoria dell'istituto (Cass. pen., IV, n. 23319/2008). Quanto allo specifico tema del valore da attribuire ad una precedente detenzione, nettamente prevalente è l'indirizzo giurisprudenziale (cfr. Cass. pen., IV, n. 6742/2014), secondo cui è illegittima la decisione con cui il giudice riduce automaticamente l'importo da liquidarsi per l'ingiusta detenzione, determinato secondo il criterio aritmetico, per il solo fatto che il soggetto abbia già subito precedenti periodi di sottoposizione a regime carcerario. La pregressa esperienza carceraria non può costituire, infatti, un valido elemento da cui desumere, automaticamente e necessariamente, una minore afflittività del periodo di detenzione. Invero, un'automatica e generalizzata riduzione della somma determinata secondo il cosiddetto "criterio aritmetico" per tutti i soggetti che abbiano subito precedenti condanne e detenzioni renderebbe la valutazione equitativa priva di una adeguata e logica motivazione, tenuto conto che la esistenza di precedente esperienza carceraria può avere, secondo i casi, sia un effetto di riduzione della sofferenza cagionata dalla carcerazione sia un effetto di massimizzazione di quella sofferenza. La Corte d'appello, non può, come nel caso che ci occupa, operare detta riduzione senza indicare sulla base di quali elementi e circostanze specifiche si dovesse ritenere che la precedente carcerazione sofferta dal ricorrente avesse avuto l'effetto di determinare una minore sofferenza. In altri termini, la pregressa esperienza carceraria può incidere sulla determinazione dell'ammontare dell'indennizzo, ma giammai in termini presuntivi ed assiomatici (cfr., sul punto, l'altro precedente della stessa sezione di cui alla sentenza n. 18551 del 30 gennaio 2014, n. 18551). Un'automatica e generalizzata riduzione della somma liquidata per tutti i soggetti che abbiano subito precedenti detenzioni renderebbe la valutazione equitativa priva di adeguata e logica motivazione (cfr. Cass. pen., IV, n. 46772/2013). Il ricorrente ha, inoltre, offerto elementi adeguati in ordine al tipo di attività economica svolta prima dell'incarcerazione e alla perdita di occasioni di lavoro o di guadagno a causa della restrizione, depositando .... [6]. La circostanza che i legami affettivi familiari del .... abbiano subito un serio deterioramento a causa della restrizione cautelare, anche in ragione del fatto che la maggior parte del periodo è stata trascorsa in regime custodia cautelare e solo un breve periodo presso la dimora dell'interessato, è desumibile dai seguenti elementi probatori: .... Tanto più che come già rilevato, il ricorrente aveva impostato la propria esistenza secondo i canoni della legalità con una attività lavorativa continuativa. L'ingiusta detenzione ne ha vanificato ogni effetto. Il danno da relazione è aggravato dall'elemento della lunghezza del periodo di detenzione subita, che, accompagnato dalla gravità dei reati ingiustamente contestati, ha incrinato i rapporti con la moglie. Anche in relazione al danno per perdita di chance lavorative, il .... è stato impossibilitato a coltivare rapporti con soggetti (....) con i quali avrebbe potuto concretizzare intenzioni lavorative. L'impossibilità di reperire regolare attività lavorativa si è protratta anche durante gli arresti domiciliari. Inoltre il ricorrente, che negli anni .... svolgeva la propria esistenza nella piena legalità, si è visto annullati tutti i propri sforzi di riabilitazione a causa della nuova ed ingiusta carcerazione. Il ricorso è altresì fondato sui seguenti atti processuali e sui seguenti documenti .... che si allegano. Tutto ciò premesso, nell'interesse del Sig. .... si CONCLUDE affinché la Suprema Corte di Cassazione voglia cassare l'ordinanza impugnata, rinviando la causa, anche ai fini delle spese processuali relative al presente ed ai precedenti gradi di giudizio, alla Corte di Appello di .... affinché proceda ad una nuova liquidazione dell'indennizzo spettante per l'ingiusta detenzione subìta. Si depositano i seguenti documenti: 1) copia autentica della sentenza impugnata; 2) richiesta di trasmissione alla Corte di Cassazione del fascicolo d'ufficio; 3) documenti ....; 3) .... . Si depositano, inoltre, quattro copie in carta libera del presente ricorso e della predetta sentenza. Ai fini del versamento del contributo unificato per le spese di giustizia dichiara che il valore della causa è di Euro .... Luogo e data .... Firma Avv. ... PROCURA ALLE LITI Il presente modello di ricorso in Cassazione è corrispondente al modello predisposto dalla Corte Suprema di Cassazione, dalla Procura Generale della Corte di Cassazione, dall'Avvocatura Generale dello Stato e dal Consiglio Nazionale Forense che il 1° marzo 2023 hanno sottoscritto un nuovo “Protocollo d'intesa sul processo civile in Cassazione", fornendo indicazioni sulle regole di redazione e sul nuovo schema di ricorso in Cassazione. Il ricorso deve strutturarsi nei seguenti paragrafi: --a) sentenza impugnata, estremi del provvedimento impugnato (Autorità giudiziaria che lo ha emesso, codice ufficio, Sezione, numero del provvedimento, data della decisione, data della pubblicazione, data della notifica se notificato); --b) codice materia correlato al codice-oggetto del giudizio di merito (ad eccezione del giudizio tributario), secondo le disposizioni riportate sul sito della Corte di cassazione ed allegate al presente protocollo (v., All. n. I), al fine della corretta assegnazione del ricorso alla Sezione tabellarmente competente; --c) valore della controversia, specificazione del valore della controversia ai fini della determinazione del contributo unificato; d) parole chiave, massimo 10 ( dieci) parole, che descrivano sinteticamente la materia oggetto del giudizio; --e) sintesi dei motivi del ricorso (in non più di alcune righe per ciascuno di essi e contrassegnandoli numericamente), mediante la specifica indicazione, per ciascun motivo, delle norme di legge che la parte ricorrente ritenga siano state violate dal provvedimento impugnato e delle questioni trattate. Nella sintesi dovrà essere indicato per ciascun motivo anche il numero della pagina ove inizia lo svolgimento delle relative argomentazioni a sostegno nel prosieguo del ricorso, eventualmente inserendo il link di invio diretto alla pagina di riferimento; --f) svolgimento del processo, esposizione, di regola, in massimo 5 pagine, del fatto processuale in modo funzionale alla chiara percepibilità delle ragioni poste a fondamento delle censure sviluppate nella parte motiva; --g) motivi di impugnazione, argomenti a sostegno delle censure già sinteticamente indicate nella parte denominata “sintesi dei motivi”. L'esposizione deve rispondere al criterio di specificità e di concentrazione dei motivi e deve essere contenuta, di regola, nel limite massimo di 30 pagine. Per ciascuno dei motivi devono essere indicati gli atti processuali, i documenti, i contratti o gli accordi collettivi sui quali il motivo si fonda, illustrandone il contenuto rilevante (eventualmente inserendo apposito link); --h) conclusioni, provvedimento richiesto (ad esempio: cassazione con rinvio, cassazione senza rinvio con decisione di merito, ecc.). Sono state dettate disposizione in tema di: documenti da depositare ai sensi dell'art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c. Atti e/o documenti espressamente indicati in relazione a ciascun motivo, elencati secondo un ordine numerico progressivo .I relativi file vanno denominati utilizzando la stessa nomenclatura e numerazione utilizzate nell'elenco caratteri. Per facilitare la lettura, si raccomanda di utilizzare caratteri di tipo corrente e di dimensioni di almeno 12 pt nel testo, con interlinea 1,5 e margini orizzontali e verticali di almeno cm. 2,5; regole di redazione dei controricorsi e ricorsi incidentali. Tutte le indicazioni relative al ricorso, comprese quelle sulle misure dimensionali e i caratteri, si estendono, per quanto compatibili, ai controricorsi. In particolare, per quanto attiene alla sintesi dei motivi, sarà opportuna una sintesi degli argomenti difensivi correlati ai singoli motivi di ricorso (“contromotivi”). Analogamente, sarà opportuno indicare, in relazione a ciascun motivo del ricorso avversario, gli eventuali atti, documenti o contratti collettivi su cui si fonda la difesa. Qualora il controricorso contenga anche un ricorso incidentale, si applicano integralmente le previsioni dettate per i ricorsi; di memorie illustrative. Le memorie non devono superare, di regola, le 15 pagine, con l'osservanza delle raccomandazioni sull'uso dei caratteri previsti per i ricorsi. Sono stati anche forniti chiarimenti sulla presentazione del ricorso in Cassazione. Il mancato rispetto dei limiti dimensionali e delle ulteriori indicazioni sin qui previste non comporta l'inammissibilità o l'improcedibilità del ricorso (e degli altri atti difensivi or ora citati), salvo che ciò non sia espressamente previsto dalla legge. Nel caso che per la loro particolare complessità le questioni da trattare non appaiano ragionevolmente comprimibili negli spazi dimensionali indicati, dovranno essere esposte specificamente, nell'ambito del medesimo ricorso (o atto difensivo), le ragioni per le quali sia risultato necessario scrivere di più. La presentazione di un ricorso incidentale, nel contesto del controricorso, costituisce di per sé ragione giustificatrice di un ragionevole superamento dei limiti dimensionali fissati. L'eventuale riscontrata e motivata infondatezza delle motivazioni addotte per il superamento dei limiti dimensionali indicati, pur non comportando inammissibilità del ricorso (o atto difensivo), può essere valutata ai fini della liquidazione delle spese. Dai limiti dimensionali sono esclusi: a) l'intestazione; b) l'indicazione delle parti processuali, del provvedimento impugnato, dell'oggetto del giudizio, del valore della controversia, della sintesi dei motivi e delle conclusioni; c) l'elenco degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso; d) la procura in calce; e) la relazione di notificazione. L'uso di particolari tecniche di redazione degli atti (in particolare, quando consentano la ricerca testuale all'interno dell'atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all'interno dell'atto), tali da agevolarne la consultazione e la fruizione al magistrato e alle altre parti del processo, comporta l‘aumento del compenso professionale, ai sensi dell'art. 4, comma 1-bis, del d.m. 10 marzo 2014, n. 55. In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il C.F., oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv., con modif., dalla l. 15 luglio 2011, n. 111). [2] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall'art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv. con modif. dalla legge n. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, d.l. 193/2009 conv. con modif. dalla legge 24/2010. [3] A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3 bis, d.P.R. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. 90/2014 conv., con modif., dalla legge 114/2014. L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014, conv. con modif., dalla legge 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà». [4] In tema di riparazione per ingiusta detenzione, benché incomba sull'instante l'onere di specificare i fatti su cui si fonda la richiesta e l'oggetto della stessa, anche con riferimento ai danni subiti, e di dimostrare tali presupposti producendo in giudizio, ed allegandoli alla domanda, i documenti che si pongono in rapporto di immediatezza e specificazione con il contenuto della stessa, è dovere del giudice esercitare i propri poteri officiosi ed integrare la documentazione incompleta o insufficiente (Cass. pen., IV, n. 19282/2014). [5] Ormai le figure della “mancanza assoluta della motivazione sotto l'aspetto materiale e grafico”, della “motivazione apparente”, del “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e della “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” circoscrivono l'ambito in cui è consentito il sindacato di legittimità dopo la riforma dell'art. 360 primo comma n. 5 c.p.c. operata dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134. A tal fine deve essere dedotto l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo) e, dunque, la parte ricorrente ha l'onere di indicare il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato” (testuale o extratestuale) da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti, nonché la sua “decisività”, fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U., n. 8053/2014). [6] Occorre indicare con precisione il punto dell'atto di appello nel quale la questione è stata sviluppata e trascriverne, in osservanza del principio di autosufficienza, almeno i passaggi salienti. CommentoNel caso di ingiusta detenzione, è dovuto alla vittima dalla pubblica amministrazione - profili di danno patrimoniale, biologico, morale a parte - anche il risarcimento del danno esistenziale (contra Cass. pen. IV, n. 6879/2011). Il danno esistenziale subito dal soggetto per l'arresto e la carcerazione ingiustificata finisce per assorbire il danno morale, perché nella sua valutazione e quantificazione non si può non tener conto del carico di sofferenza connesso al modificato regime di vita e la privazione della libertà personale (App. Genova 7 febbraio 2003). In particolare, è risarcibile il danno esistenziale subito dal soggetto che, per l'ingiusta carcerazione dovuta ad errore giudiziario, non abbia potuto esercitare i diritti fondamentali della persona umana, la cui privazione, trattandosi di posizioni soggettive costituzionalmente protette, fa sorgere ipso iure il diritto al risarcimento. E' chiaro che, mentre l'ingiusta privazione della libertà personale sofferta per un solo giorno da un incensurato può provocare un gravissimo danno morale, ma, generalmente, non produce alcun danno biologico o esistenziale, al contrario, una lunga carcerazione preventiva per un soggetto poi assolto, da sempre inserito in un'organizzazione criminale e con plurime esperienze carcerarie (circostanza che determina una certa assuefazione all'ambiente carcerario tale da giustificare la presunzione di una minore afflittività della successiva ingiusta detenzione), è idonea a provocare un grave danno biologico o esistenziale, laddove quello morale può mancare del tutto (per Cass. pen. IV, n. 43373/2015, peraltro, va giudicata illegittima la riduzione automatica dell'importo dovuto a titolo di indennizzo per ingiusta detenzione, dovuta a un soggetto che ha già avuto esperienze detentive; dello stesso avviso è Cass. pen. IV, n. 6742/2014, secondo cui l'esistenza di una precedente esperienza carceraria può avere, secondo i casi, sia un effetto di riduzione della sofferenza cagionata dalla carcerazione, sia un effetto di massimizzazione di quella sofferenza). Si pensi, quanto a quest'ultimo pregiudizio, all'interruzione delle attività lavorative, di quelle ricreative, dei progetti in corso, dei contatti sociali coltivati, dei rapporti affettivi cui si teneva, alla perdita della stima in sè stessi e di quella goduta nell'ambiente di lavoro e di vita, della capacità di affermarsi nella società. Peraltro, va evidenziato che, in tema di danni provocati dall'attività giudiziaria, non è configurabile alcuna ipotesi risarcitoria in relazione alla cd. "ingiusta imputazione", ossia all'imputazione rivelatasi infondata a seguito di sentenza di assoluzione o di archiviazione (così Cass. pen., III, n. 11251/2008), esulando essa dalle ipotesi normativamente previste dall'ordinamento vigente (insuscettibili di analogia, attesa la natura eccezionale delle fattispecie risarcitorie in esse contemplate), che ammette la riparazione del danno, patrimoniale e non, unicamente nei casi di: a) custodia cautelare ingiusta (art. 314 c.p.p.); b) irragionevole durata del processo (l. 24 marzo 2001, n. 89, cd. Legge Pinto); c) condanna ingiusta accertata in sede di revisione, cd. "errore giudiziario" (art. 643 c.p.p.). La Suprema Corte ha indicato con fermezza i limiti di tali eccezionali ipotesi di responsabilità dello Stato, con il duplice obiettivo di sbarrare la strada a interpretazioni analogiche e di evitare possibilità di duplicazioni risarcitorie. Nell'istituto ex art. 314 c.p.p., l'uso dell'aggettivo «equa» - che affianca il sostantivo «riparazione» -, il riferimento alla sola «custodia cautelare subita» - di per sé riparabile con meri criteri indennitari - e l'esistenza di un tetto massimo - pari a 516.456,90 euro (art. 315, comma 2, c.p.p.) -, rendono la liquidazione di ardua compatibilità con criteri di tipo risarcitorio. Peraltro, nella liquidazione dell'equa riparazione, l'ammontare massimo di cento milioni di lire non va riferito alla durata massima della custodia cautelare, per poi essere calcolata una somma proporzionalmente minore per periodi detentivi inferiori. Più precisamente, in materia di riparazione per ingiusta detenzione, il parametro aritmetico, al quale riferire la liquidazione dell'indennizzo, è costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell'indennizzo fissato in euro 516.456,90 dall'art. 315, comma 2, c.p.p. e il termine massimo della custodia cautelare pari a sei anni ex art. 303, comma 4, lett. c), espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch'esso espresso in giorni, di ingiusta restrizione subita, che deve essere opportunamente integrato dal giudice innalzando o riducendo il risultato di tale calcolo numerico, nei limiti dell'importo massimo indennizzabile, per rendere la decisione più equa possibile e rispondente alla specificità (positiva o negativa) della situazione concreta (Cass. pen., III, n. 29965/2014). La corresponsione della somma deve compensare, invece, le conseguenze personali, di natura morale, patrimoniale, fisica e psichica, del periodo di detenzione, ivi compreso il danno all'immagine e all'identità personale (App. Firenze 7 dicembre 1992). Per quanto il relativo parametro in tale fattispecie non venga richiamato, è inevitabile che il giudice, nell'esercizio del suo potere equitativo, valuti le conseguenze personali e familiari derivanti dalla privazione della libertà. Con riferimento alla liquidazione della somma per la riparazione dell'errore giudiziario (ipotesi sub c) si rinvia alla specifica formula. Per entrambi gli istituti si pone il problema dell'inquadramento nell'ambito risarcitorio o indennitario. La distinzione è rilevante sul piano pratico, in quanto, mentre nel risarcimento il danno va accertato, nella riparazione la prova è in re ipsa, risultando il relativo diritto ancorato alla constatazione della mera esistenza dell'errore. E' chiaro altresì che la costruzione della riparazione come risarcimento dei danni condurrebbe alla conseguenza di lasciare fuori dal paradigma applicativo degli artt. 314 e 643 c.p.p. tutte le ipotesi di errore dovute al caso fortuito, indipendenti, cioè, dal dolo o dalla colpa del giudice, posto che l'imputabilità soggettiva della lesione è un elemento essenziale per la configurabilità dell'illecito civile. In entrambi i casi, inoltre, quanto al danno non patrimoniale, potrà darsi risalto ai patimenti, alle angosce, alla compromissione delle condizioni di salute, al discredito sociale, allo strepitus fori (il clamore suscitato dalla privazione della libertà personale sarà, poi, maggiore o minore a seconda della gravità del reato contestato e, a parità di gravità, della qualità della persona; in materia di ingiusta detenzione, cfr. Cass. pen., III, 16 febbraio 2005, la quale non ha considerato rilevante, ai fini della riparazione, lo strepitus fori, posta la personalità già socialmente compromessa dell'avente diritto, gravato da condanne per rapina, lesioni personali e furto), al danno all'immagine, alla separazione o al divorzio e, in generale, a qualsiasi tipo di danno, morale, biologico ed esistenziale, scaturito dall'ingiusto provvedimento. Peraltro, in tema di procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione, il giudice può conoscere soltanto del diritto all'indennizzo e non anche di quello ad ottenere un risarcimento del danno collegato alla restrizione della libertà, ma conseguente ad un fatto ingiusto (si pensi alla sottoposizione a regime di alta sorveglianza senza contatti con la famiglia, con notevole pubblicità della notizia), essendo l'istituto della riparazione regolamentato dalle norme processuali penali e restando ad esso estranee le disposizioni civilistiche di cui agli art. 2043 ss. c.c. che disciplinano il risarcimento del danno da fatto illecito (Cass. pen., III, n. 43453/2014). Per quanto la riparazione per ingiusta detenzione costituisca uno strumento indennitario da atto lecito e non risarcitorio, diretto a compensare solo le ricadute sfavorevoli (patrimoniali e non) procurate dalla privazione della libertà, attraverso un sistema di chiusura con il quale l'ordinamento riconosce un ristoro per la libertà ingiustamente, ma senza colpe, compressa, si tende ad escludere che l'istituto riparatorio sia riconducibile nell'alveo dell'indennizzo, in quanto il sacrificio del diritto del singolo (sotto forma di privazione della libertà personale) non sempre risulta determinato da un atto legittimo della pubblica autorità, posto che la fattispecie generatrice ex art. 314, comma 2, c.p.p. sottende, al contrario, una custodia cautelare disposta o mantenuta in forza di un titolo illegittimo, per carenza dei presupposti applicativi ex artt. 273 e 280 c.p.p. Poiché la somma dovuta dallo Stato in base all'art. 314 c.p.p. deve essere commisurata alla durata della ingiusta detenzione e non a quella della vicenda processuale, è del tutto irrilevante, ai fini della quantificazione dell'indennizzo, il disagio che la parte abbia subito in conseguenza della vicenda giudiziaria e dei tempi del procedimento penale (Cass. pen., IV, n. 30578/2016). Nella materia in esame non viene in gioco un vero e proprio «onere probatorio», bensì, più sfumatamente, un «onere di allegazione», che impone all'istante di prospettare l'esistenza di quelle particolari «conseguenze personali e familiari» originate dalla privazione della libertà personale di cui si vuole che il giudice tenga conto nella determinazione del quantum debeatur. Laddove il danneggiato non abbia adeguatamente indicato tali conseguenze, il giudice potrà determinare il nocumento facendo riferimento a quelle presumibili, secondo l'id quod plerumque accidit, in relazione alle circostanze emergenti dagli atti nel caso concreto (cfr. Cass. pen. III, 10 febbraio 2004; Cass. pen. IV, 7 febbraio 2003; Cass. pen. IV, 18 aprile 2007; Cass. pen. IV, 20 febbraio 2007; Cass. pen. IV, 20 gennaio 2006; Cass. pen. IV, 7 ottobre 2003). Tenuto conto della natura indennitaria e non risarcitoria dei danni conseguenti alla ingiusta detenzione, non necessita, ai fini della relativa liquidazione, la prova certa del rapporto di causalità tra i danni di salute lamentati e la carcerazione subita. È sufficiente - in relazione alla patologia lamentata di natura neurologica e psichica - l'allegazione della sussistenza delle stesse in seguito alla carcerazione subita e della qualificata probabilità della connessione delle stesse con gli effetti negativi derivanti in capo al ricorrente dalla ingiusta carcerazione subita (Cass. pen. III, n. 6999/2014). II diritto ad una somma di denaro pari a otto euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all'art. 3 della CEDU, previsto dall'art. 35 ter, comma 3, ord. pen., si prescrive in dieci anni, decorrenti dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle indicate condizioni. Coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima dell'entrata in vigore della detta nuova normativa, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall'art. 2 d.l. n. 92 del 2014 conv. con modif. in l. n. 117 del 2014, hanno anch'essi diritto all'indennizzo ex art. 35-ter, comma 3, ord. pen., il cui termine di prescrizione in questa caso non opera prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del d.l. cit. (Cass. S.U, n. 11018/2018). Il principio è stato di recente ribadito da Cass. VI, 22 ottobre 2019 n. 26974 . In materia, è opportuno evidenziare che, in tema di risarcimento del danno ex art. 35-ter, comma 3, della l. n. 354 del 1975, qualora, in una cella collettiva, la superficie utilizzabile da ciascun detenuto risulti inferiore a 3 mq., sussiste la "forte presunzione" della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, la quale, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, può essere superata attraverso il riscontro di adeguati fattori compensativi (che si individuano nella brevità della restrizione carceraria, nell'offerta di attività in ampi spazi all'esterno della cella, nell'assenza di aspetti negativi relativi ai servizi igienici e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione) - la cui sussistenza è onere dello Stato, convenuto in giudizio, provare. In quest'ottica, Sez. 3, Ordinanza n. 8878 del 29/03/2023 ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva ritenuto superata la suddetta presunzione, sulla scorta del mero, generico richiamo alle risultanze di una relazione della casa circondariale, da cui emergeva che ai detenuti fosse assicurata la possibilità di fruire di attività ricreative e sportive, trascurando di prendere in esame le altre circostanze analiticamente evidenziate dal ricorrente, quali l' ulteriore riduzione degli spazi a 1.20 mq "pro capite" per l'ingombro del tavolino - da riporre in bagno per potersi coricare nel letto -; l'assenza di acqua calda; l'inadeguatezza del riscaldamento; il turno doccia tre volte a settimana con acqua fredda; la permanenza complessiva all'interno della cella per quindici ore giornaliere. |