Il convivente more uxorio ha la detenzione qualificata del bene, che cessa con il venir meno della convivenza

13 Dicembre 2017

Previa individuazione della situazione giuridica che si rinviene per effetto dell'instaurazione della relazione di fatto tra il convivente more uxorio e l'immobile, una recente sentenza della Cassazione ha analizzato le conseguenze che si determinano su tale situazione...
Massima

La convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge il programma di vita in comune, un potere di fatto del convivente tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, avente titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, ma non incide, salvo diversa disposizione di legge, sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sull'immobile, sicché tale detenzione del convivente non proprietario, né possessore, è esercitabile ed opponibile ai terzi fin quando perduri la convivenza, mentre, una volta venuta meno la stessa, in conseguenza del decesso del convivente proprietario-possessore, si estingue anche il relativo diritto; ne deriva che, in assenza di una istituzione testamentaria, ovvero della costituzione di un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario, non può ritenersi legittima la protrazione della relazione di fatto tra il bene ed il convivente superstite (già detentore qualificato), restando a carico del soggetto che legittimamente intende rientrare nel possesso del bene, il dovere di concedere a quest'ultimo un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa, in virtù dei principi di buona fede e correttezza.

Il caso

All'esito del decesso del proprietario di un'unità abitativa, il coniuge separato e la di lui figlia agivano, nella qualità di successori legittimi, contro la convivente more uxorio del de cuius, chiedendo che la convenuta fosse condannata al rilascio dell'immobile, in quanto detenuto sine titulo, nonché al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio.

Il Tribunale adito accoglieva la domanda e, per l'effetto, condannava la convivente more uxorio al rilascio del bene immobile in favore degli eredi legittimi del de cuius.

La parte soccombente interponeva appello avverso tale pronuncia. La Corte d'appello respingeva il gravame proposto e confermava la decisione di prime cure, ritenendo, nell'ordine:

a) che il prolungato rapporto di convivenza more uxorio non attribuiva alla convivente alcun titolo idoneo a possedere o detenere l'immobile;

b) che non spettava neanche il diritto di abitazione ex artt. 540, comma 2, e 1022 c.c., riservato al coniuge;

c); che l'accordo transattivo stipulato inter partes e recepito in un verbale di udienza, a definizione del giudizio per reintegrazione nel possesso promosso dalle proprietarie, concerneva esclusivamente il riconoscimento del compossesso di queste ultime e l'assunzione da parte della convivente degli oneri economici per il mantenimento in buono stato dell'immobile, senza attribuire a quest'ultima alcun titolo legittimo di detenzione. Inoltre, era confermato il rigetto delle domande riconvenzionali spiegate, in quanto il legittimo esercizio in giudizio dei diritti spettanti alle proprietarie escludeva una loro responsabilità da illecito per danni alla salute lamentati dalla convivente, mentre difettavano i presupposti dell'azione ex art. 2041 c.c., in quanto le cure prestate dalla convivente al de cuius, fino al decesso, integravano adempimento di obblighi morali nascenti dal rapporto di convivenza, risultando peraltro che quest'ultimo avesse provveduto con proprie risorse finanziare al pagamento delle spese mediche e di assistenza.

Avverso la pronuncia emessa in sede di gravame, la convivente more uxorio ricorreva in Cassazione.

La questione

Le questioni in esame sono le seguenti: la convivenza more uxorio attribuisce al convivente la detenzione qualificata sull'immobile, in cui si attua il programma di vita in comune, oppure la detenzione non è autonoma, ossia è priva di rilevanza giuridica? Ed ancora, sul presupposto che la detenzione sia qualificata, il convivente more uxorio può rivendicare tale posizione anche dopo la cessazione della relazione di convivenza? Quali strumenti di tutela sono all'uopo apprestati?

Le soluzioni giuridiche

Con il secondo motivo di ricorso, l'istante ha sostenuto che l'evoluzione del sistema sociale e la preminenza assunta nell'ordinamento dalle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost. avrebbero indotto la giurisprudenza costituzionale e di legittimità a qualificare come interesse meritevole di tutela l'affectio derivante dal rapporto di convivenza more uxorio, ove caratterizzato da apprezzabile stabilità, riconoscendo al convivente non titolare di diritti reali o relativi sull'immobile, destinato ad abitazione della coppia, la titolarità di una relazione con il bene ricondotta alla detenzione autonoma, tale da legittimare il godimento del bene anche dopo il decesso del convivente.

La motivazione della sentenza in commento, nel rigettare il ricorso, si impernia su tre profili di rilievo

La convivenza more uxorio conferisce la detenzione qualificata

La pronuncia ha evidenziato che la convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su un interesse proprio del convivente, ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, con la conseguenza che l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta da terzi e finanche dal convivente proprietario, in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo ad esperire la tutela possessoria mediante l'esercizio dell'azione di spoglio (Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214; Cass. civ.,sez. II, 2 gennaio 2014, n. 7). Sicché si tratta di detenzione qualificata tutelabile.

La detenzione qualificata cessa con il venir meno della convivenza

Dopodiché la Suprema Corte ha aggiunto che tale situazione giuridica non muta, tuttavia, il regime legale della detenzione del bene, in quanto riconducibile ad un diritto personale di godimento che viene acquistato dal convivente in dipendenza del titolo giuridico, individuato dall'ordinamento nella comunanza di vita attuata anche mediante la coabitazione, ossia attraverso la destinazione dell'immobile all'uso abitativo dei conviventi, sicché, in tanto la detenzione qualificata del convivente non proprietario né possessore è esercitabile ed opponibile ai terzi, in quanto permanga il titolo da cui deriva, cioè in quanto perduri la convivenza more uxorio.

Ne segue che, una volta venuto meno il titolo, per cessazione della convivenza, dovuta a libera scelta delle parti, ovvero in conseguenza del decesso del convivente proprietario-possessore, si estingue anche il diritto avente ad oggetto la detenzione qualificata sull'immobile, sicché la protrazione della relazione di fatto tra il bene ed il convivente (già detentore qualificato) superstite, potrà ritenersi legittima soltanto in base:

a) alla eventuale istituzione del convivente superstite come coerede o legatario dell'immobile, in virtù di disposizione testamentaria;

b) alla costituzione di un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario.

In base alla clausola di buona fede spetta al convivente un termine congruo per lasciare il bene

Ad avviso della Corte, la rilevanza sociale e giuridica che riveste la convivenza di fatto non incide, salvo espressa disposizione di legge (come nel caso dell'art. 6, comma 3, della l. 27 luglio 1978, n. 392, secondo l'interpretazione additiva della Corte Costituzionale 7 aprile 1988, n. 404), sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sul bene immobile, non trovando alla fattispecie applicazione, ratione temporis, la norma dell'art. 1, comma 42,della l. 20 maggio 2016, n. 76, che conferisce al convivente superstite un diritto di abitazione temporaneo (non oltre i cinque anni), modulato diversamente in relazione alla durata della convivenza ed alla presenza di figli minori o disabili, ma riverbera piuttosto sul piano del canone di buona fede e di correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, che impone al soggetto che legittimamente intende rientrare, in base al suo diritto, nella esclusiva disponibilità del bene, di concedere all'ex convivente un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa. Né appare configurabile una lesione del principio di pari trattamento di situazioni identiche nella omessa estensione anche al convivente more uxorio del diritto di abitazione e di uso previsto dall'art. 540 c.c., poiché il Giudice delle leggi ha dichiarato l'infondatezza della questione sul punto sollevata, in considerazione del differente presupposto della successione mortis causa, cui si ricollega l'applicazione di tale norma, ossia la riconduzione del diritto di abitazione, non già all'esigenza di soddisfare il bisogno dell'alloggio, bensì all'esigenza di realizzare altri interessi di natura non patrimoniale, riconoscibili solo in connessione con la qualità di erede del coniuge, quali la conservazione della memoria del coniuge scomparso, il mantenimento del tenore di vita, delle relazioni sociali e degli status symbols goduti durante il matrimonio (CorteCost. 26 maggio 1989, n. 310).

Osservazioni

Il Supremo Collegio, aderendo all'indirizzo che si era consolidato già prima della pronuncia in commento, per un verso, riconosce all'instaurazione di una relazione di convivenza more uxorio, connotata da requisiti di stabilità, la qualità di titolo attributivo di una detenzione qualificata, come tale giuridicamente rilevante e suscettibile di tutela, anche nella prospettiva di salvaguardare un diritto inviolabile dell'uomo, diversamente dalla detenzione non autonoma per ragioni di mera ospitalità; per altro verso, delimita la portata di tale riconoscimento, affermando che, in ogni caso, l'esistenza di detta situazione di detenzione qualificata si permea ed è funzionale alla persistenza della convivenza.

Sotto il primo profilo, al convivente spetta un potere di fatto sulla casa ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, potere basato su un interesse suo proprio, ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, avente titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, definito contratto di convivenza (Cass. civ., sez. II, 2 gennaio 2014, n. 7). Ne consegue che l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo all'esperimento della tutela possessoria, mediante l'esercizio dell'azione di spoglio (Cass. civ., sez. II, 21 marzo 2013, n. 7214). Allo stesso modo, in ragione di tale sola convivenza, pur qualificata dalla stabilità della relazione e protetta dall'ordinamento, il convivente more uxorio non è compossessore, ma detentore autonomo dell'immobile stesso, che, dunque, non può usucapire (Cass. civ., sez. II, 14 giugno 2012, n. 9786).

Sotto il secondo profilo, ove la convivenza venga meno, perché il rapporto affettivo si interrompe ovvero perché sopravviene il decesso del proprietario-possessore dell'immobile, cessa anche il rapporto di detenzione qualificata con il bene. E ciò perché la detenzione autonoma era causalmente collegata alla ricorrenza della convivenza, da cui trovava la propria genesi, con l'effetto che il venir meno della causa determina l'estinzione anche dell'effetto: fondandosi la detenzione qualificata su un titolo, la rimozione di quest'ultimo importa la conclusione della detenzione.

Una volta che la convivenza abbia fine, per qualsiasi ragione, la continuazione della detenzione qualificata, in favore del convivente more uxorio, postula la creazione di un nuovo titolo:

a) l'istituzione di erede o legatario, in ragione di una disposizione testamentaria;

b) il conferimento della detenzione a cura degli eredi del proprietario. In mancanza di tali nuovi titoli, gli eredi del proprietario-possessore possono pretendere il rilascio del bene verso il convivente more uxorio. E ciò perché il negozio di tipo familiare che legittima la detenzione qualificata non può essere assimilato ad un contratto di locazione, alla cui sola integrazione consegue la continuazione della detenzione in favore del convivente successore.

D'altronde, alla fattispecie esaminata non si applicava l'art. 1, comma 42, della l. 20 maggio 2016, n. 76, che conferisce al convivente superstite un diritto di abitazione temporaneo (non oltre i cinque anni), modulato diversamente in relazione alla durata della convivenza ed alla presenza di figli minori o disabili. Né il diritto di abitazione spettante al coniuge superstite, di cui all'art. 540, comma 2, c.c., può estendersi al convivente more uxorio. Infatti, la situazione giuridica del convivente superstite non è equiparabile a quella del coniuge, in quanto, da un lato, la vocazione degli eredi legittimi presuppone l'esistenza di un rapporto giuridico certo e incontestabile (quale è il rapporto di coniugio) e, dall'altro, il riconoscimento del convivente quale erede legittimo contrasterebbe con la natura stessa del rapporto di convivenza, che è un rapporto di fatto per definizione.

È esclusa altresì la violazione dell'art. 2 Cost., perché l'inclusione della famiglia di fatto tra le formazioni sociali ove si svolge la personalità dell'uomo non ha alcuna ripercussione a livello successorio, non essendo i diritti successori compresi tra i diritti inviolabili della persona. Inoltre, le ragioni giustificatrici di tale norma non sono ricollegabili a meri aspetti di indigenza abitativa, bensì all'esigenza di soddisfare interessi di natura non patrimoniale, riconoscibili solo in connessione con la qualità di erede del coniuge. Naturalmente, quando la convivenza di fatto cessi per causa diversa dalla morte del proprietario del bene, la detenzione può protrarsi, in presenza di prole, per effetto dell'assegnazione della casa familiare disposta ai sensi dell'art. 337-sexies c.c.

Nondimeno, sul “quando” dell'attuazione di tale rilascio occorre tenere conto della posizione di debolezza del convivente e proteggere il suo affidamento. A questo punto, interviene l'applicazione del canone di buona fede oggettiva o correttezza, che impone ai proprietari successori di subordinare il recupero del bene alla concessione, in favore dell'ex convivente, un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa.

Se, da un lato, il convivente non può pretendere di rimanere nella disponibilità dell'immobile in conseguenza della cessazione della relazione di convivenza, a cui consegue l'interruzione della detenzione qualificata, dall'altro, deve essere consentito al convivente che abbia fatto affidamento su di essa di rinvenire un alloggio idoneo, prima di lasciare l'immobile in cui la convivenza ha trovato attuazione. Decorso un termine ritenuto congruo, senza che l'ex convivente si sia attivato per rintracciare altro alloggio, il rilascio è esigibile. La ponderazione della congruità del termine è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice adito per il rilascio, sulla base delle circostanze del caso concreto. In tale contesto, anche il convivente potrà fornire elementi volti a dimostrare di essersi tempestivamente attivato allo scopo ovvero di avere avviato trattative per lo spostamento in un nuovo alloggio.

Guida all'approfondimento

Madonia, Diritto abitativo e convivenza more uxorio, in Diritto famiglia e persone, 2015, fasc. 4, 1531;

Monegat, Il convivente di fatto è legittimato alla tutela possessoria, in Immob. & proprietà, 2014, fasc. 2, 121;

Senigaglia, Convivenza more uxorio e contratto, in Nuova giur. civ. comm., 2015, fasc. 11, 671;

Rizzi, La convivenza di fatto ed il contratto di convivenza, in Notariato, 2017, fasc. 1, 11.

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