Diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Un percorso a ostacoli dall'esito incerto

Claudia Cavaliere
28 Novembre 2017

In materia di diritto alla riparazione per ingiusta detenzione si registra, da tempo, una tendenza della giurisprudenza di legittimità a valutare il “silenzio” e la condotta “non collaborativa” dell'indagato/imputato quali elementi integranti il presupposto della colpa grave, individuato all'art. 314 c.p.p, in presenza del quale il diritto succitato non trova riconoscimento.
Abstract

In materia di diritto alla riparazione per ingiusta detenzione si registra, da tempo, una tendenza della giurisprudenza di legittimità a valutare il “silenzio” e la condotta “non collaborativa” dell'indagato/imputato quali elementi integranti il presupposto della colpa grave, individuato all'art. 314 c.p.p, in presenza del quale il diritto succitato non trova riconoscimento.

Tale orientamento ha consentito di far diminuire notevolmente il numero degli aventi diritto al risarcimento e, allo stesso tempo, gli importi corrisposti sono progressivamente diminuiti e i tempi di liquidazione aumentati, in quanto si è ridotta la disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio. La spending review è stata applicata, in questo caso, in maniera rigorosa, mentre in altri è palesemente disattesa.

Va citata altra giurisprudenza che, allineandosi con tale indirizzo, ha stabilito che in materia cautelare, ove sia intervenuta, nelle more, la revoca della misura, l'interessato innanzi al tribunale per il riesame – anche nel caso di annullamento con rinvio, disposto dalla Suprema Corte, per mancanza di gravi indizi di colpevolezza – debba comparire personalmente, ovvero conferire procura speciale al suo difensore, «perché possa ritenersi comunque sussistente l'interesse del ricorrente a coltivare l'impugnazione in riferimento ad una futura utilizzazione dell'eventuale pronuncia favorevole ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione» (recentemente, Cass. pen., Sez. II, 5 ottobre 2017 - 26 ottobre 2017, n. 49200).

La procedura innanzi al tribunale per il riesame viene praticamente stravolta, ritenendo, solo in questo caso, necessaria la presenza dell'indagato ovvero del difensore munito di procura speciale, affinché si possa successivamente richiedere il risarcimento per l'ingiustizia subita. Si legge nel futuro e non si tiene in alcuna considerazione il diritto dell'interessato e dello stesso difensore – a prescindere da quello che si intenderà fare dopo – di ottenere una pronuncia definitiva sull'assenza dei gravi indizi di colpevolezza che avevano giustificato l'ordinanza di custodia cautelare.

Cass. pen., Sez. V, 42014/2017

L'imputato, dopo essere stato condannato in primo e in secondo grado, aveva ottenuto innanzi alla Suprema Corte l'annullamento della sentenza impugnata e l'assoluzione per non aver commesso il fatto.

Aveva, nelle more, scontato 4 anni in carcere, in quanto destinatario di un'ordinanza di misura cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari.

Per l'ingiusta detenzione patita, ha quindi presentato richiesta di riparazione innanzi la Corte di appello che ha disatteso tale pretesa ponendo a fondamento del rigetto il comportamento e l'atteggiamento gravemente colposo, con cui lo stesso aveva concorso a dare causa alla misura cautelare ed al suo mantenimento nel tempo, che in quanto tale è stato ritenuto integrativo della grave colpa ostativa al riconoscimento dell'indennizzo ex art. 314 c.p.p.

La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso proposto dall'imputato, avverso la decisione della Corte di appello e lo ha condannato al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione di quelle sostenute dal Ministero dell'economia.

Nel ricorso avverso il provvedimento della Corte di appello veniva evidenziata la sostanziale irrilevanza delle dichiarazioni rese dall'interessato e del suo comportamento, in presenza – come del resto evidenziato dalla stessa sentenza della Suprema Corte che era pervenuta all'assoluzione – di plurime «discrasie, incongruenze ed errores in iudicando, che inficiavano ab imis la tenuta complessiva della struttura argomentativa» della sentenza di condanna e «clamorose defaillances o amnesie investigative e colpevoli omissioni di attività d'indagine» e un «deprecabile pressapochismo nella fase delle indagini preliminari».

La Suprema Corte, nel confermare il ragionamento posto a fondamento della decisione della Corte di appello e concludendo quindi per la sussistenza della causa ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione, ha ritenuto che «l'istante con le condotte sopra descritte, abbia concorso con dolo o colpa grave all'emissione ed al protrarsi della massima misura cautelare, ribadendo che una diversa condotta, che avesse evitato dichiarazioni contraddittorie o palesemente false ovvero che avesse fornito un'immediata spiegazione della loro incongruità rispetto alle diverse emergenze delle indagini, avrebbe evitato il nascere e il consolidarsi del sospetto della partecipazione all'omicidio[]».

La linea di confine che separa il legittimo esercizio del diritto di difesa dell'indagato (o imputato) e la condotta colposa dell'innocente

Per esercitare il diritto riconosciuto ex art. 314 c.p.p. è necessario che l'interessato non vi abbia dato causa o concorso a darvi causa, con un proprio comportamento o atteggiamento doloso o colposo.

Il tema da affrontare, pertanto, attiene alla corretta individuazione, che dovrà effettuare di volta in volta il giudice della riparazione, di quel punto di non ritorno oltrepassato il quale non può più parlarsi di scelte processuali ed extraprocessuali generate dal legittimo esercizio del diritto di difesa ma, viceversa, di comportamenti ostativi alla riparazione.

È evidente che quando si tratta di dare applicazione all'art. 314 c.p.p. non si assiste alla corresponsione di un mero indennizzo ma al riconoscimento dell'ingiustizia subita da un innocente che, incappato nelle maglie della giustizia per un errore, sia stato posto in regime di custodia cautelare, venendo privato di quella libertà personale, riconosciuta dalla nostra Costituzione, all'art. 13 e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, all'art. 5, come diritto fondamentale e inviolabile.

Non va tralasciato, peraltro, che anche lo stesso diritto alla riparazione trova la sua copertura costituzionale all'art. 24, comma 4.

Non di poco conto sono, dunque, le rilevanti conseguenze delle ordinanze di diniego del giudice della riparazione che, talora, corre il rischio di commettere un'ulteriore ingiustizia ai danni di un innocente e di tradire la ratio solidaristica della norma in esame, funzione che viene riconosciuta anche dalla Corte costituzionale che, pronunciatasi sull'illegittimità costituzionale dell'art. 314 c.p.p. in relazione all'art. 3 Cost. (n. 219/2008), ha affermato che il meccanismo solidaristico che ispira la norma verrebbe tradito qualora la restrizione della libertà, sofferta durante le fasi delle indagini, venisse apprezzata solo al termine del processo e solo in riferimento a proscioglimenti nel merito. Anche all'imputato dichiarato colpevole quindi, è riconosciuto il pieno diritto all'indennizzo qualora la detenzione cautelare dovesse risultare sproporzionata ed ingiusta anche alla luce della pena comminata.

La condotta affetta da colpa grave di cui all'articolo 314, comma 1, c.p.p., ostativa all'attribuzione dell'indennizzo per ingiusta detenzione, va individuata in quel comportamento che, seppure non intenzionalmente rivolto a tacere falsificare talune circostanze rilevanti, si sostanzi in un'inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari per manifesta e macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza così da realizzare una non voluta, ma prevedibile ragione di intervento dell'autorità giudiziaria, che si traduca nell'adozione o nel mantenimento di un provvedimento restrittivo della libertà personale (Cass. pen., Sez. IV, 15 giugno 2010, n. 25605).

A tal riguardo, la colpa grave può concretarsi in comportamenti caratterizzati da grave leggerezza o da macroscopica trascuratezza, posti in essere sia anteriormente che successivamente al momento di applicazione di una misura restrittiva della libertà personale. Ciò comporta che l'applicazione della disciplina normativa impone l'analisi anche di quei comportamenti tenuti prima dell'inizio dell'attività investigativa e della relativa conoscenza, indipendentemente dalla circostanza che tali comportamenti non integrino reato (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 19 giugno 2008, n. 30067, Bedini ed altro).

Chiarito il rilievo della problematica che sottende l'applicazione dell'art. 314 c.p.p. esaminiamo la pronuncia in esame. Con essa, la Corte di cassazione giunge a ritenere che, ai fini della sussistenza della colpa grave, va preso in esame non solo l'indicazione di un alibi rivelatosi falso o le dichiarazioni contraddittorie e mendaci ma anche il comportamento silenzioso dell'indagato/imputato, ciò perché il diritto all'equa riparazione presuppone una condotta dell'interessato volta a chiarire la sua posizione, soprattutto alla luce di un quadro indiziario già di per sé significativo.

Ebbene il primo quesito sorge proprio in relazione alla valutazione del giudice circa il silenzio serbato da colui che è stato sottoposto a pena detentiva o misura cautelare privativa della libertà. Tale argomento è di estrema rilevanza poiché in tal modo si finisce per sanzionare, in determinati casi, ingiustamente l'esercizio di quel diritto riconosciuto dal codice di procedura penale di avvalersi della facoltà di non rispondere.

Capire quando la scelta sia sanzionabile cambia in modo determinante il valore della decisione del giudice della riparazione e la sua percezione in termini di giustizia da parte dell'interessato.

Sul silenzio si è più volte pronunciata la Suprema Corte che, in passato, aveva affermato che non può integrare la colpa dell'interessato il silenzio serbato in sede di interrogatorio davanti al pubblico ministero e al Gip, posto che la scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere, riconosciuta espressamente all'indagato/imputato, non può essere utilizzata ex se. La ratio sostenuta dalla Corte, in questo caso, è che trattasi pur sempre di una strategia difensiva adottata da chi è stato privato della libertà personale e che, come tale, va rispettata e non può essere utilizzata aprioristicamente contro lo stesso; quanto detto vale anche qualora a tali strategie difensive possa attribuirsi un apporto negativo che impedisce di dare maggior chiarezza al quadro probatorio legittimante la privazione della libertà(Cass. pen., Sez. IV, 1 luglio 2008, n. 32368, Mele).

Può ritenersi che tali condotte, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, possano integrare i presupposti del dolo o della colpa grave solo qualora l'indagato non porti a conoscenza dell'organo inquirente, pur essendone in grado, specifiche circostanze idonee e sufficienti a prospettare una spiegazione alternativa all'ipotesi accusatoria, così da demolire il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede investigativa su cui fonda il provvedimento cautelare. In questo caso, infatti, pur nel rispetto del diritto di difesa e delle relative valutazioni applicative, vi è un onere a carico dell'indagato di lealtà processuale consistente nell'obbligo di rappresentazione e allegazione al fine di porre l'organo inquirente nelle condizioni di valutare le medesime informazioni, anche a favore dell'indagato, e di inserirle all'interno del complessivo quadro investigativo. Sicuramente la collaborazione della persona sottoposta a misura restrittiva renderebbe più semplice l'individuazione dell'errore in cui si potrebbe incorrere durante le indagini. Proprio per questo motivo, infatti, poiché prima dell'applicazione della misura privativa della libertà l'indagato è il solo ad essere in grado di fornire elementi utili e specifici, la circostanza che li nasconda o li rappresenti in modo falso contribuisce al mantenimento del suo stato detentivo (Cfr. sul punto anche, Cass. pen., Sez. IV, 19 giugno 2008, n. 30066, Galli)

In conclusione

Occorre a questo punto soffermarsi sulla possibilità di condividere, o meno, le linee guida tracciate dalla giurisprudenza di legittimità.

In primo luogo, come già evidenziato in premessa, va evidenziata una tendenza restrittiva della giurisprudenza al riconoscimento del diritto alla riparazione. Non sempre viene presa in considerazione la lesione gravissima che l'ordinanza di misura cautelare provoca nella vita di un individuo. Si passa dalla libertà al carcere con accuse rette da indizi che, per divenire prove, devono trovare riscontri. In questi momenti e in quelli successivi di permanenza in stato di detenzione, si pretende lucidità, certezza nei ricordi, prontezza nel contestare fatti ed episodi conosciuti spesso solo parzialmente. Più le indagini effettuate sono lacunose, più si richiede all'indagato il contributo per l'accertamento dell'ipotesi accusatoria. Ma se ciò non avviene, è colpa di colui che in quel momento sta subendo gli effetti devastanti della privazione della libertà o di coloro che hanno probabilmente imboccato la strada sbagliata e perseverano nella scelta, comprendendo (si spera!) dopo mesi, se non anni, che è stata commesso un errore giudiziario?

L'orientamento prevalente che rende, di fatto, impraticabile l'esercizio del diritto sancito all'art. 24 della Costituzione, va arginato.

In situazioni come quella in esame, l'imputato assolto con ampia formula è solo vittima di un sistema che lo ha privato della libertà.

Non si può attribuire ampio spazio all'indagato nella gestione della propria difesa, riconoscendogli anche il diritto di non rispondere alle domande postegli, e allo stesso tempo negarglielo laddove venga richiesto dallo stesso di porre rimedio ad una mala gestio verificatesi durante le indagini.

Riteniamo, pertanto, che l'ultima parte dell'art. 314 c.p.p., «[…] qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave», debba essere riferita esclusivamente a quei casi in cui venga provato che la richiesta di riparazione per l'ingiusta detenzione subita provenga da soggetto che, nel corso delle indagini e nel successivo processo, ha contribuito attivamente all'errore, con una falsa confessione, ovvero con un'attività diretta concretamente a far confluire sulla sua persona i gravi indizi di colpevolezza.

Nel caso sottoposto al nostro esame a fronte di discrasie, incongruenze, errori, clamorose defaillances, amnesie investigative e omissioni di attività, nonché al deprecabile pressapochismo della fase delle indagini preliminari, così come dichiarato nel provvedimento della Suprema Corte che ha assolto l'imputato per non aver commesso il fatto, si è voluto comunque colpevolizzare colui che chiedeva la riparazione per l'ingiusta detenzione subita, tra l'altro in piena gioventù, rimproverandogli un comportamento non collaborativo.

Restano i 4 anni passati in carcere ingiustamente ed il senso certamente “non rieducativo” della vicenda.

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