Intercettazioni per mezzo di captatore informatico: il tribunale può riqualificare il fatto esposto nel decreto del Gip

15 Dicembre 2017

Se il Gip, pur autorizzando dette intercettazioni, non ha ravvisato gli estremi di un illecito che rientra in tale categoria, è ammissibile la riqualificazione giuridica dei fatti da parte del tribunale del riesame ai fini dell'utilizzabilità del materiale probatorio raccolto?
Massima

Ai fini dell'utilizzabilità delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti compiute mediante l'installazione di un “captatore informatico”, che sono permesse nei soli procedimenti di criminalità organizzata, è ammissibile, da parte del tribunale del riesame, la riqualificazione come reato appartenente a tale categoria del fatto esposto nel provvedimento del Gip, essendo sufficiente che tale fatto, sebbene ricondotto dal giudice ad altre figure di reato, possa essere qualificato come delitto di criminalità organizzata.

Il caso

Il tribunale del riesame confermava la misura della custodia cautelare in carcere disposta dal Gip nei confronti degli indagati per i reati di associazione per delinquere, corruzione e turbata libertà degli incanti nell'ambito di un'inchiesta che riguardava alcune gare d'appalto bandite dall'amministrazione della Marina Militare.

Il difensore proponeva ricorso per cassazione, deducendo, tra l'altro, che erano state eseguite intercettazioni ambientali mediante l'uso del c.d. agente intrusore o captatore informatico in contrasto con le indicazioni della sentenza delle Sezioni unite 28 aprile 2017, n. 26889, Scurato. In particolare, i fatti oggetto delle indagini, sia nella richiesta del pubblico ministero di autorizzazione allo svolgimento delle intercettazioni, che nel provvedimento successivamente emesso dal Gip, non erano stati ricondotti a un reato associativo e, dunque, a un delitto di criminalità organizzata ex art. 13 d.l. 152 del 1991, laddove invece, secondo la sentenza citata, solo per tale genere di illeciti è utilizzabile il moderno strumento tecnologico per il compimento di intercettazioni tra presenti. Addirittura, l'iscrizione degli indagati per il reato di cui all'art. 416 c.p. era avvenuta in epoca successiva alla realizzazione delle intercettazioni. L'eccezione di inutilizzabilità dei risultati delle captazioni era stata proposta al tribunale del riesame che, tuttavia, l'aveva rigettata, riqualificando i fatti illustrati nel decreto autorizzativo e ritenendo che essi integrassero elementi indiziari sufficienti a prospettare la sussistenza di un delitto di criminalità organizzata, così da giustificare l'impiego del mezzo tecnologico utilizzato per le captazioni.

La questione

Secondo la sentenza delle Sezioni unite Scurato, l'impiego del “captatore informatico” nel corso delle indagini per realizzare intercettazioni tra presenti è permesso nei soli procedimenti di criminalità organizzata. Se il Gip, pur autorizzando dette intercettazioni, non ha ravvisato gli estremi di un illecito che rientra in tale categoria, è ammissibile la riqualificazione giuridica dei fatti da parte del tribunale del riesame ai fini dell'utilizzabilità del materiale probatorio raccolto? A tal proposito, assume un rilievo la circostanza che l'iscrizione degli indagati nel registro delle notizie di reato per il reato associativo sia avvenuta dopo l'adozione del decreto di autorizzazione all'utilizzo di questo strumento di indagine?

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha rigettato il ricorso, reputando infondato, in particolare, il motivo relativo all'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni.

Con la sentenza del 28 aprile 2016, n. 26889, Scurato, come è noto, le Sezioni unite della Corte di cassazione, in considerazione della natura “itinerante” dei dispositivi adoperati come moderne microspie (smatphone, tablet) e del fatto che accompagnano le persone anche nelle abitazioni, ha affermato che il captatore informatico è utilizzabile per effettuare intercettazioni “tra presenti” nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata. In questi casi, infatti, trova applicazione la disciplina di cui all'art. 13 del decreto legge 151 del 1991, convertito dalla legge 203 del 1991 che, derogando ai presupposti fissati dall'art. 266, comma secondo, cod. proc. pen., permette l'intercettazione di dialoghi anche nei luoghi di privata dimora, senza che sia necessario che tali luoghi siano sedi di attività criminosa in atto. Al contrario, l'utilizzo di questo mezzo è stato escluso per i reati comuni perché, non essendo possibile prevedere i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo elettronico potrebbe essere introdotto, nel momento dell'autorizzazione non sarebbe possibile verificare il rispetto della condizione di legittimità richiesta dall'art. 266, comma 2, c.p.p.

Nel caso di specie, il decreto del Gip che aveva autorizzato l'impiego del captatore per eseguire intercettazioni tra presenti non si fondava su un reato riconducibile alla categoria dei delitti di criminalità organizzata. Il tribunale del riesame, dinanzi all'eccezione di inutilizzabilità delle captazioni formulata dalla difesa, ha ritenuto sussistenti i presupposti per l'utilizzo del captatore informatico, osservando che «Dal tenore letterale del primo decreto autorizzativo […] risulta evidente come il P.M. avesse portato all'attenzione del Gip la sussistenza di elementi indiziari sufficienti a prospettare la sussistenza di delitti di criminalità organizzata [...]».

In una simile ipotesi, secondo la decisione in esame, è ammissibile la riqualificazione giuridica dei fatti da parte di un giudice diverso da quello che ha disposto le intercettazioni al fine di affermare la sussistenza dei presupposti che permettono le operazioni captative mediante il c.d. agente intrusore.

A sostegno di questa affermazione sono state richiamate significative indicazioni giurisprudenziali.

Secondo l'indirizzo giurisprudenziale consolidato, ad esempio, il Gip può riqualificare i fatti sottoposti alla sua cognizione ai fini dell'autorizzazione di intercettazioni di comunicazione come concernenti reati di criminalità organizzata a norma dell'art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, anche se la richiesta del pubblico ministero faccia esclusivo riferimento alla disciplina ordinaria di cui agli artt. 266 e 267 c.p.p. (cfr. Cass. pen., 21 luglio 2015, n. 34809; Cass. pen.,22 novembre 2007, n. 47109).

È stato più volte precisato, inoltre, che non determina l'illegittimità del decreto autorizzativo delle operazioni di intercettazione la mancata specificazione della sussistenza di gravi indizi di reato con riferimento al ruolo di partecipe qualificato di cui all'art. 416, comma 1, c.p. (Cass. pen., 20 novembre 2009, n. 685; Cass. pen.,15 febbriao 2000, n. 784).

Soprattutto, è stato ripetutamente affermato che l'omissione, nel decreto autorizzativo di intercettazioni per la durata di giorni quaranta, del riferimento a uno dei reati di cui all'articolo 13 legge 203 del 1991, non rende inutilizzabili le intercettazioni disposte secondo la relativa disciplina, se dal complesso della motivazione si evince che esse avevano ad oggetto attività criminose organizzate (Cass. pen., 11 novembre 2011, n. 3193; Cass. pen.,3 maggio 2007, n. 22511; Cass. pen.,24 novembre 2009, n. 7023).

In particolare, è stato affermato che la mancanza, nei decreti autorizzativi delle intercettazioni, di richiami espliciti all'ipotesi associativa, idonei a giustificare la motivazione in termini di mera

sufficienza degli indizi di reato, non rende inutilizzabili i risultati delle operazioni laddove l'inclusione di un'attività criminosa organizzata nell'oggetto delle indagini sia desumibile dal complesso della motivazione stessa (Cass. pen., 11 novembre 2011, n. 3193).

Questi arresti giurisprudenziali, tutti rivolti a riconoscere la legittimità di una diversa qualificazione del fatto posto a base della richiesta di intercettazioni in un momento successivo a quello dell'autorizzazione, secondo la Corte, si pongono in linea con l'elaborazione delle Sezioni unite che, proprio in materia di motivazione dei provvedimenti autorizzativi di intercettazioni di conversazioni, distingue tra la motivazione mancante o apparente e quella semplicemente difettosa (cfr., specificamente, Cass. pen., Sez. unite, 21 giugno 2000, n. 17; Cass. pen.,Sez. unite, 23 marzo 1998, n. 11). In particolare, la giurisprudenza di legittimità descrive la situazione di “difettosità” di motivazione come quella integrata da fattispecie «di incompletezza o insufficienza o non perfetta adeguatezza, ovvero di sovrabbondanza con ben probabili, in simili eccessi, slabbrature logiche; in una parola, di vizi che non negano e neppure compromettono la giustificazione, ma la rendono non puntuale. In tali casi il vizio va emendato dal giudice cui la doglianza venga prospettata, sia esso il giudice del merito, che deve utilizzare i risultati delle intercettazioni, sia da quello dell'impugnazione nella fase di merito o in quella di legittimità».

Secondo il Collegio, inoltre, la soluzione proposta trova una conferma di natura sistematica nella previsione di cui all'art. 597, comma 3, c.p.p., che permette al giudice dell'impugnazione di merito di procedere ad una riqualificazione del fatto ex officio anche dando una definizione giuridica più grave.

La diversa qualificazione giuridica dei fatti che avevano legittimato le intercettazioni, infine, non si pone in contrasto con il diritto di difesa o con la garanzia del contraddittorio, essendo la decisione di detto tribunale sindacabile in sede di legittimità.

Una volta ritenuto ammissibile la riqualificazione giuridica dei fatti da parte del tribunale in sede di riesame, risulta irrilevante che l'iscrizione nel registro delle notizie di reato della fattispecie associativa – legittimante, secondo le sezioni unite, l'uso del captatore informatico – sia avvenuta dopo l'autorizzazione di questo strumento di indagine: ciò che conta è che i fatti indicati nella richiesta del Pubblico ministero e ritenuti sussistenti nell'autorizzazione del Gip fossero correttamente qualificabili a norma dell'art. 416 c.p., anche se in quel momento sussunti sotto altre figure di reato.

Osservazioni

La sentenza illustrata presenta profili di notevole interesse perché tocca uno dei punti nevralgici della disciplina delle intercettazioni tra presenti per mezzo del captatore informatico.

La sentenza delle Sezioni unite Scurato, invero, ha compiuto un delicato bilanciamento tra i diritti confliggenti, consentendo l'uso del trojan per i soli reati di criminalità organizzata. Al riguardo, è stato prospettato che detto bilanciamento potrebbe risultare insoddisfacente nel caso in cui si permettessero intercettazioni fondate su generiche ipotesi di reati associativi, configurati come una sorta di “illecito contenitore”, senza una specifica individuazione dei delitti scopo dell'associazione ipotizzata. Il reato associativo potrebbe essere impiegato come una sorta di “grimaldello” per svolgere un'attività investigativa altrimenti non legittima.

Una simile prassi finirebbe col ricevere un avallo indiretto dall'indirizzo giurisprudenziale che sterilizza le conseguenze della diversa qualificazione nel corso del procedimento del fatto per il quale il Gip ha disposto la captazione. I risultati delle intercettazioni telefoniche autorizzate per un reato di criminalità organizzata sono utilizzabili anche quando gli elementi emersi nel corso delle successive indagini impongono di qualificare i fatti diversamente, dovendosi escludere, in particolare, la sussistenza di un reato associativo (Cass. pen., n. 21740/2016; Cass. pen., 1972/1997).

La valutazione del reato per il quale si procede, da cui dipende l'applicazione della disciplina ordinaria ovvero quella speciale per la criminalità organizzata, del resto, va compiuta con riguardo all'indagine nel suo complesso e non con riferimento alla responsabilità di ciascun indagato (Cass. pen., n. 28252/2017).

Del rischio di una “strumentalizzazione” del reato associativo sono consapevoli anche le stesse Sezioni unite, le quali, nella sentenza Scurato hanno precisato che, in considerazione della forza intrusiva del mezzo usato, la qualificazione del fatto-reato, ricompreso nella nozione di criminalità organizzata, deve risultare ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari, evidenziati nella motivazione del provvedimento di autorizzazione “in modo rigoroso”.

Al riguardo, è stato evidenziato come la possibilità di utilizzare mezzi particolarmente invasivi per compiere intercettazioni imponga di recuperare la funzione di garanzia del decreto di autorizzazione del Gip e della sua motivazione in particolare. Il Gip non deve vanificare il richiamo al rigore della motivazione proveniente dalla Corte di cassazione, verificando con puntualità i presupposti per l'adozione del provvedimento. L'alternativa potrebbe essere solo la strada più semplice dell'aprioristica resistenza all'impiego del mezzo investigativo in esame.

Il significato garantistico della motivazione dei provvedimenti con cui si autorizzano le captazioni, tuttavia, potrebbe essere svalutato dagli arresti giurisprudenziali che legittimano il ricorso alla motivazione per relationem o, soprattutto, che ricorrono all'espediente esegetico della motivazione insufficiente o difettosa per consentire il salvataggio di apparati motivazionali mancanti o apparenti.

La decisione illustrata ha fatto riferimento anche a questi orientamenti laddove ha giudicato ammissibile la riqualificazione giuridica dei fatti in base ai quali erano state autorizzate le intercettazioni da parte del tribunale in sede di riesame.

Con riferimento al primo tema, è noto che, secondo la Suprema Corte, l'onere di motivazione dei decreti, sia di convalida di quelli emessi in via di urgenza dal P.M., sia di proroga, possa essere assolto anche per relationem, mediante il richiamo al provvedimento del pubblico ministero e alle note di polizia, con implicito giudizio di adesione ad essi (Cass. pen., Sez. unite, n. 17/2000). La motivazione per relationem, che è una necessità per il giudice nella prospettiva dell'adeguato e razionale impiego del suo tempo, tuttavia, rappresenta una mera tecnica di redazione del provvedimento del provvedimento. Il rinvio all'informativa di polizia o alla richiesta del pubblico ministero, infatti, non esime dal necessario vaglio critico del materiale prodotto dal pubblico ministero.

Il profilo dell'integrazione della motivazione insufficiente o “difettosa”, invece, riguarda la possibilità che un altro giudice, diverso da quello che ha autorizzato l'intercettazione, in un momento successivo, possa emendare/integrare il decreto carente.

In questo caso è noto che i principi espressi dalla Suprema Corte, sempre nella sentenza n. 17 del 2000, impongono di distinguere l'intercettazione inutilizzabile perché compiuta in mancanza di motivazione da parte del Gip, da quella meramente irregolare perché sorretta da una motivazione esistente, ma non sufficientemente completa e puntuale. In tale evenienza, la motivazione sarebbe emendabile dal giudice a cui è sottoposta la questione, sia esso il giudice del merito, che deve utilizzare i risultati delle intercettazioni, sia da quello dell'impugnazione nella fase di merito o in quella di legittimità.

La linea di demarcazione tra la motivazione mancante (alla quale è equiparata quella apparente o ripetitiva della formula di legge) e quella semplicemente non puntuale, come è evidente, è molto sottile ma sulla stessa va ancorata la legittimità della tesi dell'emendabilità della motivazione.

Nel caso di specie, come emerge chiaramente dalla decisione, dal tenore letterale del primo decreto autorizzativo risultava evidente che il pubblico ministero avesse portato all'attenzione del Gip la sussistenza di elementi indiziari sufficienti a prospettare la sussistenza di delitti di criminalità organizzata. Ove ciò non emergesse in modo palese, tuttavia, dovrebbe concludersi per l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni perché che la verifica della sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per il provvedimento che autorizza il mezzo di ricerca della prova non deve essere demandata ad un giudice diverso da quello che lo ha autorizzato e non deve intervenire in una fase successiva alla registrazione, quando le garanzie costituzionali sono già state definitivamente compromesse.

La materia, peraltro, sta per essere oggetto di una articolata disciplina normativa.

La legge 103 del 2017, intitolata Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario, infatti, all'art. 1, comma 84, lett. e), ha delegato il Governo, nell'ambito del decreto legislativo per la riforma delle regole in tema di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, all'adozione di una disciplina delle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti mediante immissione di captatori informatici in dispositivi elettronici portatili. Si tratta di una delega molto dettagliata che, al n. 3), prelude all'impiego del captatore informatico secondo margini più ampi rispetto a quelli fissati dalle Sezioni unite. Secondo detta disposizione, infatti, il decreto legislativo dovrà prevedere che l'attivazione del dispositivo sia sempre ammessa nel caso in cui si proceda per i delitti di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. Fuori da tali casi, invece, e dunque per i reati diversi dai predetti, sarà possibile utilizzare l'agente intrusore nei luoghi di cui all'art. 614 c.p. soltanto qualora si stia svolgendo l'attività criminosa.

Non è quindi stata preclusa la possibilità di disciplinare l'impiego del captatore informatico per reati diversi da quelli di criminalità organizzata, ma occorrerà che siano rispettati i requisiti di cui all'art. 266, comma 2, c.p.p.

Tale previsione è strettamente collegata a quella di cui al n. 1) del medesimo articolo della legge delega. È stato previsto, infatti, che il programma informatico dovrà essere attivato “da remoto”. Questo profilo operativo, come si intuisce agevolmente, è determinante per poter garantire il rispetto del presupposto previsto dall'art. 266, comma 2, c.p.p., in quanto potrà limitare l'esecuzione delle registrazioni effettivamente solo ai luoghi in cui è dimostrato che sia in corso un'attività criminale.

L'art. 1, comma 84, lett. e), n. 7, della legge delega 103 del 2017, infine, prevede che i risultati delle intercettazioni compiute per mezzo del captatore informatico potranno essere utilizzati a fini di prova soltanto dei reati oggetto del provvedimento autorizzativo. Essi potranno essere impiegati come prova in procedimenti diversi a condizione che siano indispensabili per l'accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza di reato. La legge delega, pertanto, ha fissato una regola che impedisce l'utilizzo dei risultati delle captazioni per la prova di un diverso reato anche se questo eventualmente rientra tra quelli che avrebbero potuto comunque permettere l'impiego del captatore informatico.

Guida all'approfondimento

BALSAMO A., Le intercettazioni mediante virus informatico tra processo penale italiano e Corte europea, in Cass. pen. 2016, 2274;

CAMON A., Cavalli di troia in Cassazione, in Arch. nuova proc. pen. 2017, 76 e ss;

CONTI C., Intercettazioni e inutilizzabilità: la giurisprudenza aspira al sistema, in Cass. pen. 2011, 3638

CORASANITI, Le intercettazioni "ubiquitarie" e digitali tra garanzia di riservatezza, esigenze di sicurezza collettiva e di funzionalità del sistema delle prove digitali, in Il Diritto dell'informazione e dell'informatica, 2016, 88;

P. FELICIONI, L'acquisizione da remoto di dati digitali nel procedimento penale: evoluzione giurisprudenziale e prospettive di riforma, in Proc. pen. giust., 2016, 5, 21;

GALLUZZO F., Spunti di riflessione in tema di intercettazioni: motivazione, indicazione degli atti viziati, interesse ad impugnare, in Cass. pen. 2010, 3141;

GIORDANO Luigi, Dopo le Sezioni Unite sul "captatore informatico": avanzano nuove questioni, ritorna il tema della funzione di garanzia del decreto autorizzativo, in Diritto penale contemporaneo, 20 marzo 2017.

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