Di cosa parliamo quando parliamo di De Tommaso?

Ferdinando Brizzi
23 Novembre 2017

Il Legislatore italiano, esattamente come nella novella del grande scrittore americano Raymond Carver (il cui di cosa parliamo atteneva ovviamente ad altro …) ha “parlato” a lungo, modificando, ampliando e dettagliando alcuni aspetti della normativa sulle misure di prevenzione ma non ha dato alcuna risposta concreta alla falla che si è oggettivamente aperta nel sistema in esito alla pronuncia della Corte Edu De Tommaso c. Italia, falla sulla quale è intervenuta la giurisprudenza interna con sentenze “riparatrici” ma sulla quale pende pericolosamente una questione di legittimità costituzionale.
Abstract

Di cosa parliamo quando parliamo della sentenza De Tommaso?

E soprattutto di cosa parliamo quando parliamo del silenzio del Legislatore nella recentissima novella in materia di misure prevenzione (l. 161/2017) che ha equiparato gli associati a delinquere in materia di reati contro la P.A. ai partecipi dell'associazione mafiosa ma non ha articolato alcunché con riferimento all'oggettivo vulnus che la sentenza Edu, Grande Camera, del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, ha inferto alle misure di prevenzione con particolare riferimento ai casi di pericolosità generica?

Di cosa parliamo?

A noi preme evidenziare che il Legislatore italiano, esattamente come nella novella del grande scrittore americano Raymond Carver (il cui di cosa parliamo atteneva ovviamente ad altro …) ha “parlato” a lungo, modificando, ampliando e dettagliando alcuni aspetti della normativa ma non ha dato alcuna risposta concreta alla falla che si è oggettivamente aperta nel sistema in esito alla pronuncia della Corte Edu, Grande Camera, del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, falla sulla quale è intervenuta la giurisprudenza interna con sentenze “riparatrici” ma sulla quale pende pericolosamente una questione di legittimità costituzionale.

Ai margini della falla è intervenuta poi la Corte di cassazione nella sua più autorevole composizione, le Sezioni Uìunite, che con una recentissima sentenza (27 aprile 2017, n. 40076, Paternò) ha di fatto operato una vera e propria abolitio criminis sul solco della De Tommaso ma senza sfiorare il vero punto della questione e cioè: esiste ancora una pericolosità generica?

Tante questioni in una che cercheremo di affrontare parlando di cosa parliamo quando parliamo della sentenza de Tommaso.

L'inquadramento del problema

Appunto, di cosa parliamo?

A nessuno sfugge che si tratta di una pronuncia che ha in potenza – il rischio di compromettere per intero il sistema di prevenzione quantomeno con riguardo a tutti i casi di pericolosità generica.

A tutti è chiaro che la pronuncia ha innescato una sorta di empasse ai massimi livelli giurisdizionali creando un intreccio raffinato e per certi versi “perverso” tra le Sezioni unite della Cassazione (che ha di fatto operato un'abolitio criminis con riferimento all'art. 75 d.lgs. 159/2011 proprio avendo riguardo a quanto inciso dalla sentenza De Tommaso) e la Corte costituzionale presso la quale pende una questione di legittimità costituzionale che è proprio figlia della pronuncia della Grande Camera.

La stessa giurisprudenza di merito appare divisa.

Se infatti il tribunale di Palermo (decreto 28 marzo 2017) e il tribunale di Milano - Sezione misure di prevenzione (decreto 7 marzo 2017) hanno ritenuto la questione di legittimità costituzionale innescata dalla sentenza Edu non fondata basandosi sul molteplici valutazioni tra le quali spiccano il fatto che si tratterebbe di una sentenza “isolata”, presa con l'articolato “dissenso” di alcuni giudici sovranazionali e, come tale, inidonea a far parte di un diritto consolidato, la Corte d'appello di Napoli (ord. 4 aprile 2017) e il tribunale di Udine (ord. 14 marzo 2017) hanno invece preso una strada radicalmente diversa, ritenendo la questione assolutamente fondata e rimettendo gli atti a giudice costituzionale.

In particolare proprio sulla base di una valutazione ad ampio spettro della sentenza De Tommaso, ritenuta pacificamente operativa nel diritto interno, sono state sollevate dai giudici di Napoli e Udine questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3 e 5 legge 1423/1956 nonché degli artt. 1, 4 comma 1, lett. c), 6 e 8 d.lgs. 159/2011 per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost. in relazione alla violazione dell'art. 2 protocollo 4 addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

In sintesi questi sono i punti di “conflitto” e di crisi enucleati dalla sentenza De Tommaso:

  1. secondo la Corte Edu, in particolare, una legge può ritenersi prevedibile solo se è formulata in maniera sufficientemente precisa e comunque tale da permettere al cittadino di regolare la sua condotta e di consentirgli di prevedere ragionevolmente le conseguenze che possono derivare da un determinato atto o condotta;
  2. con riferimento alla legge 1423/1956, la stessa Corte Edu ha stabilito che le misure di prevenzione hanno certamente una base legale nel diritto interno e che la legge stessa è accessibile ma non prevede in maniera adeguatamente chiara e dettagliata quali siano le condotte da considerare socialmente pericolosi;
  3. la Corte Edu ha precisato che la legge in questione non ha definito con chiarezza l'estensione dell'amplissimo potere discrezionale attribuito ai giudici interni e che non è formulata in modo tale da garantire una protezione contro le ingerenze arbitrarie e da permettere ai cittadini di parametrare le loro condotte e comunque le loro azioni;
  4. la Corte Edu ha ritenuto che non è prevista con un sufficiente grado di certezza l'applicazione delle misure di prevenzione non solo dall'abrogata legge 1423/1956 ma neppure dal d.lgs. 159/2011 che ha lasciato invariata la categoria dei destinatari delle misure di prevenzione.

È inutile nascondersi il problema.

La pendenza del giudizio avanti alla Corte costituzionale ha aperto un fronte assai delicato ed è più che concreto il rischio di una pronuncia che potrebbe avere effetti devastanti su un sistema, quale quello delle misure di prevenzione, che la Corte Edu stessa peraltro aveva ritenuto comunque idoneo in numerose altre pronunce e comunque anche nel corpus della stessa De Tommaso.

Comunque stiano le cose, il punto di partenza ineludibile è che la Corte Edu ha dichiarato la contrarietà alla Convenzione europea delle prescrizioni di vivere onestamente e di rispettare le leggi per l'estrema genericità e la discrezionalità che lascia ai tribunali e che, come si è già anticipato, la Corte di Cassazione a Sezioni unite ha recepito il contenuto della De Tommaso (si cfr. Cass. pen., Sez. unite, 27 aprile 2017, n. 40076, Paternò) già citata.

La Suprema Corte nella sua composizione apicale ha esaminato in chiave critica il sistema delle misure di prevenzione proprio alla luce dei principi espressi dalla Corte Edu con la sentenza De Tommaso c. Italia, avuto riguardo alla la norma incriminatrice di cui all'art. 75 d.lgs. 159 del 2011 (che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 8 del d.lgs. 159/2011) e ha affermato che il precetto non comprende la violazione dell'obbligo di rispettare le leggi e di vivere onestamente, precetti che erano oggetto degli strali della Edu.

È inutile negarlo: la decisione delle Sezioni unite Paternò è figlia legittima della sentenza della Corte Edu che ha ritenuto sussistente la violazione dell'art. 2 del protocollo n. 4 Cedu per il palese e riscontrato deficit di precisione e prevedibilità delle condotte idonee a essere prese in considerazione per la valutazione della pericolosità sociale di un soggetto proprio con riferimento all'obbligo di rispettare le leggi e di vivere onestamente.

Una precisazione è comunque d'obbligo: va evidenziato che quanto espresso dalla Corte sovranazionale non infrange in toto lo “statuto” delle misure di prevenzione, occorrendo di volta in volta e caso per caso verificare il rispetto del principio di tassatività e comunque del vulnus segnalato.

Ciò non toglie che, all'interno del sistema social-preventivo, vi erano dei campanelli d'allarme che suonavano all'unisono chiedendo al Legislatore di intervenire nello specifico settore della pericolosità generica che era in odore di illegittimità costituzionale per difetto di prevedibilità e di tassatività e per eccesso di discrezionalità.

Eppure nonostante ciò il Legislatore è rimasto inerte.

Parliamo di un silenzio del Legislatore che è intervenuto assai di recente proprio in questa materia con la legge 161 del 17 ottobre 2017 e parliamo al contrario di un gran vociare, come vedremo, della giurisprudenza, un gran vociare però estremamente costruttivo e forse idoneo a curare la ferita inferta dalla Corte Edu evitando una pronuncia di illegittimità costituzionale che avrebbe effetti demolitori nel settore della pericolosità generica e, riteniamo, anche in quelli patrimoniali connessi a tale pericolosità.

Riteniamo in primo luogo che, in conformità a quanto già affermato in precedenti provvedimenti giurisprudenziali la strada di adire la Corte costituzionale non può ritenersi unica e necessitata essendo possibile procedere anche alla luce di quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale (si cfr. sent. n. 49/2015), a un'interpretazione del diritto interno convenzionalmente e dunque costituzionalmente conforme al dettato dell'art. 2 protocollo 4 addizionale della Convenzione.

Una corretta interpretazione delle norme vigenti che sfugga alle critiche di genericità e indeterminatezza, a nostro parere, può evitare una pronuncia di incostituzionalità.

Questa è infatti la strada intrapresa non solo da buona parte della giurisprudenza di merito con riferimento agli effetti della De Tommaso sui profili di pericolosità generica (si cf.r Corte d'appello di Torino n. 10/2017 Marinkovic e n. 25/2017 Sussetto) ma anche dalla stessa Suprema Corte (si cfr. Cass. pen., Sez. I, n. 31209/2015 Scagliarini, antecedente la stessa De Tommaso e soprattutto la fondamentale sentenza della Cass. pen., Sez. I. n. 51469/2017, Bosco che sarà oggetto di specifica valutazione nel capito successivo.

Gli interventi correttivi giurisprudenziali. In particolare la sentenza Cass. pen. 51469/2017

Va detto che la stessa sentenza De Tommaso c. Italia, dopo aver affermato che una norma è prevedibile allorché offre una certa una legge che attribuisce al giudice un potere discrezionale deve fissarne la portata anche nel caso in cui le norme e le procedure da osservare non necessariamente appaiano in dettaglio nella legislazione stessa garanzia contro le ingerenze arbitrarie del potere pubblico, ha precisato che una legge che attribuisce al giudice un potere discrezionale deve fissarne la portata anche nel caso in cui le norme e le procedure da osservare non necessariamente appaiano in dettaglio nella legislazione stessa..

Quanto affermato implica – come testualmente sostenuto dalla già citata sentenza della Corte d'appello di Torino, n. 25/2017, Sussetto – che: «le condizioni che costituiscono il presupposto per l'applicazione delle misure di prevenzione ben possono essere fissate anche in via interpretativa dal supremo organo di nomofilachia nazionale: conclusione che del resto si trova esplicitata nella stessa decisione De Tommaso contro Italia, nella parte in cui passa in rassegna l'insegnamento della Corte di Cassazione in materia prevenzionale (par. C parte III Le droit et la pratique internes pertinents). Tuttavia, detta rassegna, costituita da due pronunce, si ferma all'anno 2014; non viene quindi tenuto in considerazione l'arresto della Suprema Corte, I sezione penale, n. 31209 del 24.3.2015, Scagliarini, in cui, con specifico riferimento al tema della pericolosità "generica", la Corte ha dettato un vero e proprio "statuto" del soggetto destinatario di misure di prevenzione in quanto socialmente pericoloso ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 159/2011, (ossia che "vive abitualmente, anche in parte, dei proventi di attività delittuose")».

In particolare l'appena citata sentenza Scagliarini precisa che, se giurisdizione in materia penale significa applicazione della legge mediante l'accertamento dei presupposti di fatto per la sua applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie garanzie, tra l'altro di serietà probatoria, è pacifico che anche nel procedimento di prevenzione la prognosi di pericolosità debba essere basata e sostenuta su presupposti fattuali previsti dalla legge e oggetto di accertamento giudiziale.

Secondo la Suprema Corte quindi l'inquadramento del soggetto nella categoria di cui all'art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 159/2011 deve essere operata sulla base di idonei e penetranti elementi di fatto e presuppone la sussistenza in concreto di alcune ineludibili:

a) la realizzazione di attività delittuose non episodiche;

b) che le stesse caratterizzino un significativo intervallo temporale della vita del proposto stesso;

c) che la realizzazione di attività delittuose siano produttive di reddito illecito;

d) la destinazione, quantomeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare.

Tutto ciò posto e considerato la Cassazione precisa ulteriormente che l'attività illecita deve caratterizzarsi in termini di delitto - quantomeno ricorrente - produttivo di reddito e può essere desunta da correlato procedimento penale o ricostruita in via autonoma nella specifica sede di prevenzione.

Recentemente la Suprema Corte si è ulteriormente pronunciata in subiecta materia (si cfr. Cass. pen., 14 giugno 2017,n. 36258, Celini) applicando i principi fatti propri dalla citata sentenza Scagliarini, affermando che: «trattandosi, infatti, di applicare in via giurisdizionale misure tese a delimitare la fruibilità di diritti della persona costituzionalmente garantiti, o ad incidere pesantemente e in via definitiva sul diritto di proprietà, [...] il che impone di ritenere applicabile il generale principio di tassatività e determinatezza della descrizione normativa dei comportamenti presi in considerazione come "fonte giustificatrice" di dette limitazioni. Da ciò deriva la considerazione della ineliminabile componente "ricostruttiva" del giudizio di prevenzione, tesa a rappresentare l'apprezzamento di "fatti" idonei (o meno) a garantire l'iscrizione del soggetto proposto in una delle categorie tipizzate di cui sopra. Il soggetto coinvolto in un procedimento di prevenzione, in altre parole, non viene ritenuto "colpevole" o "non colpevole" in ordine alla realizzazione di un fatto specifico, ma viene ritenuto "pericoloso" o "non pericoloso" in rapporto al suo precedente agire (per come ricostruito attraverso le diverse fonti di conoscenza) elevato ad 'indice rivelatore' della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell'ordine sociale costituzionale o dell'ordine economico e ciò in rapporto all'esistenza delle citate disposizioni di legge che 'qualificano' le diverse categorie di pericolosità [...]».

Dalla lettura di questa sentenza si evince che le condotte di reato sono alla base della valutazione di pericolosità sociale in quanto rientrano de plano nella selezione normativa delle tipologie astratte di pericolosità generica, fermo restando che il giudice della prevenzione valuta le predette condotte (già giudicate o sub iudice) in via autonoma e con le finalità ben diverse e proprie del giudizio di prevenzione del tutto svincolato (chiaramente) dall'irrogazione di una sanzione penale e quindi di una pena vera e propria.

Ecco come la giurisprudenza penale sia di merito sia di legittimità si è attivata per garantire alle fattispecie concrete sottoposte al vaglio il rispetto delle esigenze di prevedibilità enucleate dalla De Tommaso.

È quindi onere dello stesso giudice selezionare e valutare i fatti posti a base del giudizio di pericolosità sociale utilizzando a tale scopo le pronunce penali che hanno affermato in via definitiva la responsabilità penale per la commissione di delitti o le pronunce che evidenzino comunque la sussistenza di un rilevante e grave quadro indiziario.

Utilizzando tale approdo interpretativo la giurisprudenza, allo stato, ha superato i profili di criticità posti sul tappeto dalla Corte Edu affermando che le previsioni di cui al decreto legislativo 159/2011 – avuto riguardo ai destinatari delle misure di prevenzione sul presupposto della ricorrenza di una forma di pericolosità generica ex art.1, comma 1, lett. b), d.lgs. 159/2011 – non possono in alcun modo ritenersi troppo vaghe, generiche e indeterminate.

Esse invece risultano chiaramente precisate e specificate in quanto è assoggettabile a misura di prevenzione solo il soggetto che ha perpetrato con condotte non episodiche ma in un significativo lasso di tempo attività delittuose o criminali potenzialmente produttive di redditi illeciti o comunque anche in parte destinati al sostentamento del proposto o del suo nucleo familiare.

Alla luce di tali principi se ne desume che non può essere attribuito alcun rilievo a meri sospetti, congetture, labili indizi, tendenze delinquenziali o condotte genericamente illecite ma comunque non connotate in modo chiaro.

Applicando tali principi il potere discrezionale del giudice nell'individuazione dei destinatari di tali misure è chiaramente vincolato da precisi parametri e deve farsi carico di valutare tutti i dati probatori e fattuali appena indicati.

Appare evidente che secondo questa giurisprudenza, facendo buon uso di tali strumenti ermeneutici, si superano agevolmente i rilievi critici sollevati dalla Corte Edu e qualunque persona ha modo di regolare ex ante la propria condotta astenendosi dal commettere abitualmente delitti produttivi di reddito e –soprattutto- sostentandosi e sopravvivendo coi relativi proventi.

I cittadini, tenendo nel dovuto conto queste buone pratiche di vita, eviterebbero facilmente l'irrogazione di misure di prevenzione.

Nell'ottica di curare le “ferite” inferte al sistema e sul solco già tracciato dalle pronunce appena citate si è inserita la recentissima sentenza della Cassazione e in particolare la pronuncia della Cassazione, Sez. I, 10 novembre 2017, n. 51469, Bosco, che ha elaborato con grande chiarezza e riflettuto con pari lucidità sulle categorie normative di cui all'art. 1, lett. a) e b) d.lgs. 159/2011 giungendo a creare una vera e propria tipizzazione delle fattispecie di pericolosità generica, sovrapponendo al vulnus Edu un'articolata e del tutto condivisibile tassonomia.

Quanto alle ipotesi di cui alla lettera b) il giudice di legittimità viene ad ancorare la realizzazione di attività delittuose - non episodica ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto – alla produttività di reddito illecito e la destinazione, almeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare.

Di particolare interesse :

- l'interpretazione evolutiva del termine traffici delittuosi che viene inteso come attività delittuosa da cui si consegua a qualunque titolo – e non necessariamente facendo ricorso a mezzi negoziali, fraudolenti o comunque “mercantili” – un illecito arricchimento;

- l'indicazione di specifiche categorie di delitti tra i quali:

  1. quelli che hanno natura seriale e attengono comunque a un “traffico” vero e proprio come i reati in materia di prostituzione, pornografia minorile e il suo sfruttamento latu sensu ovvero lo sfruttamento della prostituzione tout court, le associazioni e comunque lo spaccio di stupefacenti.

Attività delittuose che chiaramente sono potenzialmente idonee a garantire ingente e illecito arricchimento sia per la natura delle prestazioni illecite, sia per l'indubbia connotazione di abitualità che connota le fattispecie predette;

  1. quelli che si caratterizzano per la loro finalità patrimoniale, di profitto, di spoliazione e quindi quelli che hanno natura predatoria vera e propria tra i quali vari reati contro la P.A. (peculato, concussione), furti, rapine, circonvenzioni d'incapace, appropriazioni indebite, ricettazioni. La corte non indica il riciclaggio (art. 648-bis c.p.) che peraltro deve ritenersi ovviamente far parte del ventaglio di fattispecie predatorie appena indicate;
  2. quelli che si caratterizzano in quanto significativi di un approfittamento o comunque per l'alterazione di qualsiasi meccanismo negoziale o comunque socio-economico o civile quali la truffa, la truffa aggravata, la malversazione e l'usura).

È di solare evidenza che tutte le fattispecie indicate dalla Suprema Corte denotano in capo agli autori un coefficiente altissimo di pericolosità sociale (generica) connessa a elevate potenzialità di illecito arricchimento e come tali non possono non essere condotte da attrarre nell'orbita delle misure di prevenzione.

Ma la Corte non si accontenta di chiarire il ventaglio dei delitti “social-preventivi” e individua anche quali connotati dovrà presentare la pericolosità generica per poter rilevare ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione e non finire nel gorgo dell'indeterminatezza lamentata dalla De Tommaso e che, in buona sostanza, si riallacciano alle motivazioni della sentenza Scagliarini cui si è già accennato .

Si è quindi pericolosi ex art. 1, comma 1, lettera b)d.lgs. 159/2011 se:

  • si pongono in essere attività delittuose nell'ambito del ventaglio di fattispecie appena indicate in modo non episodico ma cronologicamente apprezzabile. Una sorta di “iter esistenziale” non avente chiaramente le caratteristiche di cui all'art. 4 lett. a) legge citata ma che comunque connoti in modo significativo le prassi esistenziali del soggetto quale individuo che ha consapevolemente scelto il delitto come pratica comune di vita per periodi comunque significativi;
  • le attività delittuose predette consentano una produzione di reddito ( ovviamente illecito) idoneo anche parzialmente a sostentare il proposto ed eventualmente anche il suo nucleo familiare ove esistente.

Occorre quindi una continuità nell'illecito e nel reddito prodotto, tutto ciò che assume le caratteristiche di sporadicità e occasionalità va espunto dal concetto di pericolosità generica.

La S.C. indica anche il nesso di causa tra delitto commesso e reddito illecitamente ricavato deve desumersi da dati inequivoci quali:

  • le risultanze di un procedimento penale (e quindi certamente, a parere di chi scrive, sentenze di condanna, richieste di rinvio a giudizio e relativi decreti, decreti penali, ordinanze di misura cautelare, decreti di sequestro, esiti di intercettazioni telefoniche);
  • la ricostruzione operata in via autonoma nel procedimento di prevenzione. In tale ultimo caso peraltro la sentenza de qua opera una rigorosa distinzione tra i profili di pericolosità qualificata (con particolare riferimento agli indiziati di mafia) e quelli di pericolosità generica che mal si conciliano con una eventuale esclusione di responsabilità da delitto nel procedimento penale di riferimento.

Se infatti anche una certa tipologia di sentenze di assoluzione ben possono presentare profili di rilevanza ai sensi dell'art. 4 lett a), d.lgs. 159/2011 ben difficilmente eventuali pronunce assolutorie potranno rilevare ex art. 1 lett b) occorrendo a tali fini delle pronunce di condanna che denotino una ricorrente e comunque significativa commissione di delitti che siano produttivi di reddito.

Unica eccezione le sentenze di prescrizione ove comunque attestino fatti denotanti comunque caratteristiche di oggettiva pericolosità sociale.

Ed ancor più recentemente Cassazione, Sez. VI, 21 novembre 2017, n. 53003, D'Alessandro e altri, si è posta sulla stessa scia della sentenza Bosco affermando espressamente la necessità di dare contenuto concreto alla nozione di pericolosità generica, al fine di delimitarne i confini e sottrarla ai rilievi critici di vaghezza e genericità provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale ed interna.

Noi condividiamo appieno il contenuto di questa sentenza queste sentenze che riteniamo potràpotranno essere – oltre che un argine ai rischi di incostituzionalità – anche un preciso punto di riferimento per una corretta valutazione delle prognosi di pericolosità generica e un fondamentale strumento tassonomico.

In conclusione

Abbiamo visto come la giurisprudenza abbia correttamente suturato la ferita aperta dalla sentenza De Tommaso, una giurisprudenza che ormai sempre di più sta assumendo il gravoso compito di arginare un sistema sul quale, al di là dei continui interventi legislativi nelle più svariate materie, sventola da tempo e inutilmente “bandiera bianca”.

Il nostro è un sistema che vive sulle interpretazioni.

Il focus che trattiamo è esemplare al riguardo: la Cassazione che opera un'abolitio criminis e che indica i criteri cui attingere per definire la pericolosità generica e un Legislatore che spesso “non parla” malgrado la pronuncia Edu segnalasse l'accensione di una spia rossa nel cuore del sistema social-preventivo.

Questo stesso Legislatore, che pure operava contestualmente e sincronicamente innovando proprio la specifica materia delle misure di prevenzione, lascia intatto proprio l'art. 1 del d.lgs. 159/2011.

Non interviene neppure su un'altra norma che, a nostro avviso, rischia i medesimi strali che hanno colpito la pericolosità generica.

Ed infatti l'art. 8,comma 5, d.lgs. 159/2011 prevede che il tribunale possa imporre tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale.

Se è generica la formula di vivere onestamente e di rispettare le leggi, cosa dire di una norma che consente a un cittadino di subire l'imposizione di prescrizioni funzionali a non meglio precisate esigenze di difesa sociale?

Quali sono e come sono (se lo sono) tipizzabili queste esigenze?

A noi la norma vigente pare oltremodo generica, un buco nero nel quale può entrare tutto o niente con il rischio concreto possa essere colpita e affondata dalla Corte Edu sul solco tracciato dalla De Tommaso.

Così si assiste a una evidente e pericolosa disconnessione tra produzione giurisprudenziale e legislazione antimafia, la prima attenta a modellare gli attuali strumenti normativi rispetto alla liquidità dei fenomeni criminali, la seconda poco pronta a cogliere i moniti giurisprudenziali interni ed internazionali.

Un esempio può servire a spiegare l'assunto.

Il tribunale di Brescia, con decreto 29 luglio 2016 (inedito) ha applicato ad una proposta “qualificata” per la sua riconducibilità al terrorismo islamico, oltre alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, le prescrizioni di non adoperare Internet e di non frequentare le moschee in quanto questi erano gli strumenti di propaganda terroristica utilizzati, in applicazione dell'articolo 8, comma 5, d.lgs. 159/2011.

Il tribunale ha dunque impiegato legittimamente lo strumento giuridico a sua disposizione “calibrandolo” rispetto alle peculiarità del caso di specie.

Sovrapponendo a un caso come questo la sentenza De Tommaso (che ha determinato l'illegittimità di formule legislative tanto generiche da consentire l'applicazione di prescrizioni dal contenuto più indeterminato) si rischia di rendere non operative le prescrizioni imposte proprio perché non sono state definite in modo chiaro le nebulose esigenze di “natura sociale” di cui all'art. 8 d.lgs. 159/2011.

Noi riteniamo che sia compito del Legislatore fornire all'Autorità giudiziaria adeguati strumenti social preventivi che fuggano da qualunque accusa di nebulosità prevedendo ad esempio forme tipizzate di prescrizioni che possano essere applicate alle diverse forme di pericolosità.

È indubbio che la sentenza De Tommaso ha posto nel diritto interno delicati profili di costituzionalità all'interno dell'intera categoria della pericolosità generica che è l'architrave della materia e, in concreto, non va dimenticata che detta pericolosità spesso è anche connessa a misure patrimoniali che sono state applicate nei confronti di autori di gravissimi fatti predatori commessi in danni soprattutto di anziani, ricettatori seriali, truffatori o comunque soggetti che fanno del crimine la principale forma di sostentamento e arricchimento senza dichiarare o dichiarando redditi risibili o sproporzionati al fisco.

Il rischio di veder caducate queste misure non appare accettabile.

Anche in questo caso, come già detto, la potenziale illegittimità è conseguenza dall'eccessiva vaghezza della formulazione legislativa, vaghezza che è stata “riempita” di contenuti solo dalla lucida giurisprudenza della Cassazione e in particolare dalla recentissima sentenza Bosco di cui si è diffusamente detto .

Il Legislatore, preoccupato di assimilare il fenomeno corruttivo a quello mafioso con la recente novella (l. 161/2017), non ha ritenuto di porre rimedio ad una situazione che rischia di avere ricadute pesantissime – ove la Corte costituzionale ritenesse fondata la questione sottoposta al suo vaglio – soprattutto per le misure patrimoniali irrogate a soggetti portatori di pericolosità generica correlata ai gravi fatti predatori appena indicati .

Per prevenire ed evitare questo potenziale default sarebbe stata sufficiente la tipizzazione della categoria dei pericolosi “generici”, sulla scorta delle preziose indicazioni provenienti proprio dalla giurisprudenza di legittimità poc'anzi richiamata e in particolare proprio dalla sentenza Bosco.

Ma c'è un altro profilo che ci preme sottolineare e che la stessa sentenza Bosco individua chiaramente nei suoi profili di criticità in particolare avuto riguardo ai soggetti portatori di pericolosità generica.

Ed infatti – oltre alla tipizzazione delle fattispecie di pericolosità “semplice” come già evidenziato – noi riteniamo quanto mai opportuna l'individuazione per via legislativa delle fonti di prova utilizzabili in tale ambito.

Una tipizzazione di tal sorta consentirebbe al cittadino di conoscere preventivamente non solo quali condotte possano comportare l'applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali, ma anche quali siano le fonti probatorie che utilizzabili a suo carico in un ipotetico procedimento preventivo.

Se è inaccettabile la disarticolazione delle misure di prevenzione per un rischio di genericità e indeterminatezza o comunque per la carenza di una sufficiente tipizzazione è parimenti inaccettabile che questa delicatissima materia – che può comportare l'apprensione di cespiti, denaro e immobili – sia una sorta di “prateria” dove tutto il materiale probatorio è ammesso, una “notte in cui tutte le vacche sono nere” .

Di cosa parliamo quando parliamo della sentenza De Tommaso?

Noi parliamo di una proposta che è un po' provocazione e un po' un'esigenza che sentiamo profondamente, un nuovo art. 1 d.lgs. 159/2011 che si declinerebbe così:

Le misure di prevenzione personali si applicano a coloro che siano indiziati della commissione di reiterati delitti contro il patrimonio, contro la pubblica amministrazione, in materia di violazione della normativa sugli stupefacenti, in materia di sfruttamento della prostituzione ed in ogni altro caso di sfruttamento della persona per motivi sessuali, in materia di violazioni societarie e fiscali, in materia di contraffazione dei marchi o comunque commessi con motivi di lucro, sempre che le commissione di tali delitti sia funzionale ad un accrescimento patrimoniale altrimenti non giustificabile.

A tal fine si tiene conto delle sentenze anche non definitive, siano esse di condanna ovvero di assoluzione, dei decreti di archiviazione, dei decreti di sequestro e di confisca, delle ordinanze di misure cautelari, dell'attività di intercettazione telefonica e telematica posta in essere in sede penale, anche laddove proveniente da altri procedimenti, dei decreti di prevenzione anche se non definitivi, nonché degli altri atti di polizia giudiziaria e delle autorità della Pubblica Amministrazione.

Ferma restando l'inutilizzabilità delle prove assunte in violazione di legge art. 191 c.p.p., in sede di prevenzione non si applica l'art. 192 c.p.p. commi 2, 3 e 4.

Noi abbiamo parlato di cosa parliamo quando parliamo della sentenza De Tommaso.

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