Comparsa di costituzione e risposta in materia di giudizio risarcitorio per responsabilità civile magistratoInquadramentoAll'esito dell'intervento normativo operato dalla legge n. 18/2015, dal testo dell'articolo 2 della legge n. 117/1988 (meglio nota come “legge Vassalli”) si evince che le principali novità introdotte si sostanziano nell'aver: a) eliminato la limitazione della possibilità di chiedere ed ottenere il risarcimento ai soli casi di danni che derivino dalla privazione della libertà personale (laddove ora la previsione della risarcibilità del danno non patrimoniale è estesa a tutte le ipotesi di danno ingiusto); b) soppresso la previsione che escludeva, sempre e comunque, che nell'esercizio delle funzioni giudiziarie potesse dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto o quella di valutazione del fatto e delle prove (clausola cd. di salvaguardia); c) allargato i casi in cui è configurabile la colpa grave; d) individuato i parametri sulla cui base è possibile procedere alla determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge, nonché del diritto dell'Unione europea (a prescindere dall'elemento soggettivo della negligenza inescusabile; la figura mantiene, peraltro, attraverso il riferimento alla rilevanza dell'inescusabilità della violazione, un aggancio a coefficienti di natura soggettiva); e) esteso, con riguardo all'ipotesi di emissione di un provvedimento cautelare emesso fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione, l'ambito di applicazione anche ai provvedimenti cautelari reali, in aggiunta a quelli personali (quanto a questi ultimi, si discute se nella previsione sia o meno ricompreso il danno cd. da ingiusta detenzione, per la quale si rinvia alla specifica formula). La Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel costituirsi in giudizio nell'ambito di un procedimento instaurato per far valere la responsabilità di un magistrato, deduce che la richiesta di rinvio a giudizio integra di norma un'attività di valutazione del fatto e della prova, esclusa dall'ambito della l. 13 aprile 1988, n. 117, ai sensi del suo art. 2, comma 2, benché sempre alla condizione che non si fondi su fatti pacificamente insussistenti, ovvero avulsi dal contesto probatorio acquisito. FormulaTRIBUNALE DI .... [1] COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA [2] Nell'interesse di: Presidenza del Consiglio dei Ministri, P. I. n. .... [3], in persona del Presidente ...., nato a .... il ...., C.F. ...., elettivamente domiciliato ex lege presso l'Avvocatura dello Stato, in ...., alla via .... n. ...., che la rappresenta e difende per legge, con dichiarazione di voler ricevere le comunicazioni, ai sensi dell'art. 125, comma 1, c.p.c. e dell'art. 136, comma 3, c.p.c., al seguente numero di fax ...., oppure tramite PEC .... [4]; -resistente- CONTRO Sig. ...., nato a .... il ...., C.F. ...., con sede legale in ...., alla via .... n. ...., elettivamente domiciliato in ...., alla via .... n. ...., presso lo studio dell'Avv. ...., che lo rappresenta e difende, in virtù di procura in calce/a margine del ricorso; -ricorrente- * * * PREMESSO CHE Con ricorso depositato il .... e depositato, unitamente al pedissequo decreto giudiziale, in data ...., la soc. .... ha chiesto exl. n. 117/1988 la condanna dello Stato al risarcimento dei danni in relazione ad attività giudiziaria espletata dal dott. ...., magistrato della Procura della Repubblica di .... La pretesa risarcitoria è basata sulla circostanza che la reiterata richiesta di rinvio a giudizio formulata da quel magistrato, più volte dichiarata nulla per difetti formali e poi seguita da assoluzione con formula piena [5], l'aveva esposta ad azioni di natura tributaria e fiscale tali da rendere del tutto inoperante la società ed aggravando ancor più lo stato economico della stessa, tra cui l'avvio di un'esecuzione esattoriale per euro .... per il recupero di contributi in conto capitale exl. n. 488/1992, e la diminuzione del proprio originario capitale sociale. La colpa grave del magistrato consisterebbe nell'aver ritenuto esistente un determinato fatto escluso in maniera incontrovertibile dagli atti del procedimento, ponendolo a base - quale elemento avulso dal contesto probatorio di riferimento - della reiterata richiesta di rinvio a giudizio, sempre formulata in modo indeterminato. La Presidenza del Consiglio dei Ministri si costituisce in giudizio, chiedendo il rigetto del ricorso, siccome manifestamente infondato [6]. IN DIRITTO Preliminarmente, il ricorso andrà dichiarato inammissibile, sia in ragione dell'intervenuta decadenza ai sensi della l. n. 117 del 1988, art. 4, sia per la riconducibilità del comportamento tenuto dal magistrato alla valutazione dei fatti e delle prove, in linea con la normativa applicabile. Nel merito: è noto che, ai fini del rinvio a giudizio, il g.u.p., sulla richiesta del pubblico ministero, deve valutare, sotto il solo profilo processuale - ed al fine di fondare la sentenza di non luogo a procedere ex art. 425, comma 3, c.p.p. -, se gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o, comunque, non idonei a sostenere l'accusa in giudizio, non potendo, invece, procedere a valutazioni di merito del materiale probatorio, nè tanto meno esprimere un giudizio di colpevolezza dell'imputato, sicché gli è inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui le fonti di prova si prestino a soluzioni alternative e aperte o, comunque, ad essere diversamente rivalutate (tra le ultime, v. Cass. pen.II, 14 novembre/5 dicembre 2013, n. 48831). In altri termini, il giudice dell'udienza preliminare ha una funzione di filtro e, nel rispetto di tale funzione, gli spetta solo decidere se il materiale probatorio offerto dall'accusa sia o meno idoneo a sostenere l'accusa in giudizio: giudizio prognostico che, con tutta evidenza, è, però, di natura processuale e non di merito, sicché dev'essere escluso il proscioglimento in tutti quei casi in cui le fonti di prova a carico dell'imputato si prestino a soluzioni alternative o aperte o, comunque, che possano essere diversamente rivalutate (in termini, tra le altre, Cass. pen. II, 8 - 29 ottobre 2008, n. 40406). Tanto comporta che, parimenti, il magistrato del pubblico ministero deve formulare la sua richiesta al giudice dell'udienza preliminare, tesa al rinvio a giudizio, tutte le volte che ritenga che gli elementi probatori raccolti non siano insufficienti o contraddittori o, comunque, non idonei a sostenere l'accusa in giudizio, secondo un giudizio della stessa natura di quello imposto al giudice e, cioè, di mera verosimiglianza della prognosi favorevole. Proprio per questo, alla sola evidente condizione che egli non fondi tale richiesta su elementi del tutto avulsi dal contesto probatorio acquisito (per tutte: Cass. ord., n. 23890/2012; Cass. n. 7846/2011; Cass. n. 15227/2007; Cass. n. 25133/2006; Cass. n. 16935/2002), la sua è un'attività di valutazione dei fatti e delle relative prove e, come tale, inidonea a fondare la sua responsabilità ex l. n. 113 del 1988, ai sensi del suo art. 2, comma 2. E tale conclusione non soffre certo eccezioni in tutti i casi in cui la formula assolutoria risulti, all'esito del dibattimento o di ulteriore attività processuale, la più ampia possibile, come quella dell'insussistenza del fatto: tale evenienza essendo insita nel sistema, che, per quanto detto, si fonda su di una valutazione prognostica e probabilistica - ed in quanto tale suscettibile di un'evoluzione in senso negativo rispetto all'ipotesi originaria di colpevolezza - e solo esige che i fatti posti a fondamento di richiesta e di rinvio a giudizio non siano completamente avulsi dal contesto probatorio acquisito. In caso contrario, si devolverebbe al pubblico ministero - ed al medesimo giudice dell'udienza preliminare -, con la responsabilità dell'esito finale del procedimento, anche una funzione di giudizio istituzionalmente ad esso estranea ed anzi in insanabile contrasto con il sistema costituzionalmente vigente dell'obbligatorietà dell'azione penale. Ora, nella specie alcuni importanti elementi nel senso della possibilità di sostenere l'accusa in dibattimento sussistevano comunque, atteso che .... In definitiva, la richiesta di rinvio a giudizio integra di norma un'attività di valutazione del fatto e della prova, esclusa dall'ambito della l. 13 aprile 1988, n. 117, ai sensi del suo art. 2, comma 2, benché sempre alla condizione che non si fondi su fatti pacificamente insussistenti, ovvero avulsi dal contesto probatorio acquisito: i quali debbono essere analiticamente dimostrati ed indicati dal soggetto, che se ne pretende leso, in relazione al momento in cui la richiesta è stata formulata e, in quanto tali, sottoposti al giudice del merito e poi con i consueti requisiti di autosufficienza del ricorso, anche alla corte di legittimità. Tanto premesso ed esposto, ...., come in epigrafe rappresentata e difesa, rassegna le seguenti: CONCLUSIONI Voglia l'Ill.mo Giudice adito, preliminarmente, dichiarare inammissibile il ricorso e, in via subordinata, nel merito, rigettare la domanda. Con vittoria di spese, diritti e compensi del giudizio. Offre in comunicazione e deposita in Cancelleria i seguenti documenti: 1) ....; 2) ....; Luogo e data .... Firma Avv. .... PROCURA ALLE LITI (se non apposta a margine) In tema di responsabilità civile del magistrato, l'art. 4 della l. n. 117/ 1988 (come modificato dall'art. 3 della l. n. 420/ 1998), nell'attribuire la cognizione dell'azione risarcitoria concessa a chi abbia subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato, con dolo o colpa grave, nell'esercizio delle sue funzioni, al tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi ex artt. 11 c.p.p. e 1 disp. att. c.p.p., individua un criterio di determinazione della competenza territoriale prevalente rispetto a quello di cui all'art. 152 del d.lgs. n. 196 del 2003, nonché agli altri previsti dal codice di procedura civile (Cass. VI, n. 18000/2015). Nei giudizi di responsabilità civile promossi contro lo Stato, ai sensi della legge 17 aprile 1988, n. 117, per il risarcimento dei danni conseguenti a comportamenti, atti o provvedimenti posti in essere da magistrati con dolo o colpa grave nell'esercizio delle loro funzioni, quando più giudici, di merito e di legittimità, cooperino a fatti dolosi o colposi anche diversi nell'ambito della stessa vicenda giudiziaria, la causa è necessariamente unitaria e la competenza per territorio deve essere attribuita per tutti in base al criterio di cui all'art. 11 c.p.p., richiamato dall'art. 4, comma 1, della legge n. 117 del 1988; qualora, invece, tale giudizio abbia ad oggetto solo i comportamenti, atti o provvedimenti dei magistrati della Corte di Cassazione, non applicandosi in tal caso lo spostamento di competenza previsto dal citato art. 11 cod. proc. pen., la competenza per territorio è attribuita secondo la regola del forum commissi delicti, sicché spetta in ogni caso al Tribunale di Roma, ai sensi dell'art. 25 c.p.c., quale foro del luogo in cui è sorta l'obbligazione (Cass. VI n. 13475/2019). Il contenuto della comparsa di costituzione e di risposta è disciplinato dall'art. 167 c.p.c. Per le indicazioni da effettuare nel corpo della comparsa deve farsi riferimento all'art. 125 c.p.c. Il convenuto deve costituirsi a mezzo del procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge, almeno settanta giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione, depositando in cancelleria il proprio fascicolo contenente la comparsa di cui all'articolo 167 con la copia della citazione notificata, la procura e i documenti che offre in comunicazione. Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti". In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il codice fiscale, oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv., con modif., dalla l. 15 luglio 2011, n. 111). L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall'art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv. con modif. dalla legge n. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, d.l. n. 193/2009 conv. con modif. dalla legge 24/2010. A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3 bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv., con modif., dalla legge n. 114/2014. L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014, conv. con modif., dalla legge 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà». A norma dell'art. 4, comma 2, ancora oggi l'azione contro lo Stato per il risarcimento del danno cagionato dal magistrato nell'esercizio della funzione giudiziaria può essere esercitata soltanto dopo che siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari (onde evitare che l'azione risarcitoria diventi un'alternativa ai normali rimedi endoprocessuali, impugnatori o oppositori), e comunque, quando non sia più possibile la modifica o la revoca del provvedimento (Cass. n. 1884/1994). Dovendo colui che si assuma ingiustamente leso dal provvedimento del giudice preventivamente (ed inutilmente) percorrere le vie che la legge processuale predispone per rimuovere gli errori e le violazioni di legge in ipotesi realizzatesi, l'azione de qua dovrà dirsi inammissibile, ad esempio, tutte le volte in cui, a seguito della emanazione di un provvedimento di urgenza, e della conseguente instaurazione della fase di merito, le parti abbiano, poi, convenuto una soluzione extraprocessuale della lite, con ciò impedendo ogni possibilità di revisione o di revoca della decisione posta, poi, a base della richiesta risarcitoria (Cass. I, n. 4682/1998). Per Cass. I, n. 871/2002, è stata reputata inammissibile la domanda di risarcimento del danno conseguente all'inserimento di espressioni, ritenute ingiuriose, nella motivazione di una sentenza civile di primo grado, che sia stata proposta in pendenza del giudizio di appello avverso la detta sentenza. Alla stessa stregua è stata negata l'ammissibilità dell'azione in un caso in cui, lamentandosi la lesione del diritto di libertà personale, prodotta dal protrarsi dell'ingiusta detenzione, non era stata proposta istanza di riesame avverso l'ordinanza che aveva disposto la misura della custodia in carcere (Cass. I, n. 15246/2001). È chiaro che, quando l'azione risarcitoria sia fondata su di un provvedimento per il quale è previsto uno specifico rimedio, il termine ora triennale di decadenza (la cui inosservanza è rilevabile d'ufficio) di cui all'art. 4, comma 2, per esercitare l'azione risarcitoria nei confronti dello Stato decorre dal momento in cui siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti, mentre il medesimo termine decorre dall'esaurimento del grado del procedimento nel cui ambito si è verificato il fatto dannoso solo quando nei confronti del provvedimento in questione non siano previsti rimedi di sorta. Solo l'eventuale intervento volontario (adesivo-dipendente) del magistrato nel giudizio intentato contro lo Stato renderebbe a lui opponibile (nel successivo eventuale - a seguito di condanna - giudizio di rivalsa) l'accertamento dei fatti compiuto nel detto giudizio. È stato eliminato il cd. filtro disciplinato dall'art. 5 (ora abrogato), il quale prevedeva la declaratoria di inammissibilità della domanda, oltre che quando non erano stati rispettati i termini o i presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4, quando la stessa si rivelava manifestamente infondata. CommentoL'errore di tipo revocatorio consiste nell'affermazione di un fatto, la cui esistenza sia incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento (cioè la cui inesistenza sia chiaramente posta in luce dalle risultanze acquisite agli atti). Alla detta fattispecie non è riconducibile l'errore del giudice che, sulla base di un'esatta percezione di elementi acquisiti, insufficienti e non pertinenti e tali poi ritenuti nei successivi gradi del giudizio, abbia affermato la sussistenza di una situazione di fatto rilevante per la decisione (Cass. I, n. 12357/1999). Poiché sussiste la responsabilità del magistrato per avere affermato un fatto incontrastabilmente escluso dagli atti del procedimento, Trib. Brescia 29 aprile 1998, ha configurato la responsabilità a carico di un giudice istruttore che aveva emesso mandati di cattura per il reato di falso in bilancio aggravato e continuato sulla base delle qualità, in realtà inesistenti, di amministratore e sindaco di una società per azioni. L'errore di fatto deve apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche, e non può consistere, per converso, in un preteso, inesatto apprezzamento delle risultanze processuali. In particolare, per quanto riguarda l'esame delle prove testimoniali, l'errore di fatto si è ritenuto configurabile soltanto limitatamente all'attività preliminare della lettura delle deposizioni raccolte e della percezione del loro incontestabile significato letterale e logico da parte del giudice, e non pure in relazione all'attività successiva, consistente nella interpretazione e valutazione del loro contenuto (Cass. n. 7679/1986; conf. Cass. n. 476/1996; contra Cass. n. 1009/1994). Si è configurato, inoltre, un errore di fatto revocatorio nell'affermazione, contenuta nella sentenza di appello, circa l'avvenuta notificazione della sentenza di primo grado, in palese contrasto con le risultanze degli atti prodotti nel giudizio, escludenti incontestabilmente siffatta notificazione (Cass. n. 11056/2000). Si è, infine, ritenuta fattispecie di errore di fatto l'affermata inesistenza agli atti del processo di un documento per contro ritualmente prodotto ed esistente (Cass. n. 6319/2000; Cass. n. 6556/1997). Per Cass. VI, ord., n. 3916/2015, la richiesta di rinvio a giudizio da parte di un magistrato del pubblico ministero postula, siccome posto a presidio della sua autonomia, l'apprezzamento dei presupposti del chiesto rinvio e, dunque, sulla sussistenza di elementi probatori, non contraddittori, idonei a sostenere l'accusa in dibattimento. Poiché la relativa valutazione è necessariamente prognostica e, quindi, probabilistica sulla loro potenzialità espansiva nel corso di quest'ultimo, la conclusione vale anche nell'ipotesi di successiva assoluzione per insussistenza del fatto contestato, alla condizione che la richiesta non si fondi su fatti pacificamente insussistenti, ovvero avulsi dal contesto probatorio acquisito. Premesso che costituisce “colpa grave” del magistrato la emissione di provvedimento concernente la libertà della persona “fuori dei casi consentiti dalla legge”, si discute se rientri in tale ambito il caso della mancata ricerca, da parte del pubblico ministero, di elementi di non colpevolezza in favore della persona sottoposta alle indagini, ai sensi dell'art. 358 c.p.p. L'art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (nella formulazione anteriore alla novella della legge 27 febbraio 2015, n. 18), nel fissare i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, escludeva che potesse dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto, con clausola di salvaguardia che non era suscettibile di disapplicazione per ipotetico contrasto con i principi generali affermati nelle pronunce della Corte di Giustizia in tema di responsabilità degli Stati membri per l'attività di propri organi giurisdizionali, difettando, per un verso, il collegamento tra la lesione dei diritti azionati e la violazione delle norme di diritto comunitario - che non interviene a regolare il diritto penale sostanziale degli Stati membri - ed essendo preclusa, per altro verso, la verifica pregiudiziale di compatibilità di una normativa nazionale con i principi della Carta di Nizza, laddove la materia disciplinata dalla normativa nazionale non rientri nell'ambito del diritto dell'Unione. Tale principio è stato applicato da Cass. III, n. 1068/2019, con riferimento ad un'azione di responsabilità intentata nei confronti di un giudice penale il quale, nel pronunciare una condanna per il reato di cui all'art. 612-bis c.p., era incorso nella violazione delle prerogative processuali assicurate all'imputato, sul piano comunitario, in relazione alla consumata impossibilità di interloquire sul fatto in relazione al quale era intervenuta la condanna, nonché in relazione all'illegale determinazione della pena. Non essendo più la grave violazione di legge configurabile solo in presenza di una negligenza inescusabile nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, non è ora necessario che nel corso dell'attività giurisdizionale si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o, ancora, lo sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero (in precedenza, invece, Cass. III, n. 7272/2008, aveva, ad esempio, escluso la responsabilità del magistrato per grave violazione di legge derivante dalla emissione di un provvedimento di sequestro ritenuto erroneo dal giudice del gravame, in quanto detto sequestro era fondato su una interpretazione estensiva del concetto di “cose pertinenti al reato”, sia pure opinabile e discutibile, ma plausibile sul piano logico-giuridico; conf. Cass. III, n. 11593/2011. Sulla nozione di «negligenza inescusabile» cfr.: Cass. n. 15227/2007; Cass. n. 25133/2006). Dovrebbe ancora oggi restare nell'area dell'esenzione da responsabilità la lettura della legge secondo uno dei significati possibili, sia pure il meno probabile e convincente, quando dell'opzione interpretativa seguita si dia conto e ragione nella motivazione (Cass. I, n. 11859/2001; Cass. n. 7272/2008, cit.). Inoltre, va, in proposito, ricordato che dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l'interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell'ambiente processuale o l'emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l'abbandono e consentano, pertanto, l'adozione dell'esegesi da ultimo formatasi (Cass. S.U., n. 10864/2011). Anche il dissenso dall'interpretazione di una norma di legge, propugnata dalle sezioni unite della Corte di cassazione, ove motivato in diritto, non dovrebbe determinare la responsabilità civile per colpa grave del magistrato di merito dissenziente (Cass. I, n. 8260/1999), in quanto esso è comunque espressione dell'attività di interpretazione delle norme riservata al magistrato. Quanto al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, mentre l'articolo 267 TFUE conferisce ai giudici nazionali (non di ultima istanza) la più ampia facoltà di adire la Corte, qualora essi ritengano che una causa dinanzi ad essi pendente faccia sorgere questioni che richiedono un'interpretazione o un esame della validità delle disposizioni del diritto dell'Unione essenziali ai fini della soluzione della lite di cui sono investiti (sentenze del 27 giugno 1991, Mecanarte, C-348/89, Racc. pag. I-3277, punto 44, e del 5 ottobre 2010, Elchinov, C-173/09, Racc. pag. I-8889, punto 26), il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all'obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria solo quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un acte claire che, in ragione dell'esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell'evidenza dell'interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (cfr. Cons. St. V, 13 giugno 2012, n. 3474). Parimenti, l'obbligo di rimettere in via pregiudiziale le questioni relative all'interpretazione delle norme comunitarie alla Corte di giustizia non sussiste allorché il giudice nazionale abbia constatato che la questione non è pertinente, la disposizione comunitaria abbia già costituito oggetto di interpretazione e la corretta applicazione del diritto comunitario si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (Cass. pen. IV, n. 34753/2012). Il travisamento del fatto (che non deve più, al pari del travisamento delle prove, essere qualificato da “negligenza inescusabile” e, quindi, ormai prescinde da ogni indagine di tipo soggettivo) è diverso dall'errore di fatto vero e proprio, risolvendosi il primo nell'omesso esame di un fatto decisivo che mina alla base il sillogismo che conduce ad una decisione incoerente con le premesse; il secondo (v. infra) nella affermazione errata della esistenza/inesistenza di un fatto inesistente/esistente che, allo stesso modo, conduce ad un approdo incoerente con le premesse, quali avrebbero dovuto essere. A seguito delle modifiche dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., ad opera dell'art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, il vizio di “travisamento della prova” ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale. Si ha travisamento della prova altresì qualora si utilizzi un'informazione inesistente ovvero venga omesso l'esame di elementi probatori offerti dalle parti (cfr. Cass. pen. V, n. 7465/2013, in un caso in cui il giudice di merito aveva indicato il contenuto di una intercettazione in modo difforme da quello reale, e la difformità era risultata decisiva ed incontestabile). In ambito penale, il travisamento della prova è il vizio costituito dall'avere il giudice di merito utilizzato per la decisione una prova inesistente (ad esempio, il teste indicato in sentenza non esiste) o un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello effettivo (ad esempio, nella ricognizione personale la persona ha indicato Tizio e non Caio, come è, invece, scritto nella sentenza; così, Cass. IV, n. 29920/2004). In sede civilistica, si tende a ritenere che l'apprezzamento del giudice del merito, che abbia ritenuto pacifica e non contestata una circostanza di causa, qualora sia fondato sulla mera assunzione acritica di un fatto, possa configurare un travisamento (cfr., Cass. II, n. 19921/2012; vedasi altresì Cass. I, n. 17057/2007, per un caso in cui, in una fattispecie relativa a controversia in tema di separazione personale, era stato denunciato l'errore del giudice di merito nell'aver fatto risalire al 1999, anziché al 2000, la scrittura con cui le parti avevano sancito la cessazione della convivenza). Ovviamente, tale vizio è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio (cioè abbia il carattere della decisività nell'ambito dell'apparato motivazionale sottoposto a critica), rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale /probatorio. Il travisamento della prova può, ad esempio, essere configurato nel caso di omessa valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia o di difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall'assunzione della prova e quelli che il giudice di merito medesimo ne abbia inopinatamente tratto (Cass. S.U., n. 1119/2000). Difficilmente saranno ascrivibili addebiti ad un magistrato, quando abbia ricostruito il fatto in modo diverso da quello sostenuto dalle parti, ma basandosi sulle risultanze processuali e giustificando il suo convincimento con motivazione adeguata e logica. In tema di interpretazione di una norma, sono intervenute con intento nomofilattico le Sezioni Unite, La questione esaminata delle Sezioni Unite, esaminando una questione che riguardava l'«individuazione del discrimine nella grave violazione di legge contemplata dalle fattispecie illecite individuate dalla l. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, lett. a) (nel testo previgente alla modifica della l. n. 18 del 2015) e dal d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. g), tra attività interpretativa insindacabile ed attività sussumibile nella fattispecie illecita, con specifico riferimento alla violazione di norma di diritto in relazione al significato ad essa attribuito da orientamenti giurisprudenziali da ritenersi consolidati». L'esigenza di un chiarimento sul punto derivava dalla antinomia tra la c.d. clausola di salvaguardia di cui all'art. 2, comma 2, l. 117/1988, che esclude che potesse dar luogo a responsabilità civile, così dello Stato come del singolo magistrato, l'attività di interpretazione di norme di diritto, e il combinato disposto dei commi 1 e 3 della stessa norma che include tra le ipotesi di colpa grave integranti responsabilità la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile. Il contrasto tra tali norme deriva dal fatto che esse mirano a tutelare valori contrapposti, una la libertà di interpretazione della disposizione di legge, l'altra il principio di responsabilità del magistrato. L'equilibrio tra tali valori, si legge nella pronuncia sopra citata: «è stato individuato, nel testo originario, privilegiando una ampia affermazione di operatività della clausola di salvaguardia, a fronte della quale le ipotesi di responsabilità per colpa grave espressamente previste operano soltanto in relazione all'area sottratta alla operatività di essa: può configurarsi una responsabilità civile del magistrato per colpa grave soltanto se, in negativo, non si tratti di una attività sottratta alla responsabilità, in quanto riconducibile alla interpretazione di norme di diritto (nonché alla valutazione dei fatti e delle prove) e purché, in positivo, sia stata accertata l'esistenza di una grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile». Il corollario di tale ricostruzione, secondo le Sezioni Unite, è che «solo l'attività che non può essere considerata prodotto del percorso intellettivo di interpretazione (e di valutazione) è assoggettabile a responsabilità e purché il giudice si renda responsabile di una grave violazione di legge, dovuta ad inescusabile negligenza». La pronuncia non si limita a tale affermazione di principio ma elenca anche le tipologie di violazione di legge (per errore di diritto) che esulano dalla attività interpretativa. Si tratta: - dell'errore nella individuazione della disposizione, che si colloca a monte del lavorio interpretativo, nella fase di analisi della fattispecie (la Corte lo qualifica come errore percettivo), e può derivare da un difetto di conoscenza, che può mancare o essere troppo superficiale (qualora non si individui la disposizione da applicare alla fattispecie, in caso di successione delle leggi nel tempo o di altre variazioni, o si individui una disposizione in luogo di un'altra); - dell'errore nell'applicazione della norma, che sussiste quando, individuata correttamente la disposizione, non si applica alla fattispecie, ovvero non se ne fanno discendere gli effetti dovuti; - dell'errore consistente nella attribuzione alla norma di un significato che essa non può avere, né linguisticamente né giuridicamente, ad esempio perché è proprio di un'altra norma, di un altro istituto. Tutte queste ipotesi rilevano come fonte di responsabilità civile del magistrato qualora superino la soglia della negligenza inescusabile. Queste conclusioni sono coerenti con la pregressa giurisprudenza della Suprema Corte che aveva ravvisato i presupposti della responsabilità di cui al citato art. 2, allorquando vi fosse stata una lettura della norma «in termini contrastanti con ogni criterio logico o l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero» (Cass. civ., sez. III, 18 marzo 2008, n. 7272; Cass. III, 7 aprile 2016 n.6791). Di recente, la Terza Sezione civile (Cass. n. 31321/2021) ha dichiarato rilevanti e non manifestamente infondate, tra l'altro, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, della l. n. 117 del 1988, nel testo originario, nella parte in cui, prevedendo che colui il quale abbia subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni possa agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, limita la risarcibilità dei danni non patrimoniali ai soli casi di privazione della libertà personale. La stessa Terza Sezione (Cass. n. 19037/2021) ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite in ordine alla risoluzione della questione di massima di particolare importanza relativa all'assoggettabilità al procedimento speciale previsto dalla l. n. 117 del 1988 delle azioni in cui la responsabilità del magistrato dedotta riguardi la violazione del diritto dell'Unione, con particolare riferimento all'obbligo del giudice di ultima istanza di provvedere al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in specie quanto alla forma dell'atto introduttivo ed all'applicazione del termine biennale di cui all'art. 4, comma 2, della citata legge, nel testo, ratione temporis applicabile, vigente prima delle modifiche apportate dalla l. n. 18 del 2015. Quando l'azione risarcitoria è fondata sull'adozione di un provvedimento per il quale sia previsto uno specifico rimedio (si pensi ad un provvedimento di custodia cautelare), il termine biennale di decadenza decorre dal momento in cui siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione, o gli altri rimedi previsti, e comunque non siano più possibili la revoca o la modifica del provvedimento, e non dall'esaurimento del grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il danno, che costituisce il presupposto dell'azione solo nei casi di provvedimenti per i quali non siano previsti rimedi. In applicazione di tale principio, Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 31270 del 09/11/2023 ha negato che, in relazione alla fase delle indagini preliminari ed alle misure cautelari, il dies a quo di decorrenza dell'azione potesse essere individuato, per l'unicità del fatto illecito - nel caso concreto nemmeno allegato dal ricorrente - nella pubblicazione della sentenza di legittimità definitiva della vicenda . Le principali novità che si colgono, quanto all'azione di rivalsa, sono due: a) viene introdotta la obbligatorietà dell'esercizio dell'azione di rivalsa; b) viene conferita in questa sede nuovamente valenza alla negligenza inescusabile (si pensi, ad esempio, all'applicazione di una norma non più in vigore da molto tempo), quale connotazione particolare che deve presentare, ai fini della rivalsa, la colpa grave (v. Cass. n. 2107/2010; Cass. n. 15227/2007). L'art. 7 ha riconosciuto al Presidente del Consiglio dei Ministri la legittimazione ad esercitare l'azione di rivalsa nei confronti dei magistrati. Solo in presenza di una condotta dolosa che integri gli estremi di una fattispecie di reato, l'azione di responsabilità diretta verso il magistrato può essere esercitata in sede penale mediante costituzione di parte civile e direttamente in sede civile, dopo che sia intervenuta sentenza penale di condanna del magistrato passata in giudicato. Sul piano processuale, di notevole importanza è Cass. III, n. 258/2017, con cui la S.C. si è pronunciata sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio di funzioni giudiziarie: l'azione di responsabilità fondata su una decisione di ultima istanza asseritamente contrastante con il diritto dell'Unione europea, ove esperita anteriormente all'entrata in vigore della l. 27 febbraio 2015, n. 18, è soggetta al rito speciale previsto dalla l. 13 aprile 1988, n. 117, nel testo originario, il quale è l'unico applicabile a tutte le azioni risarcitorie per i danni suddetti, senza che residuino ipotesi di applicabilità del rito ordinario ex art. 2043 c.c.; peraltro, la scelta del legislatore nazionale di assoggettare l'azione ad un rito processuale speciale non è incompatibile con il diritto dell'Unione, ed in particolare con i principi di equivalenza ed effettività della tutela, atteso che né l'uno né l'altro sono compromessi dalle norme processuali vigenti prima della modifica normativa introdotta dalla citata legge del 2015. Nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati sono pienamente utilizzabili le intercettazioni telefoniche o ambientali effettuate in un procedimento penale, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti di cui all'art. 270 c.p.p., riferibile al solo procedimento penale deputato all'accertamento delle responsabilità penali. Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno statuito, con riferimento in particolare alle norme applicabili “ratione temporis”, che l'art. 6 del d.lgs. n. 216 del 2017 – che ha parzialmente esteso ai procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni la disciplina delle intercettazioni prevista per i delitti di criminalità organizzata dall'art. 13 del d.l n. 152 del 1991, convertito con modif. in l. n. 203 del 1991 ed integrato con d.l. n. 306 del 1992, conv. con modif. in l. n. 356 del 1992 – è entrato in vigore il 26/1/2018, non essendo tale disposizione indicata tra quelle per le quali l'art. 9 del medesimo decreto legislativo ha disposto il differimento della loro entrata in vigore; la successiva modifica di tale norma, introdotta dall'art. 1, comma 3, della l. n. 3 del 2019 – la quale, abrogando il comma 2 dell'art. 6 del d.lgs. n. 216 cit. ha eliminato la restrizione dell'uso del captatore informatico nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p., così consentendo l'intercettazione in tali luoghi anche se non vi è motivo di ritenere che vi si stia svolgendo attività criminosa – è a sua volta entrata in vigore, a differenza di altre disposizioni della medesima legge per le quali il legislatore ha differito l'entrata in vigore all'1/1/2020, il decimoquinto giorno dalla pubblicazione della legge sulla G.U., avvenuta il 16 gennaio 2019. Pertanto, possono essere utilizzate nel procedimento disciplinare le intercettazioni effettuate con captatore informatico nella vigenza di tali norme ed in conformità della disciplina dalle stesse introdotta (Cass. S.U., n. 741/2020). Sempre sul piano processuale, La Cassazione con la sentenza Cass. S.U. n. 2878/2022, pronunciando su questione di massima e di particolare importanza, hanno ribadito che, in materia di danni cagionati nell'esercizio di funzioni giudiziarie, il termine decadenziale biennale ex art. 4, comma 2, ultimo periodo, della l. n. 117 del 1988 (nel testo anteriore all'entrata in vigore della l. n. 18 del 2015) non si pone in contrasto con i principi di equivalenza ed effettività della tutela derivanti dal diritto dell'Unione europea, atteso che la norma, oltre ad assicurare un periodo di tempo più che ragionevole e sufficiente per approntare adeguatamente l'azione, costituisce espressione del principio di ragionevole durata del processo, rilevante ai sensi sia dell'art. 111 Cost., che dell'art. 6 della CEDU. Con la stessa sentenza hanno altresì ribadito che l'azione di responsabilità fondata su una decisione di ultima istanza asseritamente contrastante con il diritto dell'Unione europea, ove esperita anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 18 del 2015, è soggetta al rito speciale previsto dalla legge n. 117 del 1988 nel testo originario, il quale è l'unico applicabile a tutte le azioni risarcitorie per i danni suddetti, senza che residuino ipotesi di applicabilità del rito ordinario ex art. 2043 c.c.; peraltro, la scelta del legislatore nazionale di assoggettare l'azione ad un rito processuale speciale non è incompatibile con il diritto dell'Unione, ed in particolare con i principi di equivalenza ed effettività della tutela, atteso che né l'uno né l'altro sono compromessi dalle norme processuali vigenti prima della modifica normativa introdotta dalla citata legge del 2015. |