La valutazione delle dichiarazioni della persona offesa portatrice di un'“interesse inquinante”

06 Dicembre 2017

Le dichiarazioni della persona offesa sono di per sé sole sufficienti, senza necessità di riscontri estrinseci, a fondare un determinato capo di imputazione quando vi è un interesse economico della vittima che aleggia sulla vicenda? L'indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità ritiene che l'articolo 192, comma 3, c.p.p. ...
Massima

La deposizione della persona offesa è astrattamente idonea a fondare di per sé sola, senza cioè dover essere assistita da elementi esterni di riscontro, la prova del fatto rappresentato. Tuttavia, la mancata previsione da parte del Legislatore di alcuna deroga della capacità a testimoniare della stessa non rende implicito che ella non possa essere considerata portatrice di per sé di un interesse inquinante. Tale assunto sarebbe una presunzione iuris tantum che impone un maggiore rigore nell'indagine della sua credibilità oggettiva e soggettiva per verificare la concreta terzietà della stessa proprio quando entrano in gioco interessi astrattamente confliggenti con quelli dell'imputato.

Il caso

L'imputato ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza con la quale la Corte di appello di Lecce, a parziale riforma della pronuncia resa in primo grado, ha confermato la sua responsabilità penale per il reato di cui all'art. 609-bis c.p. nell'ipotesi della minore gravità di cui al comma 3 per aver abusato della sua ex compagna nel corso di una colluttazione tra i due, costringendola a subire atti sessuali consistiti in toccamenti delle parti intime e tentativi di baci sulla bocca dopo averla immobilizzata a un muro.

Con un unico pluriarticolato motivo di impugnazione, il difensore ha contestato il vizio della violazione di legge riferito agli artt. 609-bis c.p., 546 e 533 c.p.p. e il vizio motivazionale.

In particolare, si è contestata:

  • l'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa in ordine alla violenza sessuale subita;
  • la scarsa considerazione, nel merito, del debito che il fratello della vittima aveva con l'imputato, comprovato dall'emissione del decreto ingiuntivo nei confronti del cattivo pagatore;
  • la circostanza, fondamentale, che soltanto successivamente alla richiesta di pagamento degli onorari professionali da parte dell'imputato nei confronti del cognato, la persona offesa abbia formalizzato la querela per violenza sessuale e stalking, in riferimento ad un episodio accaduto sei mesi prima e mai denunciato in precedenza;
  • la scarsa valenza delle prove precostituite dalla vittima ai soli fini processuali tra cui dei certificati medici ottenuti “per amicizia”;
  • la mancata considerazione del movente per il quale la donna si fosse costituita parte civile, ossia creare un credito da compensare con il debito del fratello.

La Corte di cassazione ha accolto il ricorso.

E invero, sostenendo che la sentenza di secondo grado presentasse un'evidente ombrosità argomentativa in ordine alla violenza sessuale ascritta all'imputato si è ritenuto che i giudici salentini non avrebbero approfondito il legame strumentale tra la querela da cui è scaturito il procedimento penale ed il rapporto di credito vantato dall'imputato nei confronti del fratello della vittima.

L'opposizione al decreto ingiuntivo proposta dal debitore, di per sé non è sufficiente a escludere la fondatezza della pretesa creditoria poiché i giudici pugliesi non hanno svolto alcun accertamento sugli esiti della contestazione.

In altre parole la terza Sezione penale della Corte di cassazione ha annullato la sentenza con rinvio per l'indagine poco approfondita sugli elementi di fatto e per un'approssimativa elaborazione del giudizio di colpevolezza in assenza di un'attenta valutazione dell'interesse economico da cui avrebbe potuta essere, in teoria, animata la vittima nello sporgere querela per un episodio verificatosi ben sei mesi prima.

In aggiunta a ciò l'ulteriore elemento su cui è stato fondato il giudizio di colpevolezza, ossia il referto medico, è stato valutato erroneamente dal punto di vista probatorio, secondo i giudici di legittimità. Tale documento attestante lo stato di agitazione psico-motoria della vittima unitamente alle tumefazioni multiple è un indizio sicuro in fatto ma equivoco nell'interpretazione e, pertanto, non può confermare l'evento, il quale rappresenta invece il tema probatorio: non è possibile trasformare l'oggetto da provare in criterio di inferenza.

La questione

La questione involge la valutazione dell'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa ai fini della corretta qualificazione del capo di imputazione, quando costei nutre un qualsiasi tipo di interesse economico, anche non personale ma di uno stretto congiunto, nei confronti dell'imputato.

Pertanto il quesito è il seguente: le dichiarazioni della persona offesa sono di per sé sole sufficienti, senza necessità di riscontri estrinseci, a fondare un determinato capo di imputazione quando vi è un interesse economico della vittima che aleggia sulla vicenda?

Le soluzioni giuridiche

L'indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità ritiene che l'articolo 192, comma 3, c.p.p. non si applichi alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità previa verifica però, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto. In tal caso questa indagine deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone; inoltre nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Cass. pen., Sez. unite, 19 luglio 2012, n. 41461; Cass. pen., Sez. II, 24 settembre 2015, n. 43278).

Le Sezioni unite hanno affermato che può essere opportuna tale verifica qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile, perché in tal caso è portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell'imputato.

La Corte di cassazione, nella sentenza in analisi, sfata l'autonomia piena ed incontestata delle dichiarazioni della persona offesa, quale unico “perno” del giudizio di colpevolezza dell'imputato, dovendosi prendere in considerazione l'ipotesi che costei possa essere portatrice di un interesse inquinante che infici la veridicità del suo racconto. Il Supremo Consesso definisce questo assunto quale presunzione iuris tantum, cioè relativa che impone un maggiore rigore nell'indagine sulla versione del dichiarante offeso, potendo la controparte interessata, inoltre, provare il contrario di quanto si presume.

In tema di reati sessuali, in particolare, la deposizione della persona offesa può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza dell'imputato, qualora però venga sottoposta a un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa.

Difatti, in tali contesti processuali, spesso l'accertamento dei fatti dipende dalla valutazione del contrasto tra le opposte versioni di imputato e persona offesa, soli protagonisti dei fatti. Accade infatti non di rado che manchino riscontri oggettivi ovvero altri elementi idonei ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi.

In più occasioni la giurisprudenza di legittimità ha insistito sulla necessità di una valutazione globale del racconto dell'offeso, fondata sull'insieme delle dichiarazioni, delle circostanze del caso concreto e degli elementi acquisiti al processo.

Cardine, sul tema, è quanto sostenuto dalla Corte costituzionale con sentenza del 25 febbraio 2014, n. 32: «è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disciplina dell'ammonimento orale del questore, posta dall'art. 3, d.l. n. 93 del 2013, la quale muova dall'erroneo presupposto che determinati provvedimenti nei confronti del solo indagato, possano essere adottati anche sulla base della sola querela o di una semplice segnalazione della persona offesa, in assenza di adeguati accertamenti e riscontri in ordine all'attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona vittima della violenza». Tale affermazione supporta la tesi della necessità di valutazioni approfondite e di un giudizio globale dei diversi elementi emersi nel corso dell'attività di indagine e processuale al fine di testare l'aderenza alla realtà del racconto della persona offesa.

Osservazioni

Il ragionamento posto in essere dalla Cassazione attiene alla veridicità delle dichiarazioni della persona offesa e l'utilizzabilità delle stesse per l'attribuzione all'imputato di determinate fattispecie di reato. Si tratta di una messa in discussione del valore probatorio assoluto delle stesse, considerate la “prova regina” per la costruzione della responsabilità dell'imputato. Il Supremo Consesso ha invitato, nella sentenza in esame e in altre che seguono tale orientamento, a non riporre fiducia “cieca” nei racconti della persona offesa, potendo il suo animus essere “inquinato” da interessi personali e non, che la spingono a deporre una verità non aderente alla realtà. Il sol fatto che il nostro Legislatore non abbia predisposto una deroga alla capacità a testimoniare della persona offesa non implica un riconoscimento automatico della stessa quale depositaria di verità assolute.

Nel sistema processuale penale attuale, ispirato al principio del libero convincimento del giudice, la sentenza di condanna può essere basata sulle dichiarazioni della persona offesa, ancorché costituita parte civile, la cui testimonianza sia stata ritenuta intrinsecamente attendibile.

In tal caso essa assurge a dignità di prova a tutti gli effetti, potendo anche da sola essere posta a base dell'affermazione della colpevolezza perché si riconosce alla stesse dichiarazioni un valore probatorio in nulla differente da quello attribuito alla persona estranea agli interessi dedotti in giudizio. Tuttavia questa linea di pensiero non può essere assolutizzata, il che significa che la versione dell'offeso andrebbe sottoposta ad un vaglio critico e approfondito caso per caso.

La Corte di legittimità, peraltro, anche quando prende in considerazione la possibilità di valutare l'attendibilità estrinseca della testimonianza dell'offeso attraverso la individuazione di precisi riscontri, si esprime in termini di "opportunità" e non di "necessità", lasciando al giudice di merito un ampio margine di apprezzamento circa le modalità di controllo nel caso concreto. Come già sottolineato, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell'imputato" (nello stesso senso Cass. pen., Sez. I, 24 giugno 2010, n. 29372; Cass. pen., Sez. VI, 3 giugno 2004, n. 33162).

Ciò posto, e concludendo, è principio incontroverso che la valutazione dell'attendibilità della persona offesa dal reato rappresenti una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (ex plurimis Cass. pen., Sez. VI, n. 27322/2008; Cass. pen., Sez. III, n. 838/2008; Cass. pen., Sez. VI, n. 443/2004; Cass. pen., Sez. III, n. 3348/2003; Cass. pen., Sez. III, n. 22848/2003).

Per tali ragioni la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata con rinvio ai giudici di appello che dovranno, attenendosi ai sovraesposti rilievi, procedere a nuovo giudizio.

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