La Cassazione è sicura: la 231 si applica anche alle società unipersonali e alle società fallite (ma i problemi restano …)

Ciro Santoriello
04 Dicembre 2017

In un procedimento penale aventi ad oggetto alcune condotte di corruzione poste in essere da amministratori di società private interessate ad ottenere l'edificabilità di alcuni aree e terreni siti nel terreno di Monza, venivano chiamate a rispondere dell'illecito da reato ai sensi dell'art. 25 d.lgs. 231 del 2001 anche le predette persone giuridiche quali soggetti che risultavano avvantaggiati dal delitto di corruzione, anzi quali soggetti nel cui interesse l'attività di corruzione era stata posta in essere. ...
Massima

La disciplina in tema di responsabilità da reato delle società trova applicazione anche con riferimento alle società unipersonali, in quanto la normativa presente nel d.lgs. 231 del 2001 è riferita agli enti ovvero a tutti i soggetti di diritto non riconducibili alla persona fisica, indipendentemente dal conseguimento o meno della personalità giuridica.

Il fallimento della società non determina l'estinzione dell'illecito previsto dal d.lgs. 231 del 2001 o delle sanzioni irrogate a seguito del suo accertamento.

Il caso

In un procedimento penale aventi ad oggetto alcune condotte di corruzione poste in essere da amministratori di società private interessate a ottenere l'edificabilità di alcuni aree e terreni siti nel terreno di Monza, venivano chiamate a rispondere dell'illecito da reato ai sensi dell'art. 25 d.lgs. 231 del 2001 anche le predette persone giuridiche quali soggetti che risultavano avvantaggiati dal delitto di corruzione, anzi quali soggetti nel cui interesse l'attività di corruzione era stata posta in essere.

In primo grado, gli enti collettivi imputati erano stati condannati ma, in secondo grado, la Corte d'appello di Milano pronunciava sentenza di assoluzione. La sentenza di assoluzione era giustificata dal fatto che venivano assolti alcuni dei pubblici ufficiali che si sosteneva essere stati beneficiati dai pagamenti illeciti, sicché essendo venuto meno l'illecito presupposto della colpevolezza della società, anche quest'ultima doveva andare esente da ogni responsabilità.

La procura della Repubblica ricorreva in Cassazione sostenendo che la prova del versamento di somme di denaro a scopo corruttivo da parte della società sarebbe stata sufficiente per la condanna della persona giuridica, essendo invece irrilevante per giungere a tale conclusione la mancata identificazione dell'identità del pubblico funzionario corrotto. Le difese replicavano ai ricorsi dell'accusa, sostenendo, per quanto di interesse in questa sede, che nel caso di specie era l'intera disciplina contenuta nel d.lgs. 231 del 2001 a non poter trovare applicazione e ciò in quanto a) le società coinvolte erano società unipersonali, e b) erano state dichiarate fallite.

La questione

Due i profili esaminati nella pronuncia in commento per quanto attiene la disciplina della responsabilità da reato degli enti collettivi.

In primo luogo, è stato portata all'attenzione della Suprema Corte la questione della possibilità di applicare la disciplina di cui al d.lgs. 231/2001 alla società unipersonale.

Il tema risulta affrontato e risolto in senso diverso da diversi tribunali di merito. Mentre infatti il tribunale di Roma - Sezione giudice delle indagini preliminari, sia pur con riferimento ad una società di persone – fenomeno giuridico diverso dalla società unipersonale –, ha affermato che l'applicazione della disciplina in parola presuppone necessariamente la identificazione e sovrapposizione tra il titolare dell'impresa e la ditta stessa, il tribunale di Milano, con due pronunce emesse nell'ambito di un medesimo procedimento, ha risolto in senso positivo la questione.

Quanto alla dottrina, l'orientamento assolutamente prevalente è decisamente negativo sostenendosi che nell'ipotesi in cui alla presenza della personalità giuridica non si accompagni una situazione di pluralità di soci allora lo schermo societario assolve l'essenziale funzione di limitazione della responsabilità, senza però che si ravvisino vere differenze qualitative – almeno rispetto alla sostanza economica del fenomeno – con l'impresa individuale e quindi in tali ipotesi il cumulo delle sanzioni penali e delle sanzioni del diritto punitivo degli enti rischierebbe di risolversi in una duplicazione che integrerebbe una violazione del fondamentale divieto del ne bis in idem sostanziale (STORTONI-TASSINARI, secondo cui «l'interrogativo che sta alla base del tema dei soggetti è, dunque, quello del quando la duplicazione della sanzione e la ricerca, ad essa correlata, di un equilibrio fra la sfera individuale e quella collettiva della responsabilità sia rispondente alle intrinseche esigenze di commisurazione proprie del diritto punitivo». Analogamente, ZANNOTTI, che ravvisa nel carattere della “collettività” il presupposto dell'applicazione delle prescrizioni del d.lgs. 231/2001).

Meno incerta – anzi potremmo dire indiscussa – la soluzione da fornire al quesito circa la possibilità di applicare la disciplina del decreto legislativo 231/2001 alla società fallita. In proposito, alcune decisioni delle Corti di merito avevano sostenuto che il fallimento della società determinasse l'estinzione dell'illecito previsto dal d.lgs. 231 del2001 (trib. Roma, 7 febbraio 2012, Arielli) ma tale tesi però è stata rigettata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., Sez. un., 25 settembre 2014,n. 11170, Uniland Spa e altro; Cass. pen., Sez. V, 16 novembre 2012, n. 4335, Franza; Cass. pen., Sez. V, 2 ottobre 2009, n. 47171, Vanuzzo; Cass. pen., Sez. V, 26 settembre 2012,n. 44824, Magiste International s.a.), che ha evidenziato come la dichiarazione di insolvenza della persona giuridica – quale che sia la procedura concorsuale che viene ad aprirsi – non è normativamente prevista quale causa estintiva dell'illecito dell'ente e non è possibile assimilare il fallimento della società alla morte del reo perché una società in stato di dissesto, per la quale si apra la procedura fallimentare, non può dirsi estinta, tanto è vero che il curatore ha esclusivamente poteri di gestione del patrimonio al fine di evitare il depauperamento dello stesso e garantire la par condicio creditorum mentre la proprietà del patrimonio compete ancora alla società.

Le soluzioni giuridiche

I giudici di legittimità hanno ritenute infondate entrambe le questioni sollevate dalle difese, con una motivazione assai sintetica.

Con riferimento alla applicazione della normativa in discorso alle società fallite, non era effettivamente necessario soffermarsi a lungo. Come detto, da sempre si è ritenuto che l'apertura della procedura concorsuale a carico della società non influisce sulla portata applicativa della normativa contenuta nel d.lgs. 231 del 2001e tale conclusione ha ricevuto il definitivo avallo delle Sezioni unite.

Quanto al tema delle società unipersonali e la possibilità di applicare alle stesse la medesima disciplina, la Cassazione evidenzia come il presupposto indefettibile per l'applicazione del diritto sanzionatorio degli enti è l'esistenza di un soggetto di diritto metaindividuale, quale autonomo centro di interessi e di rapporti giuridici e la società unipersonale rientra in tale fenomenologia in quanto soggetto di diritto distinto dalla persona fisica che ne detiene le quote, anche se – come vedremo – rimane di difficile risoluzione il tema dei rapporti fra l'applicazione delle sanzioni pecuniarie previste dal d.lgs. 231/2001 e la tutela dei creditori che hanno diritto di soddisfarsi sulla massa fallimentare.

Osservazioni

La valutazione della decisione in commento è parzialmente diversa in relazione alle due diverse questioni esaminate dalla Cassazione.

In proposito, è bene premettere che su entrambe le soluzioni suggerite dalla Corte di legittimità non si può essere d'accordo ma diverse sono le conseguenze e le problematiche che ne derivano.

Con riferimento alla possibilità di applicare il decreto legislativo 231 del 2001 alla società unipersonale non si non può concordare con quanto asserito dai giudici di legittimità, deponendo a favore di questa conclusione una pluralità di dati normativi. In primo luogo, l'art. 1, comma 2, d.lgs. 231/2001 afferma che le disposizioni del medesimo decreto «si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica», così evidenziato come sia indifferente che l'ente abbia o meno conseguito la personalità giuridica e sia irrilevante l'esistenza di un carattere collettivo dell'ente (e, pertanto, dall'esistenza di un substrato associativo o patrimoniale dello stesso). In secondo luogo, l'art. 27 d.lgs. 231 del 2001 stabilisce che dell'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria risponde il solo ente con il proprio patrimonio, anche nelle ipotesi di enti privi di autonomia patrimoniale perfetta.

In terzo luogo, e a contrastare l'osservazione secondo cui sarebbe opportuno escludere dall'applicazione delle prescrizioni del d.lgs. 231/2001 le società in discorso in quanto assai di frequente di modeste dimensioni, sta la previsione di cui all'art. 6 del medesimo decreto. In proposito, va ricordato come alcuni autori ritengano che l'applicazione della indiscutibilmente complessa e articolata normativa contenuta nel d.lgs. 231/2001 a realtà organizzative minimali sarebbe decisamente inopportuna ed inutile, tant'è vero che nel corso dell'elaborazione del decreto era stato proposto l'inserimento di una clausola di esclusione della responsabilità per gli enti di limitate dimensioni: tuttavia, queste considerazioni sono decisamente messe nel nulla (risultando così confermata la conclusione raggiunta dalla Cassazione nella decisione in commento) dalla previsione di cui al citato art. 6, comma 4, d.lgs. 231/2001, che prevede «negli enti di piccole dimensioni» il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di organizzazione dell'ente e di curare il loro aggiornamento può essere svolto direttamente dall'organo dirigente, il che chiaramente evidenzia come il Legislatore abbia inteso assoggettare alla responsabilità da reato anche realtà organizzative di modeste dimensioni, le quali abbiano assunto la forma di persona giuridica.

Come è stato detto, dunque, «in tale contesto sistematico non può, pertanto, dubitarsi dell'idoneità della società unipersonale ad assurgere a destinataria delle prescrizioni e delle sanzioni di cui al d.lgs. 231/2001, anche nelle ipotesi in cui tale compagine, in assenza di un'articolata organizzazione interna, paia difficilmente distinguibile sul piano economico dall'esercizio dell'attività d'impresa in forma individuale … [andando riconosciuto che] alla stregua del diritto positivo la netta distinzione tra interessi e rapporti giuridici facenti capo alla società rispetto a quelli del suo socio (seppur unico)» (D'ARCANGELO, secondo cui «la società unipersonale [non] può essere giuridicamente assimilata all'esercizio in forma individuale dell'attività d'impresa, in quanto la società evidenzia pur sempre un'autonomia patrimoniale che la rende soggetto distinto dal suo titolare e la assoggetta ad un regime giuridico diverso ed irriducibile a quello dell'imprenditore individuale»).

Più complessa è la questione dei rapporti fra responsabilità da reato degli enti collettivi e le procedure concorsuali, poiché, una volta riconosciuto che anche l'ente fallito o comunque ammesso a procedura concorsuale può essere sottoposto a procedimento ex d.lgs. 231/2001 e quindi essere destinatario dei provvedimenti latu sensu sanzionatori che possono essere adottati al termine di tale processo – ovvero essere assunti in via interinale e cautelare nel corso del medesimo processo –, si apre tuttavia un ulteriore fronte problematico. Può accadere infatti che, in sede di giudizio ex d.lgs. 231 del 2001, vengano assunti – o a titolo di sanzione definitiva o in sede cautelare – provvedimenti di vincolo sul patrimonio della persona giuridica sotto processo ma se l'ente colpito da tali provvedimenti viene nel frattempo – o sia stato in precedenza dichiarato fallito – allora la confisca o il sequestro preventivo andranno ad incidere (non più su disponibilità economiche della società, quanto) su beni di pertinenza della massa attiva della procedura concorsuale, alla quale – proprio in ragione di quei provvedimenti giurisdizionali – sarà precluso il raggiungimento degli obiettivi e delle finalità che gli sono propri ed in particolare la liquidazione al miglior prezzo del patrimonio sociale ed il soddisfacimento dei creditori.

Ecco dunque che si affaccia un quesito la cui risoluzione da tempo affanna la giurisprudenza ovvero se il giudice, in sede di giudizio nei confronti dell'ente collettivo, ritenga di dover confiscare o sottoporre a sequestro preventivo beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa – e segnatamente dei creditori in buona fede – e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato. A tale quesito, peraltro, da tempo se ne accompagna un altro, giacché fra quanti ritengono necessario un contemperamento fra le contrapposte esigenze della procedura concorsuale e dell'osservanza del dettato contenuto nel d.lgs. 231 del 2001 si discute se tale valutazione vada operata dal giudice penale o dal giudice fallimentare.

Sui temi sopra indicati la Cassazione si è pronunciata più volte, anche a Sezioni unite e può anzi sostenersi che il dibattito origina proprio da una sentenza del massimo consesso della Cassazione, la pronuncia a Sezioni unite del 24 maggio 2004 n. 29951, ricorrente Focarelli, che – prescindendo dall'applicazione del dettato contenuto nel d.lgs. 231 del 2001 – verificò se fosse consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di beni provento di attività illecita dell'indagato e di pertinenza di impresa dichiarata fallita. Le Sezioni unite affermarono che, pur in mancanza di una previsione legislativa, non poteva comunque sostenersi la radicale insensibilità del sequestro alla procedura concorsuale, affidando al potere discrezionale del giudice la conciliazione dei contrapposti interessi, ovvero di quelli propri della tutela penale (impedire che i proventi di illecito potessero giovare all'indagato) e di quelli tipici della procedura concorsuale (tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare).

Nella stessa pronuncia, tuttavia, la Cassazione distingueva fra le diverse ipotesi di sequestro e confisca, escludendo che in ipotesi di confisca obbligatoria il giudice potesse evitare di adottare il provvedimento ablatorio, in considerazione degli interessi della curatela fallimentare, giacché in tali casi le finalità del fallimento non sono in grado di assorbire la funzione assolta dal sequestro dovendosi sempre riconoscere assoluta prevalenza all'esigenza preventiva «di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente pericoloso in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato; [sicché] le ragioni di tutela dei terzi creditori sono destinate ad essere pretermesse rispetto alla prevalente esigenza di tutela della collettività». Conclusioni diverse, per l'appunto, sarebbe formulabili in caso di confisca facoltativa, la quale non si giustifica sulla pericolosità della cosa in sé ma in ragione della relazione che la lega al soggetto che ha commesso il reato: in tali circostanze infatti la funzione del sequestro preventivo o della confisca, che è quella di evitare che il reo resti in possesso delle cose che sono servite a commettere il reato o che ne sono il prodotto o il profitto, potrebbe ben essere realizzata mediante lo spossessamento dei beni in capo al fallito determinato dalla procedura concorsuale assorba, contemperandola con la garanzia dei creditori sul patrimonio dell'imprenditore fallito.

La sentenza Focarelli, tuttavia, la stessa pronuncia della Cassazione lasciava non chiarito un profilo essenziale, non considerando come il nostro ordinamento penale contempla diverse ipotesi di confisca obbligatoria – ed una è proprio la confisca ex art. 19 d.lgs. 231 del 2001, come meglio si dirà – che non hanno per oggetto cose intrinsecamente pericolose, ovvero gli oggetti di cui al n. 2 del comma secondo dell'art. 240 c.p., sicché si è cominciato a discutere se l'affermazione secondo cui il giudice penale non deve considerare in alcun modo gli interessi del fallimento fosse un principio da tenere fermo in ogni caso in cui fosse prevista la confisca obbligatoria dei beni o solo quando tale obbligatorietà fosse determinata dalla natura, intrinsecamente pericolosa, del bene che ne forma oggetto (COMPAGNA). Sul punto sono perciò intervenute nuovamente le Sezioni Unite con la decisione n. 11170 del 25 settembre 2014 (depositata il 15 marzo 2015), che peraltro ha affrontato specificatamente il problema dei rapporti fra provvedimenti di sequestro e confisca previsti dal d.lgs.231/2001 e interessi della procedura fallimentare.

Nella sua ricostruzione, assai opportunamente, la Cassazione evidenzia come nel disegno del decreto legislativo 231 del 2001 la confisca del prezzo o del profitto del reato prevista dall'art. 19, commi 1 e 2, ha natura sanzionatoria e quindi ne è obbligatoria la sua adozione una volta che il giudice penale abbia accertato la responsabilità dell'ente per l'illecito contestatogli; sulla scorta di tale affermazione, peraltro, è possibile ritenere che anche l'adozione del sequestro preventivo in via cautelare sia decisione sostanzialmente vincolata per il giudice una volta che ne abbia accertato l'esistenza dei presupposti ed infatti, posto che fra sequestro preventivo e confisca ex d.lgs. 231 del 2001 corre uno stretto rapporto di connessione funzionale – nel senso che l'adozione del primo è diretto a consentire la successiva effettiva confisca dei beni – deve ritenersi che nel caso in esame il sequestro abbia lo stesso regime di obbligatorietà della confisca.

Dalla natura obbligatoria della confisca prevista dal decreto del 2001, tuttavia, la Cassazione non fa derivare la circostanza che essa possa essere adottata dal giudice senza alcuna considerazione per gli interessi di terzi e in particolare della procedura fallimentare. Ad una tale conclusione, infatti, secondo il giudice di legittimità si oppone la stessa lettera dell'art. 19, laddove precisa che – nell'adozione del provvedimento di confisca o del previo sequestro – il giudice deve far salvi, ovvero deve considerare la rilevanza e la sussistenza, i diritti acquisiti dai terzi in buona fede.

Ciò posto, riconosciuto cioè 1) che la confisca, nel sistema della responsabilità da reato degli collettivi è una sanzione, in quanto tale da comminare obbligatoriamente – e tale obbligatorietà si riverbera anche in relazione all'eventuale sequestro preventivo applicato in via cautelare; 2) che nell'adozione dei suddetti provvedimenti di confisca e sequestro è necessario far salvi i diritti reali acquisiti da terzi in buona fede sui beni originariamente rientranti nel patrimonio della persona giuridica, compete al giudice penale che decide del procedimento ex d.lgs. 231 del 2001 verso la società contemperare i diversi interessi – quelli connessi alla procedura punitiva di cui al citato decreto e quelli facenti capo ai terzi estranei. In particolare, sarà il giudice penale a dover valutare se eventuali diritti vantati da terzi siano o meno stati acquisiti in buona fede e in caso di esito positivo di tale verifica il bene, la cui titolarità sia vantata da un terzo, non potrà essere sottoposto né a sequestro né a confisca.

Dunque, in termini assolutamente generali, secondo la Cassazione, quando l'ente sia dichiarato responsabile di un illecito ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 la sanzione della confisca – ed eventualmente il sequestro cautelare – non potrà comunque avere ad oggetto beni in precedenza rientranti nel patrimonio dello stesso ma sui quali nel frattempo terzi estranei all'illecito abbiano acquisito in buona fede un diritto reale ma questa conclusione incontra tuttavia alcune eccezioni o comunque alcuni “adattamenti”.

In primo luogo è possibile che la posizione del terzo estraneo – o meglio l'esistenza dei diritti di questi – non sia emersa in precedenza, ovvero nel corso del procedimento nei confronti della società – ad esempio perché il terzo non era al corrente del procedimento in corso in danno dell'ente. In tale circostanza, ovviamente, il giudice della cognizione non avrà considerato la posizione del terzo ed allora la tutela del suo diritto potrà essere richiesta dallo stesso, a mezzo di apposita istanza al giudice dell'esecuzione penale.

La competenza – a tutelare la posizione dei terzi in buona fede – del giudice dell'esecuzione sussiste, a parere della Cassazione, anche nel caso in cui nel corso del procedimento teso ad accertare la responsabilità dell'ente, quest'ultimo venga dichiarato fallito o ammesso ad altra procedura concorsuale. In tale circostanza, sui medesimi beni, facenti parti del patrimonio dell'azienda condannata – o sotto processo – ex d.lgs. 231 del 2001 viene a gravare un duplice vincolo, derivante dai provvedimenti di cui al citato decreto 231 e dall'apertura della procedura concorsuale. Tale situazione però non è nient'affatto inusuale ed anzi è da ritenersi necessaria l'apposizione di tale duplice limitazione alla circolazione dei beni in quanto le finalità dei due vincoli sono del tutto differenti e tra loro non confliggenti: il sequestro dei beni ex art. 19 d.lgs. 231 del 2001 mira a preservare i beni che si presume siano stati acquisiti illecitamente dall'ente e che possano, in caso di riconosciuta responsabilità dello stesso, essere oggetto di confisca, da sparizioni ed occultamenti; il vincolo apposto sui beni del fallito a seguito della apertura di una procedura concorsuale invece ha una indubbia rilevanza pubblica, perché mira a spossessare la società fallita dei beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del ceto creditorio, ad evitare ulteriori depauperamenti del patrimonio stesso ed a garantire la par condicio creditorum e trattandosi di finalità di indubbio rilievo pubblicistico anche il vincolo apposto sui beni del fallito in occasione dell'apertura di una procedura concorsuale è indispensabile e non può essere eluso.

È evidente che tale situazione – ovvero la destinazione dei beni aziendali a soddisfacimento di interessi diversi e contrastati, vantati rispettivamente dallo Stato e dalla curatela – non può però protrarsi indefinitamente ma il momento e le modalità di risoluzione del contrasto dipenderanno però dal momento in cui emerge con chiarezza se sul patrimonio dell'ente collettivo gravino o meno diritti di terzi in buona fede. Infatti, quanti si insinuano nel fallimento vantando un diritto di credito nei confronti dell'impresa decotta non possono essere ritenuti per tale solo fatto titolari di un diritto reale sul bene, perché sarà proprio con la procedura fallimentare che, sulla scorta delle scritture contabili e degli altri elementi conoscitivi propri della procedura, si stabilirà se il credito vantato possa o meno essere ammesso al passivo fallimentare: il curatore individua i beni che debbono formare la massa attiva del fallimento e soltanto alla fine della procedura si potrà procedere alla assegnazione dei beni ai creditori ed è soltanto in questo momento che i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate.

Se la procedura di assegnazione termina prima che venga definita la sorte del processo nei confronti dell'ente collettivo, allora sarà il giudice penale competente per la definizione di tale giudizio che, al momento di procedere a confisca di beni – o quando interpellato in ordine al mantenimento del sequestro preventivo –, dovrà verificare se sui beni medesimi terzi in buona fede vantino – come riconosciuti in sede di chiusura del fallimento e di approvazione del piano di riparto - diritti reali che ne impongano loro la restituzione dei beni medesimi. Se invece il fallimento si chiude dopo la definizione del giudizio ex d.lgs. 231, i terzi in buona fede che in sede di procedura concorsuale abbiano viste riconosciute come fondate le proprie pretese potranno agire in sede di esecuzione e sarà il giudice dell'esecuzione ad operare quel contemperamento fra le diverse esigenze ed interessi – dello Stato e dei privati creditori – che l'art. 19, comma 1, d.lgs. 231 del 2001 impone.

Va ricordato, infatti, che l'art. 19 citato, nel disporre che in caso di confisca debbano essere salvaguardati i diritti dei terzi acquisiti in buona fede, non pone alcun limite temporale alla prova della acquisizione del diritto, nel senso la titolarità del diritto del terzo non deve certo essere riconosciuta prima che venga disposta la confisca ai sensi del decreto 231, potendo benissimo accadere che al terzo venga riconosciuta l'acquisizione in buona fede del diritto dopo che sia stata disposta la confisca ed anche in siffatta situazione deve essere salvaguardato l'altrui diritto.

Guida all'approfondimento

D'ARCANGELO, La responsabilità da reato delle società unipersonali nel d.lgs. 231/2001, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2008, 3, 145;

STORTONI – TASSINARI, La responsabilità degli enti: quale natura? Quali soggetti? in Ind. Pen., 2006, 22;

ZANNOTTI, Il nuovo diritto penale dell'economia. Reati societari e reati in materia di mercato finanziario, Milano, 2008, 61;

Sulla impossibilità di assimilare il fallimento della società alla morte del reo:

BERSANI, Modelli Organizzativi 231/2001 e procedure fallimentari, in Riv. Resp. Amm. Enti, 3-2007, 67;

BERSANI, Responsabilità degli enti e concordato preventivo, in Riv. Resp. Amm. Enti i, 1-2011, 135;

BERSANI, Responsabilità della persona giuridica e "sopravvivenza" delle sanzioni alla dichiarazione di fallimento, Riv. Resp. Amm. Enti, 3-2013, 179;

CHIAMETTI, Sanzioni 231 anche per le società fallite, in Riv. Resp. Amm. Enti, 1-2013, 191;

DI GERONIMO, Rapporti tra fallimento della società ed accertamento degli illeciti amministrativi dalla medesima commessi: profili problematici in tema di misure cautelari, trasmissibilità delle sanzioni e legittimazione processuale del curatore nel procedimento a carico della società, in Riv. Resp. Amm. Enti, 1-2011, 147;

GUERINI, Il fallimento delle società non determina l'estinzione della sanzione a carico dell'ente, in Dir. Pen. Proc., 2013, 940;

PAOLONI, Il fallimento della società non determina l'estinzione dell'illecito previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001, in Cass. Pen., 2013, 2781;

PISTORELLI, Responsabilità da reato degli enti, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2012, 887;

ROSSI, Fallimento, "morte" della società ed estinzione della responsabilità da reato, in Giur. Comm., 2014, 2, 236);

SALVATORE, Il fallimento della società non determina l'estinzione dell'illecito amministrativo da reato (commento a Cass. Pen., sez. V, 15 novembre 2012, n. 44824), in Riv. Resp. Amm. Enti, 2-2013, 255;

ZANALDA, Fallimento della società ed estinzione delle sanzioni amministrative, in Giur. It., 2013, 1650.

Sui rapporti fra l'applicazione delle sanzioni pecuniarie previste dal d.lgs. 231 e la tutela dei creditori che hanno diritto di soddisfarsi sulla massa fallimentare:

BIANCHI, Automatismi nel meccanismo sequestro-confisca ex D.Lgs. n.231 e ricadute problematiche sulla procedura fallimentare, in Giur. It., 2015, 1995; BONTEMPELLI, Sequestro preventivo a carico della società fallita, tutela dei creditori di buona fede e prerogative del curatore, in Arch. Pen., 2015, 304;

COMPAGNA, Obbligatorietà della confisca di valore e profili di discrezionalità nell'eventuale sequestro: il necessario contemperamento degli interessi costituzionali in gioco e l'ipotesi di fallimento, in Cass. Pen. 2009, 3034;

ROMANO, Confisca e tutela dei terzi: tra buona fede e colpevole affidamento, in Cass. Pen., 2016, 2894.

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