Pene detentive brevi. Il revirement della Cassazione sul limite edittale per la sospensione dell'ordine di esecuzione

Leonardo Degl'Innocenti
29 Novembre 2017

Il d.l. 146/2013 ha introdotto nell'art. 47 ord. penit. il comma 3-bis con il quale è stato elevato da tre a quattro anni il limite di pena entro il quale è concedibile l'affidamento in prova al servizio sociale. Il Legislatore non ha, però, formalmente adeguato il testo dell'art. 656, comma 5, c.p.p. che ...
Massima

In tema di esecuzione di pene detentive brevi, il limite edittale per potere disporre la sospensione dell'ordine di esecuzione continua ad essere, nonostante il richiamo operato dall'art. 656, comma 5, c.p.p. all'art. 47 ord. penit. e l'elevazione ad anni quattro del limite per la concessione della misura alternativa alla detenzione dell'affidamento in prova al servizio sociale disposto dal comma 3-bis della predetta norma, quello di tre anni, anche se costituente residuo di una pena di maggiore entità.

Il caso

Con ordinanza 13 dicembre 2016 il tribunale di Genova ha rigettato, in qualità di giudice dell'esecuzione, l'incidente di esecuzione proposto nell'interesse del condannato – nel caso di specie ristretto al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna agli arresti domiciliari – avverso l'ordine di carcerazione emesso in data 28 ottobre 2016 dal pubblico ministero presso il tribunale di Genova per l'esecuzione della pena di anni 4 e mesi 10 di reclusione residua, dedotto il periodo di presofferto in fase cautelare di anni 1 mesi 2 giorni 12 (trascorso, in parte, in custodia cautelare e, in parte, agli arresti domiciliari) e il massimo periodo di liberazione anticipata concedibile in relazione alla predetta fase cautelare pari a 90 giorni, della maggiore pena inflitta con sentenza del tribunale di Genova emessa in data 13 gennaio 2016, divenuta irrevocabile il 5 ottobre 2016, posto che, essendo appunto la pena detentiva superiore a tre anni, l'esecuzione della stessa non doveva, giusto il disposto dell'art. 656, comma 4-bis, c.p.p., essere sospesa.

Nei riguardi della menzionata ordinanza del tribunale di Genova l'interessato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del proprio difensore chiedendone l'annullamento e deducendo la violazione di legge in relazione all'art. 656, commi 5 e 10 c.p.p., nonché all'art. 47, comma 3-bis, ord. penit. oltre il vizio di motivazione con riferimento alle richiamate disposizioni come chiarito da un precedente di legittimità (esattamente Cass. pen., Sez. 1, 31 maggio 2016 5 dicembre 2016, n. 51864, Fanini) e tenuto comunque conto della ricorrenza, nella fattispecie, del principio del favor libertatis desumibile dall'elevazione ad anni quattro del limite per concedere la misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale operato dal citato art. 47, comma 3-bis, ord. penit. pur in mancanza di un formale adeguamento dell'art. 656 c.p.p.

La questione

Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha motivatamente disatteso il proprio ricordato precedente.

Prima di esaminare la soluzione della evidenziata questione offerta dalla S.C. di cassazione appare opportuno ricordate come l'art. 656, comma 5, c.p.p. (così come modificato dalla legge 27 marzo 1998, n. 165, c.d. legge Saraceni - Simeone) preveda che ove la pena da espiare da parte del condannato, anche se costituente residuo di una maggiore pena, non sia superiore a tre anni, il pubblico ministero che cura l'esecuzione deve disporre la sospensione dell'ordine di esecuzione per la carcerazione in modo da consentire al condannato di presentare dallo stato di libertà istanza di affidamento in prova al servizio sociale (o di detenzione domiciliare o di semilibertà) al tribunale di sorveglianza competente per territorio.

Ancora, deve essere ricordato che la misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale può, ai sensi dell'art. 47, comma 1, ord. penit., essere concessa al condannato che deve espiare una pena detentiva non superiore a tre anni e che sussiste, pertanto, un'evidente correlazione tra l'ambito di applicazione della sospensione dell'efficacia esecutiva dell'ordine di esecuzione per la carcerazione e l'ambito di applicazione dell'affidamento in prova.

Analogo meccanismo è stato, poi, introdotto dal d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni nella legge 21 febbraio 2006, n. 49, che prevede la sospensione dell'ordine di esecuzione per la carcerazione nel caso in cui la pena residua da espiare in concreto non superi i sei anni con riguardo alla possibilità di applicare l'affidamento in prova in casi particolari ai sensi dell'art. 94 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico stupefacenti), misura alternativa appunto concedibile al condannato tossicodipendente o alcoldipendente che deve espiare una pena non superiore a sei anni (limite di pena previsto dall'art. 94, comma 1, d.P.R. 309/1990 cit., modificato sul punto dal ricordato d.l. 272 del 2005).

Per concludere sul punto, deve essere evidenziato come il comma 10 dell'art. 656 c.p.p. stabilisca che qualora nella situazione considerata appunto dal comma 5 della stessa norma il condannato si trovi sottoposto agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire e la pena residua da espiare determinata ai sensi del comma 4-bis (comma introdotto dal d.l. 1 luglio 2013, n. 78, convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 94), cioè computando in relazione al titolo da eseguire tanto le detrazioni conseguenti all'applicazione della liberazione anticipata quanto gli eventuali periodi di presofferto in stato di custodia cautelare e di pena dichiarata fungibile, non supera i limiti di cui al predetto comma 5, il pubblico ministero deve sospendere l'esecuzione dell'ordine di carcerazione e trasmettere, senza ritardo, gli atti al tribunale di sorveglianza competente per territorio perché provveda all'applicazione di una delle misure alternative di cui al più volte menzionato comma 5 (affidamento in prova, ordinario o terapeutico, detenzione domiciliare, semilibertà e sospensione dell'esecuzione della pena ex art. 90 d.P.R. 309/1990).

Fino alla decisione del tribunale di Sorveglianza il condannato rimane sottoposto agli arresti domiciliari (e agli adempimenti previsti dall'art. 47-ter ord. penit. in materia di detenzione domiciliare provvede in ogni caso il Magistrato di Sorveglianza competente per territorio) ed il tempo trascorso in tale stato è considerato come pena espiata a tutti gli effetti.

Deve, infine, essere ricordato come il divieto di sospensione stabilito dall'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. operi, in caso di condanna per uno dei reati compresi nell'ambito di applicazione dell'art. 4-bis ord. penit. o per uno degli altri delitti ostativi previsti da detta norma (e cioè i reati di cui agli artt. 423-bis, 572, comma 2, 612-bis, comma 3, 624-bis, c.p.), anche nell'ipotesi in cui il reo, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, si trovi sottoposto, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, alla misura degli arresti domiciliari di cui al comma 10 della norma.

In proposito deve, infatti, essere evidenziato che, aderendo all'opposta interpretazione, si verrebbe a delineare un'irragionevole disparità di trattamento tra il condannato che al momento del passaggio in giudicato si trova in stato di libertà e si vede preclusa la possibilità di beneficiare della sospensione dell'ordine di carcerazione e il condannato sottoposto agli arresti domiciliari (misura equiparata, nel sistema delle misure cautelari delineato dal codice di procedura penale, alla custodia in carcere) che, appunto in modo del tutto irragionevole, godrebbe di un trattamento più favorevole.

Per completezza, deve essere aggiunto che il divieto di sospensione di cui all'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. trova applicazione anche nei confronti dei soggetti tossicodipendenti che hanno presentato istanza ex artt. 90 e 94 d.P.R. 309/1990, salvo che il reo al momento dell'irrevocabilità della sentenza si trovi sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari ai sensi dell'art. 89 d.P.R. 309/90 cit.

Tutto ciò premesso, deve essere osservato come il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, abbia introdotto nel testo dell'art. 47 ord. penit. il comma 3-bis con il quale è stato elevato, sia pure a certe condizioni, da tre a quattro anni il limite di pena entro il quale è concedibile l'affidamento in prova al servizio sociale e ciò nell'ambito di una politica diretta a fronteggiare il problema del sovraffollamento penitenziario ed a favorire la graduale riduzione della “popolazione carceraria”.

Come già anticipato il Legislatore non ha, però, formalmente adeguato il testo dell'art. 656, comma 5, c.p.p. che continua a prevedere, ai fini dell'applicabilità della sospensione automatica dell'ordine di esecuzione per la carcerazione, il limite di tre anni.

Le soluzioni giuridiche

Afferma, innanzitutto, la Corte di legittimità di non condividere il precedente di legittimità citato dal ricorrente secondo il quale «in tema di esecuzione di pene brevi, in considerazione del richiamo operato dall'art. 656, comma quinto, cod. proc. pen. all'art. 47 ord. pen., ai fini della sospensione dell'ordine di esecuzione correlata ad una istanza di affidamento in prova ai sensi dell'art. 47, comma terzo bis, ord. pen., il limite edittale non è quello di tre anni, ma di una pena da espiare, anche residua, non superiore a quattro anni» (cfr. Cass. pen. Sez. I, 31 maggio 2016, n. 51864, Fanini, v. nota di PALMA, L'affidamento in prova al servizio sociale: “la terra di mezzo” tra il nuovo art. 47 comma 3-bis ord. penit. e il vecchio art. 656 c.p.p., in Cass. pen., 2017, p. 2889).

In proposito deve essere evidenziato come la Corte di legittimità si fosse, però, già pronunciata, una prima volta, nello stesso senso con la sentenza 4 marzo 2016, n. 37848, Trani, affermando che «il richiamo dell'art. 656, comma 5, secondo periodo, c.p.p. all'art 47 ord. penit. nella sua interezza, consente di interpretare la prima norma avvalendosi del criterio sistematico e di quello evolutivo, pur in mancanza del dato formale di una sua esplicita modifica che, tenendo conto del recente inserimento del comma 3-bis nell'art 47 ord. penit., introduca il richiamo specifico dell'ipotesi prevista da tale nuovo comma nel testo letterale delle disposizione del codice di rito» con la conseguenza che il pubblico ministero deve sospendere l'ordine di esecuzione per la carcerazione in tutti i casi in cui la pena residua da espiare in concreto non supera i quattro anni e la stessa non è stata inflitta per uno dei delitti indicati nel comma 9, lett. a), dell'art 656 c.p.p. per i quali, come già ricordato, il beneficio della sospensione è escluso in via generale.

Detta interpretazione era stata, poi, confermata da Cass. pen., Sez. I, 9 novembre 2016, n. 53426, Hu Dongfang, ove in motivazione è stata evidenziata la necessità di una interpretazione adeguatrice dell'art. 656, comma 5, c.p.p. che, in conformità alla ratio ispiratrice del d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 cit., «mantenga ancora il parallelismo tra le ipotesi di sospensione dell'ordine di carcerazione ed i nuovi limiti di pena per l'affidamento in prova, sussistendo la medesima ragione giustificatrice di evitare l'ingresso in carcere a chi può fruire di misure alternative».

Con la sentenza 24 agosto 2017, n. 39889, Saracino, la Sezione feriale della Corte di cassazione aveva, infine, ulteriormente confermato tale orientamento a tenore del quale, appunto, il richiamo operato dall'art. 656, comma 5, secondo periodo, c.p.p. all'art. 47 ord. penit. nella sua interezza consente, sul piano sistematico e teleologico, di superare l'assenza di una espressa previsione normativa che allinei la regolamentazione della sospensione dell'esecuzione alla disposizione che disciplina i requisiti di accesso alla misura dell'affidamento in prova al servizio sociale.

La Corte di cassazione si pone ora in motivato contrasto con il più volte ricordato orientamento anche se si limita a citare uno solo dei precedenti esistenti sul punto.

Ricorda, in primo luogo, la S.C. come la citata pronuncia della stessa prima Sezione n. 51864 del 2016, faccia espressa applicazione del criterio di interpretazione evolutiva dell'art. 656, comma 5, secondo periodo, c.p.p. in modo da consentire la sospensione dell'ordine di esecuzione per la carcerazione a tutti i casi previsti dall'art. 47 ord. penit. «pur in mancanza del dato formale di una sua esplicita modifica che, tenendo conto del recente inserimento del comma 3-bis nell'art. 47 ord. pen., introduca il richiamo specifico dell'ipotesi prevista da tale nuovo comma nel testo letterale della disposizione del codice di rito».

Ciò premesso, la Corte di legittimità ricorda come il criterio dell'interpretazione evolutiva, criterio che affida al giudice la capacità di creare diritto in conformità allo sviluppo della società, è di controversa applicazione in ambito civile posto che «[…] è escluso in ambito processuale: Sez. U, n. 15144 del 11/07/2011, Rv. 617905; è ammesso nel settore delle controversie tributarie da Sez. 5, n. 30722 del 30/12/2011, Rv. 621046; è ammesso in quello della tutela dei soggetti deboli: Sez. 6, n. 19017 del 16/09/2011, Rv. 620058 e di promozione di categorie svantaggiate. Sez. U, n. 8486 del 14/04/2011 Rv. 616792».

Detto criterio è, poi, stato tradizionalmente escluso in ambito penale poiché in contrasto tanto con il principio costituzionale della riserva di legge quanto con il principio della separazione dei poteri.

In proposito, la pronuncia in esame ricorda, oltre ai paragrafi nn. 11 e 12 della sentenza n. 230 del 2012 della Corte costituzionale (sentenza con la quale è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 673 c.p.p. sollevata con ordinanza del tribunale di Torino, in composizione monocratica, depositata il 21 luglio 2011, con riferimento agli artt. 3, 13, 25, comma 2, 27, comma 3, e 117 Cost., nella parte in cui non consente la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna in caso di mutamento giurisprudenziale in forza del quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge come reato), il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha appunto escluso l'operatività, nel settore penale, del più volte ricordato canone interpretativo «sulla base del rilievo che ‘l'interpretazione estensiva della legge è consentita perché non amplia, ma discopre l'intero contenuto della norma; l'interpretazione evolutiva è invece vietata perché snatura la funzione del giudice da organo di applicazione in quello di formazione della legge' (Sez. 3, n. 2230 del 11/01/1980, Pasculli, Rv. 144357; a proposito dell'art. 54 cod. pen.: Sez. 3, n. 10772 del 07/10/1981, Potenziani, Rv. 151195), fatta salva la necessità di interpretare secondo il criterio storico-evolutivo determinate clausole a contenuto etico-sociale (sul comune senso del pudore, si veda Sez. 3, n. 5308 del 03/02/1984, Rossellini, Rv. 164642)».

Al riguardo è stato osservato in dottrina «si potrebbe obiettare come il punto debole del ragionamento seguito dalla Corte di legittimità consista nell'aver fatto ricorso a criteri ermeneutici sussidiari a fronte di una disposizione dall'univoco significato letterale: l'art 656 c.p.p. non lascia spazio a dubbi nell'individuare il limite di pena per la sospensione dell'ordine di esecuzione» (PALMA, op. cit., p. 2897).

Ciò ricordato, evidenzia la prima Sezione che, come già osservato, nel caso contemplato dall'art. 656, comma 10, c.p.p. del condannato ristretto all'atto del passaggio in giudicato della sentenza da eseguire agli arresti domiciliari, il pubblico ministero deve sospendere l'esecuzione dell'ordine di carcerazione, trasmettendo gli atti al tribunale di sorveglianza competente, se la residua pena da espiare, determinata ai sensi comma 4-bis dello stesso art. 656, non supera i limiti indicati al comma 5.

Evidenzia, ancora, la Corte che «a norma dell'art. 656, comma 5, cod. proc. pen., infatti, il pubblico ministero, deve provvedere alla determinazione della pena da espiare, a mente dell'articolo 656, comma 4-bis, cod. proc. pen., computando le detrazioni previste dall'articolo 54 ord. pen. e il periodo di custodia cautelare o di pena dichiarata fungibile, e se la pena che risulta non supera il limite di tre anni, ovvero quattro anni nei casi previsti dall'articolo 47-ter, comma 1, ord. pen. o sei anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 d.P.R. n. 309/1990, è tenuto a sospendere l'esecuzione».

Operata la complessiva ricostruzione delle richiamate disposizioni normative, la Corte procede ad individuare gli elementi che consentono di escludere, in difformità dal precedente indirizzo, la possibilità di procedere all'indicata interpretazione evolutiva dell'art. 656, comma 5, c.p.p..

Osserva, innanzitutto, la sentenza in questione che, a differenza dei casi previsti dall'art. 656, commi 5 e 10, c.p.p., l'ipotesi introdotta all'art. 47, comma 3-bis, ord. penit., non può trovare un'applicazione “automatica” da parte del pubblico ministero che cura l'esecuzione in quanto prevedendo la stessa «che l'affidamento in prova può, altresì, essere concesso al condannato [...] quando abbia serbato, quantomeno nell'anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2», richiede una specifica valutazione di merito da parte del tribunale di Sorveglianza.

La circostanza che il tribunale di Sorveglianza debba compiere, in considerazione dell'osservazione anche extra muraria, una valutazione del comportamento tenuto dal condannato nell'anno precedente alla presentazione della richiesta esclude, ad avviso della Corte di cassazione, che possa essere attribuito all'Organo dell'esecuzione «[…] un potere sostitutivo, neppure in via preliminare, di tale potestà giurisdizionale, del tutto estraneo al suo ruolo istituzionale».

«La discrezionalità del provvedimento giurisdizionale, agganciata a elementi valutativi compendiati in relazioni di osservazione o informazioni di polizia, è di ostacolo a una, anche solo sommaria, delibazione da parte dell'organo dell'esecuzione all'atto dell'emissione dell'ordine di carcerazione poiché il potere di sospenderne l'emissione, in vista della decisione del giudice competente, è di stretta interpretazione».

Aggiunge, infine, la Corte che, come evidenziato nell'ultimo numero dell'Osservatorio della Sorveglianza e dell'esecuzione penale pubblicato su questa Rivista, il legislatore è intervenuto con l'art. 1, commi 82 e 85, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (recante Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario) nel settore dell'ordinamento penitenziario dettando alcune disposizioni «logicamente inconciliabili con la proposta interpretazione evolutiva dell'art. 656 cod. proc. pen.».

Sul punto occorre, infatti, rilevare come la lettera c) del comma 85 della citata legge 103/2017 disponga, nella prima parte, che nel procedere alla revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative il legislatore delegato debba prevedere che il limite di pena che impone la sospensione dell'ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni.

Ciò premesso, rileva il Collegio che la ricordata disposizione corrobora l'interpretazione restrittiva dell'art. 656, commi 5 e 10, c.p.p., in quanto «[…] il criterio di delega, volto a elevare a quattro anni il limite di pena per la sospensione obbligatoria dell'ordine di carcerazione, sarebbe superfluo nell'ottica dell'interpretazione evolutiva propugnata nel ricorso».

Ciò premesso, la Corte ha, di conseguenza, rigettato il ricorso proposto avverso l'ordinanza pronunciata dal tribunale di Genova, in qualità di giudice dell'esecuzione,

in quanto il pubblico ministero, dedotto il periodo trascorso dal condannato in stato di custodia cautelare in carcere e di arresti domiciliari nonché il periodo massimo di liberazione anticipata astrattamente concedibile al condannato in relazione alla restrizione già subita, ha determinato la pena residua da espiare in misura superiore a tre anni di reclusione e, come tale, non suscettibile di essere sospesa.

Osservazioni

Deve, per completezza, essere evidenziato come il Gip del tribunale di Lecce abbia, con ordinanza 13 marzo 2017 (pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 35 del 30 agosto 2017) e dunque antecedentemente alla pubblicazione della legge delega 103/2017 (avvenuta il 4 luglio 2017), sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 656, comma 5, c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. nella parte in cui non consente di sospendere l'ordine di esecuzione in tutti i casi nei quali la pena residua da espiare in concreto non superi quattro anni e non ricorra una diversa causa di non sospensione.

Ritenuta la rilevanza nel caso di specie della predetta questione di legittimità costituzionale, il giudice remittente osserva, innanzitutto, con riferimento alla non manifesta infondatezza della questione stessa, che «il differente regime tra chi risulti condannato a pena infratriennale, e dunque ammesso all'affidamento in prova, e chi risulti condannato a pena infraquadriennale, ammesso all'affidamento in prova c.d. allargato, appare conseguente ad un disallineamento sistematico - non colmato in sede di conversione del decreto-legge n. 146/2013 con legge n. 10/2014 mediante modifica dell'art. 656 comma 5, cit. - idoneo a determinare una ingiustificata disparità di trattamento tra la prima categoria di soggetti, beneficiari della citata sospensione automatica, e la seconda categoria di soggetti, i quali, benché parimenti, ammessi alla fruizione di misure alternative alla detenzione, risultano irragionevolmente esclusi dal regime più favorevole dettato dall'art. 656 comma 5 cit.»

Il ricordato “disallineamento sistematico” deriva, infatti e come più volte evidenziato, dal mancato raccordo tra le norme degli artt. 47, comma 3-bis, ord. penit. e 656, comma 5, c.p.p. che non consente al pubblico ministero di sospendere l'ordine di esecuzione anche nei casi di affidamento in prova c.d. allargato.

Osserva, poi, il Gip del tribunale di Lecce che le due condizioni soggettive appena descritte appaiono del tutto simmetriche in quanto in entrambe le ipotesi di affidamento in prova al servizio sociale:

  • l'ammissione alla misura alternativa è comunque subordinata ad una verifica della condotta e della personalità del condannato;
  • la ratio del beneficio è sempre quella deflattiva e al contempo rieducativa.

Conclude, pertanto, il giudice a quo che la mancata previsione da parte dell'art. 656, comma 5 c.p.p., del potere-dovere di sospendere esecuzione delle pene detentive non superiori quattro anni «viola il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., nonché viola l'art. 27, comma 3 Cost., sotto il profilo della finalità rieducativa della pena, in quanto il condannato dai 3 ai 4 anni che sia in stato di libertà e abbia compiuto un percorso rieducativo tale da consentirgli di accedere all'affidamento in prova allargato è, ciononostante, costretto ad entrare in carcere».

Da ultimo, il Gip del tribunale esclude la possibilità di procedere ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma sospettata di illegittimità costituzionale in quanto non consentita in tutti i casi in cui, come quello in esame, «l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale» (così Corte costituzionale sentenza n. 78 del 2012).

Nella fattispecie, infatti, avendo «Il legislatore […] fatto ricorso ad una rigida determinazione aritmetica al fine di condizionare l'operatività dell'istituto della sospensione automatica, in quanto ha ancorato a quel quantum di pena una vera e propria presunzione di ridotta pericolosità del soggetto» «[…] l'elemento condizionante l'attivazione del meccanismo de quo risulta fondato su di un limite numerico, esso, per sua intrinseca natura, appare insuscettibile di modifiche in via interpretativa, e dunque ostativo ad una interpretazione adeguatrice del dettato normativo in scrutinio ai principi costituzionali» salvo procedere ad una pronuncia di tipo additivo.

Tuttavia, come osservato in dottrina (PALMA op. cit., p. 2898), non è del tutto da escludersi la possibilità di fare ricorso ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 656 c.p.p.: infatti se è vero che la norma che scaturisce dal loro coordinamento assume «carattere polisenso, sì da richiedere l'individuazione, tra le varie opzioni astrattamente possibili, di quella che non sia in contrasto con i valori costituzionali».

Per concludere la breve rassegna giurisprudenziale in materia, deve essere evidenziato come, successivamente alla pubblicazione della legge delega 103/2017, il tribunale di Milano, in composizione collegiale ed in qualità di giudice dell'esecuzione, abbia con ordinanza 24 agosto 2017, pronunciata prima del descritto reviremont della Corte di Cassazione, ritenuto che il limite per la sospensione dell'esecuzione debba essere individuato nella pena, anche residua, non superiore a 4 anni «ricorrendo - sempre in astratto, e fatta salva la valutazione riservata all'autorità giudiziaria di sorveglianza- le condizioni per l'accesso all'istituto del c.d. “affidamento in prova allargato”».

Osserva, infatti, il tribunale di Milano che, giusto il disposto dell'art. 12 delle preleggi, non è possibile fermarsi al dato letterale della norma ma occorre contestualizzare l'intenzione del legislatore e coordinare la norma stessa con il contesto legislativo «[…] nel quale, ora, non si trova soltanto l'art. 47 ord. penit. riformato, ma anche la legge delega sopra citata, atto normativo avente immediati effetti concreti che devono essere apprezzati dall'interprete alla luce dei principi di diritto delineati dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. in particolare la sent. 224/90) che esclude, in casi di affermazioni chiare e quindi concretamente e direttamente applicabili, che gli effetti della legge delega debbano essere differiti al momento dell'emanazione dei decreti attuativi».

Il tribunale di Milano conclude il proprio percorso argomentativo rilevando in conformità al ricordato orientamento dottrinale che, ove nonostante l'emanazione della legge delega si ritesse di privilegiare l'opposta interpretazione letterale e restrittiva dell'art. 656 c.p.p., dovrebbe essere sollevata la questione di legittimità costituzionale di detta norma, questione che «verrebbe certamente rigettata dovendo l'interprete, sempre in base al noto principio di residualità del ricorso costituzionale, privilegiare, qualora sussista, come nel caso di specie, un criterio interpretativo, compatibile con i principi costituzionali, che consente l'applicazione della legge».

Per ragioni di completezza, occorre ricordare come, in tema di depenalizzazione (parziale) del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali (art. 2 d.l. 463/1983 conv. legge 638/1983), la Corte di Cassazione abbia avuto modo di affermare che, in assenza del concreto esercizio della delega, non è possibile ritenere che i principi ed i criteri direttivi inseriti nella legge di delegazione in materia di depenalizzazione abbiano effetto modificativo dell'ordinamento vigente (così, espressamente e tra le altre, Cass. Sez. III, 14 aprile 2015, n. 20547, Carnazza).

Da ultimo, deve essere osservato come in un contesto normativo e giurisprudenziale, quale quello descritto, assai complesso e controverso, desti forte perplessità la scelta del legislatore di non procedere ad una diretta modifica dell'art. 656 c.p.p. in modo da evitare soluzioni giurisprudenziali divergenti e sostanzialmente lesive del principio di uguaglianza.

In proposito deve anche essere evidenziato come il termine per attuare la delega ed adottare i decreti legislativi recanti modifiche all'ordinamento penitenziario sia quello di un anno dall'entrata in vigore della legge 103/2017 e cioè, giusto il disposto del comma 95 dell'art. 1, il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (avvenuta, sulla serie generale n. 154 e come già ricordato, il 4 luglio 2017) .

In attesa di un eventuale intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e della pronuncia della Corte costituzionale potrebbe forse risultare preferibile, prima dell'emanazione del decreto delegato e nonostante la persuasività degli argomenti utilizzati dalla Prima sezione nella sentenza in commento, aderire all'interpretazione del tribunale di Milano, non solo in ossequio al generico principio del favor rei, ma anche al fine di assicurare in questa delicata materia, comunque direttamente incidente sulla libertà personale, prassi interpretative ed applicative dell'art 656 c.p.p. suscettibili di tradursi in esiti diversi (sospensione o meno dell'efficacia esecutiva dell'ordine di carcerazione) a seconda della Procura della Repubblica che cura l'esecuzione.

Guida all'approfondimento

DEGL'INNOCENTI - FALDI, I benefici penitenziari, Milano, 2014;

GIARDA - SPANGHER (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Milano, 2017;

FIORENTIN, Legge 23 giugno 2017 n. 103. Ordinamento Penitenziario, in Guida al diritto n. 32/2017, pp. 78 e 79;

PALMA, L'affidamento in prova al servizio sociale: “la terra di mezzo” tra il nuovo art. 47 comma 3-bis ord. penit. e il vecchio art. 656 c.p.p., in Cass. pen., 2017, p. 2891 e segg.).

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