Narcotest e perizia tossicologica. Il ragionevole dubbio in relazione all'accertamento del principio attivo

Gianluca Bergamaschi
29 Novembre 2017

La quaestio è se per ritenere accertata la natura e il principio attivo, indi l'offensività e la rilevanza penale, di una sostanza stupefacente, siano sufficienti elementi quali il narcotest, gli esiti delle intercettazioni telefoniche, le dichiarazioni testimoniali o le confessioni, ovvero si renda necessaria la perizia tossicologica.
Abstract

La quaestio è se per ritenere accertata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la natura e il principio attivo, indi l'offensività e la rilevanza penale, di una sostanza stupefacente spacciata o detenuta a fini di spaccio, siano sufficienti elementi quali il narcotest, gli esiti delle intercettazioni telefoniche, le dichiarazioni testimoniali o le confessioni, ovvero si renda necessaria, ove possibile, l'effettuazione della perizia tossicologica.

La giurisprudenza di legittimità in relazione alla fase cautelare

Circa la fase cautelare la Cassazione è essenzialmente orientata per la non necessità della perizia ma non è del tutto univoca.

Da una parte, infatti, vi sono sentenze che affermano la non necessità della perizia tossicologica e la sufficienza del narcotest durante le indagini preliminari circa i gravi indizi di colpevolezza necessari per disporre la misura (Cass. pen., Sez. IV, n. 2782/1997; Cass. pen., Sez. IV, n. 3380/2010; Cass. pen., Sez. IV, n. 22652/2017); con la precisazione che non manca neppure chi ritenga neanche quello necessario in caso di una misura precautelare come l'arresto in flagranza, giudicando all'uopo sufficienti altri elementi, quali l'esperienza degli operanti nel riconoscere la sostanza, la suddivisioni in dosi, i precedenti del prevenuto e le dichiarazioni di altre persone (Cass. pen., Sez. IV, n. 3380/2010).

D'altra parte, però, vi è un orientamento che, pur reputando sufficiente il narcotest in sede cautelare, lo limita al mero riconoscimento del principio attivo, inteso come natura della sostanza, mentre propende per la necessità della perizia tossicologica ove si debba approfondirne l'entità o l'indice, infatti: «[…] per stabilire l'effettiva natura stupefacente di una determinata sostanza, non è indispensabile fare ricorso ad una perizia chimica tossicologica, ma può essere ritenuto sufficiente il narcotest, accertamento tecnico assistito da piena dignità scientifica. Si tratta, infatti, di un accertamento qualitativo mediante analisi speditiva, utile per l'immediato riscontro di sostanze stupefacenti, composto da una serie di saggi cromatici che consentono di riconoscere e distinguere con oggettività i principi attivi. Soltanto per valutare l'entità o indice di tali principi attivi, occorre procedere al più approfondito esame chimico-tossicologico sulla sostanza stessa (ex multis, Cass. pen.,Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 45619)». (Cass. pen., Sez. III, n. 22498/2015).

La giurisprudenza di legittimità in relazione al merito

Anche circa la prova della natura e del principio attivo della sostanza in sede di giudizio di merito, la Cassazione non sembra avere una soluzione univoca.

Infatti, è rinvenibile una tendenza a ritenere necessaria la perizia tossicologica, oltre che nella già citata Cass. pen., III, n. 22498/2015, anche in Cass. pen., Sez. III, n. 44420/2013, ove la Corte non considerò raggiunta la prova dell'offensività, e quindi della rilevanza penale, del possesso di 0,9 grammi “lordi” di eroina, in quanto: «Non altrettanto può dirsi in ordine agli ulteriori elementi oggetto di prova; infatti, solo un accertamento tecnico specifico avrebbe consentito di quantificare la percentuale e la quantità di principio attivo effettivamente presente in ciascuna delle confezioni e nelle tre confezioni complessivamente considerate. La mancanza di detto accertamento rende impossibile affermare con certezza che il quantitativo modestissimo della sostanza sequestrata possieda livelli di principio attivo tali da avere concreti effetti stupefacenti e da comportare quelle possibili alterazioni dell'organismo che costituiscono l'offesa al bene protetto oggetto di sanzione penale».

In linea, sebbene meno recisamente, si collocano altre sentenze, come Cass. pen., Sez. VI, n. 6069/2017, che, chiamata a qualificare una detenzione a fini di spaccio, ravvisò la ricorrenza del fatto di lieve entità, ex art. 73, comma 5, del d.P.R. 309/1990, in forza dei principi del ragionevole dubbio e del favor rei, giacché la sostanza era stata analizzata solamente con il narcotest, in quanto: «[…] il narcotest può validamente evidenziare la natura stupefacente di una determinata sostanza, siccome caratterizzato da un procedimento sufficientemente affidabile a questo limitato fine (in tal senso, del resto, si pone l'orientamento ampiamente consolidato in giurisprudenza, e per il quale, tra le tante, cfr.: Cass. pen., Sez. III, 17 marzo 2015, n. 22498, Ristucchi; Cass. pen., Sez. VI, 26 settembre 2013, n. 43226, Hu; Cass. pen., Sez. IV, 14 dicembre 1993, n. 2259, Zecchini).»; ma: «[…] occorre considerare che: a) come evidenziato nel ricorso, il narcotest non consente di accertare la quantità di principio attivo della sostanza stupefacente; b) il peso ponderale della droga rinvenuta, pari complessivamente a circa 172,61 grammi, pur essendo significativo, potrebbe contenere un principio attivo di percentuale modestissima in ipotesi di scadente o scadentissima qualità della sostanza; c) l'ipotesi di una scadente o scadentissima qualità della sostanza non può essere esclusa mediante accertamenti tecnici per la sopravvenuta irreperibilità di quanto sequestrato; d) difettano ulteriori elementi utili a ritenere che lo stupefacente fosse di buona o media qualità».

Altrettanto fa Cass. pen., Sez. VI, n. 18405/2017, che, circa la cessione di 1,6 gr. e della detenzione di un ulteriore grammo di un fungo allucinogeno contenente psilocibina, annullò con rinvio la sentenza perché era mancata qualsiasi analisi tossicologica, giacché: «Se infatti per stabilire l'effettiva natura stupefacente di una determinata sostanza è sufficiente il narcotest, senza che sia indispensabile far ricorso ad una perizia chimica tossicologica, tale ultimo accertamento tecnico è necessario, invece, ove occorra valutare l'entità o l'indice dei principi attivi contenuti nei reperti (Cass. pen., Sez. III, 17 marzo 2015, n. 22498) e il giudice non possa attingere tale conoscenza anche da altre fonti di prova acquisite agli atti (Cass. pen., Sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 22238; Cass. pen., Sez. VI, 26 settembre 2013, n. 43226).».

In tali arresti, comunque, l'affermazione della necessità della perizia è del tutto relativa, in quanto si lascia aperta la possibilità che gli elementi acquisibili con la perizia tossicologica, vengano attinti anche da altri elementi di prova, cosicché la prima si pone come necessaria solo in assenza dei predetti, finendo per cozzare, altrimenti, contro il principio del ragionevole dubbio.

In effetti, l'indirizzo prevalente è orientato per la non necessità della perizia e per la sufficienza del narcotest o di altri elementi istruttori per accertare la natura, il principio attivo e la capacità drogante della sostanza stupefacente (Cass. pen., Sez. IV, 14 dicembre 1993; Cass. pen., Sez. V, n. 5130/2011; Cass. pen., Sez. III, n. 28556/2012; Cass. pen., Sez. VI, n. 43226/2013; Cass. pen., Sez. VI, n. 47523/2013 Cass. pen., Sez. IV, n. 22238/2014; Cass. pen., Sez. IV, n. 4324/2016).

Paradigmatica è la Cass. pen., Sez. III, n. 28556/2012, in cui la Corte – nell'ambito di un caso caratterizzato da un ingente quantitativo di droga sequestrato all'estero e ivi peritato – ribadisce la non necessità della perizia, giacché: «[…] al fine di stabilire l'effettiva natura stupefacente di una sostanza non è necessario ricorrere ad una perizia tossicologica, essendo del tutto sufficienti altri mezzi di prova, quali, ad esempio, le dichiarazioni testimoniali, gli accertamenti di polizia, le intercettazioni telefoniche (Cass. pen., Sez. V, 11 febbraio 2011, n. 5130), i pareri di consulenti tecnici delle parti che abbiano esaminato il corpo del reato (Cass. pen., Sez. IV, 29 gennaio 2009, n.4278,), il narcotest (Cass. pen., Sez. VI, 20 novembre 2003, n. 44789; Cass. pen., Sez. IV, 7 novembre 1997, n. 2782; Cass. pen., Sez. IV, 23 febbraio 1994, n. 2259) o le ammissioni degli imputati (Cass. pen., Sez. V, 23 settembre 1991, n. 849) poiché tale necessità non deriva né dalla legge né dalla esperienza (Cass. pen., Sez. VI, 4 dicembre 1992, n. 11564) ed è richiesta, a tale proposito, soltanto un'adeguata motivazione da parte del giudice (Cass. pen., Sez. VI, 22 luglio 1992, n. 8169)».

Tale giurisprudenza, del resto, fa aggio sul più generale indirizzo che esclude che la perizia rientri nel c.d. diritto alla prova o che possa considerarsi “decisiva” e, come tale, idonea a sorreggere il ricorso in Cassazione ex art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p., ciò: «[…] in quanto è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la stessa, per il suo carattere "neutro", sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa alla discrezionalità del giudice, non solo non possa costituire oggetto del diritto delle parti alla prova a mente dell'art. 190 c.p.p., ma non possa neppure farsi rientrare nel concetto di prova decisiva: con l'inevitabile conseguenza che il relativo provvedimento di diniego non è "sanzionatane" ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto giudizio di fatto che, se – come nella fattispecie è accaduto – sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione (così, tra le tante, Cass. pen., Sez. IV, 22 gennaio 2007, n. 14130, Pastorelli; Cass. pen., Sez. IV, 5 dicembre 2003, n. 4981; Cass. pen., Sez. II, 14 novembre 2003, n. 835, Musumeci; Cass. pen., Sez. IV, 7 luglio 2003, n. 34089, Bombino)» (Cass. pen., Sez. VI, n. 43526/2012).

La giurisprudenza di legittimità in relazione al principio del ragionevole dubbio

Considerato che il problema appare configurarsi come prettamente probatorio, è necessario fare una breve digressione circa la sua nozione cardine, ossia quella di ragionevole dubbio.

Come è noto, quando l'art. 5 della l. 46 del 2006, modificò l'art. 533, comma 1, c.p.p., codificando tale regola di giudizio, il primo impulso della Cassazione fu di sminuirne la portata innovativa e rafforzativa della presunzione d'innocenza, affermando che la novella aveva solo formalizzato un principio già presente nell'ordinamento in forza dell'art. 530, comma 2, c.p.p.,cosicché: «[…] la modifica legislativa finisce per rivelarsi indifferente sul piano del giudizio»; in quanto: « […] il legislatore non ha introdotto un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice ma ha semplicemente formalizzato un principio già acquisito dalla giurisprudenza, secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale della responsabilità dell'imputato (Cass. pen., Sez. I, 11 maggio 2006, n. 20371)» (Cass. pen., Sez. I, n. 20371/2006; Cass. pen., Sez. I, n. 30402/2006; Cass. pen., Sez. II, n. 16357/2008).

Successivamente la Corte, senza rimangiarsi esplicitamente nulla, avvertì la necessità di dare delle definizioni sempre più precise e stringenti, con cui il principio è venuto evolvendosi ed ha assunto una nuova e più garantista portata.

Infatti, già la Cass. pen., Sez. I, n. 31456/2008 precisò che: «Circa il modo di intendere il precetto secondo cui "il giudice pronuncia la sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio" […] il citato dettato normativo impone di pronunciare condanna quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie concreta non trova il benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.»; poi la Cass. pen., Sez. IV, n. 41968/2016 fu anche più chiara e perentoria in senso garantistico, affermando che: «Come è noto, infatti, perché il parametro dell'al di là del ragionevole dubbio sia rispettato occorre che il reato sia attribuibile all'imputato con un alto grado di credibilità razionale: ciò significa che le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, devono risultare prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Cass. pen., Sez. I, n. 20461/2016)».

La parte più interessante della giurisprudenza è, però, quella che coglie la correlazione tra la regola di giudizio del ragionevole dubbio – sfociante, se rispettato, nella certezza ragionevole – e la prova indiziaria (Cass. pen., Sez. I, n. 31456/2008; Cass. pen., Sez. I, n. 19933/2010; Cass. pen., Sez. VI, n. 1986/2017).

Di particolare pregio è la Cass. pen., Sez. I, n. 19933/2010, secondo la quale: «Il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall'art. 192 c.p.p., comma 2, – il cui nucleo essenziale è già racchiuso, peraltro, nella regola stabilita per la valutazione della prova in generale dal comma 1 della medesima disposizione, nonché in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall'art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), – deve condurre alla conclusione caratterizzata da un alto grado di razionalità razionale, quindi alla "certezza processuale" che, esclusa l'interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all'agente come fatto proprio»; infatti anche prima della modifica dell'art. 533 c.p.p.: «Si era, in proposito, argomentato, che la prova indiziaria è quella che consente la ricostruzione del fatto in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili (Cass. pen., 2 marzo, 1992, n. 3424; Cass. pen., Sez. VI, 8 aprile 1997, n. 1518; Cass. pen., Sez. II, 10 settembre 1995, n. 3777)»; cosicché la Corte concluse che: «[…] la regola di giudizio dell'"oltre il ragionevole dubbio" pretende percorsi epistemologicamente corretti, argomentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazione razionale della decisione, standard conclusivi di alta probabilità logica in termini di certezza processuale, essendo indiscutibile che il diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa, estende il suo ambito fino a comprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale della prova. È evidente, in tale prospettiva, la stretta correlazione, dinamica e strutturale esistente tra la regola dell'"oltre il ragionevole dubbio" e le coesistenti garanzie, proprie del processo penale, rappresentate: a) dalla presunzione di innocenza dell'imputato, regola probatoria e di giudizio collegata alla struttura del processo e alle metodiche di accertamento del fatto; b) dall'onere della prova a carico dell'accusa; c) dalla regola di giudizio stabilita per la sentenza di assoluzione in caso di "insufficienza", "contraddittorietà" e "incertezza" della prova d'accusa (art. 530 c.p.p., commi 2 e 3), secondo il classico canone di garanzia in dubio pro reo; d) dall'obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie e della necessaria giustificazione razionale delle stesse».

Considerazioni

La Cassazione prevalente, dunque, propende per la non necessità legale della perizia tossicologica, al fine di ritenere provata la natura ed il principio attivo, indi l'offensività e la rilevanza penale, di una sostanza stupefacente spacciata o detenuta a fini di spaccio, pur arrivando a qualificarla come la prova regina a detto scopo (Cass. pen., Sez. IV, n. 4324/2016).

Resta, però, da verificare se, pur non esistendo un obbligo legale diretto e specifico, sia possibile rinvenirne uno indiretto e generale, almeno al presentarsi di determinate condizioni, ossia quando la prova sia raggiunta solo per via indiziaria.

La questione si gioca, dunque, sul piano probatorio e sul conseguimento della certezza razionale quale esito dell'esame del compendio indiziario alla luce del principio del ragionevole dubbio, in base al quale, se non appaiono ragionevoli e/o non radicate in atti diverse plausibili ipotesi alternative, l'assunto accusatorio, pur non direttamente provato, viene ritenuto vero, perché a quella conclusione logica conducono gli altri elementi accertati e posti in correlazione tra loro.

Su questa via – nella gran parte dei casi pratici, specie di medio o piccolo cabotaggio, ossia caratterizzati da non elevate quantità – si ritiene accertato, conformemente al principio del ragionevole dubbio, che si tratti di sostanza drogante, quindi rilevante penalmente, il materiale contenente tracce di una sostanza stupefacente, in base ad un quadro probatorio, nella più parte dei casi, meramente indiziario, in quanto, composto dagli esiti del narcotest – il quale, in realtà, rivela solo che nel materiale vi sono tracce di una data sostanza – e/o da testimonianze, intercettazioni e magari confessioni di soggetti che non hanno la piena e diretta contezza del dato ricercato, ossia l'entità del principio attivo e la capacità drogante del materiale, non avendo essi stessi svolto nessun accertamento chimico tossicologico in tal senso.

In questi casi, sarebbe meglio dire che si preferisce presumere la rilevanza penale della sostanza in base all'id quod plerumque accidit, ossia all'idea che chi intende commerciare in droga drogante, quella spacci o detenga per lo spaccio, con il che, però si utilizza un principio sostanzialmente probabilistico che inclina il giudizio penale, fondato sul criterio della certezza ragionevole, verso quello civile, fondato sul criterio del maggior probabile, cosa che dovrebbe essere il più possibile evitata.

Credo che questo sia il punto, ossia ritenere, in un'ottica ulteriormente evolutiva del principio del ragionevole dubbio, non conforme a esso e, dunque, non provato, un assunto accusatorio che pure si possa ritenere dimostrato per via indiziaria, laddove, sullo stesso sia possibile esperire una prova diretta.

Sostanzialmente, dunque, appare semplicemente garantistico, ossia improntato ai cardini costituzionali e codicistici evidenziati supra in Cass. pen., Sez. I, n. 19933/2010, non accontentarsi di provare per via indiziaria, ciò che può essere provato in via diretta, attraverso, ad esempio, una testimonianza diretta (in tal senso, del resto, inclina la disciplina dell'art. 95 c.p.p. in materia di testimonianza indiretta) o una perizia, almeno in tutti i casi in cui esista il materiale d'assoggettare alla stessa.

In altre parole è, forse, comodo e sbrigativo, accontentarsi di un quadro indiziario, anche laddove sia possibile esperire una prova diretta, ma non è né razionale, né ragionevole, né, dunque, garantistico.

In conclusione

Alla luce di ciò, si può concludere che non appare stravagante affermare che in un'ottica ulteriormente evolutiva del principio sancito dall'art. 533, comma 1, c.p.p., esso può rappresentare la comminazione legale, sebbene generale ed indiretta, della necessità di effettuare la perizia tossicologica per accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la natura ed il principio attivo, indi l'offensività e la rilevanza penale, di una sostanza stupefacente spacciata o detenuta a fini di spaccio, ogniqualvolta si disponga del relativo materiale in sequestro, senza accontentarsi mai di un compendio indiziario, per quanto possa apparire grave, preciso e concordante; anche perché, tale ultima valutazione è inevitabilmente ancorata alla soggettiva “soglia della prova” di ogni singolo giudice, la quale finisce spesso per sconfinare nell'arbitrio più totale proprio quando si passi dall'esame di una prova diretta a quello di un quadro indiziario, nonché alla sua letteraria abilità di motivare una decisione discutibile, sottraendola così al vaglio di legittimità e facendo diventare il processo una gara tra la difesa ed il giudice, anziché con il P.M.

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