La legge 179/2017. Gli esiti incerti di una riforma che promette tutele al whistleblower in ambito sia pubblico che privato

18 Dicembre 2017

È stata pubblicata in Gazzetta ufficiale n. 291 del 14 dicembre 2017 la legge 30 novembre 2017, n. 179 recante Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato (c,d. whistleblowing), che entrerà in vigore dal 29 dicembre 2017. In particolare, la riforma si snoda attraverso tre articoli ...
Abstract

È stata pubblicata in Gazzetta ufficiale n. 291 del 14 dicembre 2017 la legge 30 novembre 2017, n. 179 recante Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato (c.d. whistleblowing), che entrerà in vigore il 29 dicembre 2017. In particolare, la riforma si snoda attraverso tre articoli: l'art. 1 dedicato alla tutela del dipendente pubblico; l'art. 2 riservato alla tutela del dipendente o del collaboratore che segnala illeciti nel settore privato; infine, l'art. 3 recante norme integrative della disciplina dell'obbligo di segreto d'ufficio, aziendale, professionale, scientifico e industriale.

La tutela del wihstleblower e il quadro normativo di riferimento

La disciplina in rassegna si propone di regolamentare un istituto di derivazione anglosassone, il c.d. whistleblowing, relativo alla segnalazione di attività illecite nell'amministrazione pubblica o in aziende private, da parte del dipendente che ne venga a conoscenza. Il whistleblower (letteralmente colui che soffia nel fischietto) è il dipendente che denuncia episodi di corruzione e irregolarità alla magistratura o all'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e che, in virtù di tale gesto, non può essere punito (si pensi, ad esempio, al cambio di funzione, al trasferimento, al mobbing, al licenziamento).

Prima di addentrarci nei dettagli della riforma, occorre, tuttavia, rilevare come essa sia il frutto nazionale – condivisibile o meno che sia – di quanto richiesto, già da tempo, da convenzioni internazionali (ratificate dall'Italia) e raccomandazioni dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa. In particolare, l'introduzione di forme di un'adeguata tutela del dipendente (pubblico e privato) che segnala condotte illecite dall'interno dell'ambiente di lavoro è prevista da numerosi atti internazionali, come la Convenzione Onu contro la corruzione del 2003 (art. 33), ratificata dall'Italia con la legge 116 del 2009, e la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla corruzione (art. 9), ratificata con la legge 112 del 2012; la necessità di analoga protezione si ritrova, poi, nelle raccomandazioni del Working group on bribery, incaricato del monitoraggio sull'attuazione della Convenzione Ocse del 1997 sulla lotta alla corruzione degli impiegati pubblici nelle operazioni economiche internazionali (ratificata con legge n. 300/2000), nelle raccomandazioni del Greco (il Groupe d'Etats contre la corruption), organo del Consiglio d'Europa deputato al controllo dell'adeguamento degli Stati alle misure anticorruzione; nonché dal G-20 Anti-corruption working group, costituito in ambito Ocse, che ha predisposto i Guiding principles for whistleblower protection legislation.

Già la legge 6 novembre 2012 n. 190, recante Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione, ha recepito tali sollecitazioni, introducendo – seppur in relazione alla sola pubblica amministrazione – una prima disciplina sulla protezione del dipendente pubblico che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del suo ruolo di dipendente pubblico.

La legge 190/2012 ha, infatti, introdotto nel testo unico del pubblico impiego (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) l'art. 54-bis, il cui testo – come modificato dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, che ha peraltro trasferito interamente all'Anac le competenze in materia di prevenzione della corruzione e della promozione della trasparenza nelle pubbliche amministrazioni – così recita: «fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, o all'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia» (comma 1). Nel comma successivo, si prevede che in sede disciplinare, l'identità del segnalante non possa essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione; invece, quando la contestazione sia fondata (in tutto o in parte) sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato. L'adozione di misure discriminatorie va segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le stesse misure sono state poste in essere (comma 3). A tutela del dipendente viene, infine, stabilito che le segnalazioni siano sottratte al diritto di accesso di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 (comma 4).

Inoltre, va considerato l'attuale Piano nazionale anticorruzione (P.N.A.), il quale, in base al combinato disposto dei paragrafi 3.1 e 7.5, prevede che le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 2, comma 2, del d.lgs. 165/2001, sono tenute ad adottare i necessari accorgimenti tecnici affinché trovi attuazione la tutela del dipendente che effettua segnalazioni di cui al citato art. 54-bis (v. delibera n. 831 del 3 agosto 2016); nello specifico, l'adozione delle iniziative necessarie deve essere prevista nell'ambito del Piano triennale di prevenzione della corruzione (P.T.P.C.) come intervento da realizzare con tempestività. A tal proposito, assumono un ruolo preminente le Linee guida per le pubbliche amministrazioni, emanate dall'Anac, in merito ai modelli da adottare per la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti (v. determinazione n. 6 del 28 aprile 2015, pubblicata nella Gazzetta ufficiale del 14 maggio 2015).

Su un piano più generale, giova rammentare che obblighi di segnalazione di reati da parte del pubblico ufficiale che ne sia venuto a conoscenza nell'esercizio o a causa delle sue funzioni sono già previsti dall'art. 361 c.p.:l'omissione o il ritardo di denuncia all'autorità giudiziaria, o a un'altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, comporta la pena della multa da 30 a 516 euro; la pena è invece della reclusione fino ad un anno, se il colpevole è un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria che ha avuto comunque notizia di un reato del quale doveva fare rapporto (si tenga presente anche l'art. 362 c.p. in relazione all'omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio).

Questo è lo scenario in cui si inserisce la novella legislativa, la cui ratio pare fondarsi – non senza esiti piuttosto discutibili – sulla necessità di approntare una più efficace protezione del dipendente che segnali illeciti, rispetto a misure discriminatorie o comunque penalizzanti nell'ambito del rapporto di lavoro dipendente, sia pubblico che privato. Vediamo di seguito, sinteticamente, quali sono le novità introdotte dalla riforma in commento.

La tutela del dipendente pubblico: l'art. 54-bis del T.U. in materia di pubblico impiego

L'art. 1 della legge 179/2017 sostituisce il testo dell'art. 54-bis del d.lgs. 165/2001 e riguarda la tutela del dipendente nell'ambito del settore pubblico.

In particolare, secondo il nuovo disposto del comma 1, il pubblico dipendente che, nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione, segnali al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all'art. 1, comma 7, l. 190 del 2012, ovvero all'Anac, o denuncia all'autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. L'adozione di misure ritenute ritorsive, di cui al primo periodo, nei confronti del segnalante è comunicata in ogni caso all'Anac dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere; l'Anac informa il dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza.

Sotto il profilo soggettivo, il comma 2 fornisce una definizione estesa di dipendente pubblico, ricomprendendovi, rispetto al testo previgente, non solo il dipendente delle pubbliche amministrazioni in senso stretto di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, ivi compreso il dipendente di cui all'art. 3, ma anche il dipendente di un ente pubblico economico ovvero il dipendente di un ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico ai sensi dell'art. 2359 c.c.; con l'ulteriore indicazione che l'ambito applicativo della la disciplina in questione coinvolge anche i lavoratori e i collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell'amministrazione pubblica.

Al successivo comma 3, si stabilisce il divieto di rivelare l'identità del segnalante l'illecito, oltre che nel procedimento disciplinare, anche in quello penale e contabile. In particolare:

a) nell'ambito del procedimento penale, l'identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall'art. 329 c.p.p.;

b) nell'ambito del procedimento dinanzi alla Corte dei conti, l'identità del segnalante non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria;

c) nell'ambito del procedimento disciplinare l'identità del segnalante non può essere rivelata, ove la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa; tuttavia, qualora la contestazione sia fondata (in tutto o in parte) sulla segnalazione e la conoscenza dell'identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell'incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità.

Viene confermato che la riservatezza della segnalazione comporta la sua sottrazione all'accesso amministrativo previsto dagli artt. 22 e ss. della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni (comma 4).

L'Anac, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, adotta apposite linee guida relative alle procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni. Le linee guida prevedono l'utilizzo di modalità anche informatiche e promuovono il ricorso a strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell'identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione (comma 5).

Sul versante sanzionatorio, il nuovo comma 6 prevede che l'Anac determini l'entità della sanzione tenendo conto delle dimensioni dell'amministrazione o dell'ente cui si riferisce la segnalazione. In particolare, vengono disciplinati tre illeciti:

a) qualora venga accertata, nell'ambito dell'istruttoria condotta dall'Anac, l'adozione di misure discriminatorie da parte di una delle amministrazioni pubbliche o di uno degli enti di cui al comma 2, fermi restando gli altri profili di responsabilità, l'Anac applica al responsabile che ha adottato tale misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro;

b) qualora venga accertata l'assenza di procedure per l'inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l'adozione di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l'Anac applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro;

c) qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.

Viene, poi, precisato che resta a carico dell'amministrazione pubblica o dell'ente di cui al comma 2 dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, siano in realtà motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa; gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall'amministrazione o dall'ente devono considerarsi nulli (comma 7).

Il segnalante che sia licenziato a motivo della segnalazione è reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (comma 8).

Infine, è prevista una clausola di esclusione, in base alla quale le menzionate tutele non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia di cui al comma 1 ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave.

La tutela del dipendente privato: i nuovi commi 2-bis, 2-ter e 2-quater dell'art. 6 del d.lgs. 231/2001

L'art. 2 della legge in questione, attraverso alcune modifiche all'art. 6 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti, estende al settore privato la tutela del dipendente o collaboratore che segnali illeciti (o violazioni relative al modello di organizzazione e gestione dell'ente) di cui sia venuto a conoscenza per ragioni del suo ufficio.

Prima di analizzare le novità introdotte in materia, occorre in via preliminare rammentare che i destinatari della disciplina dettata dal d.lgs. 231/2001 sono ope legis individuati negli “enti forniti di personalità giuridica” e nelle “società e associazioni anche prive di personalità giuridica” (ad eccezione, come recita il comma 3 dell'art. 1, dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali, degli enti pubblici non economici e di quelli che svolgono funzioni di rilievo costituzionale). In particolare, tali soggetti sono responsabili per i reati commessi da determinati soggetti (prevalentemente, con funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione) nell'interesse o a vantaggio dell'ente (art. 5, d.lgs. 231/2001). Tale responsabilità è, tuttavia, esclusa qualora ricorrano alcune condizioni, tra cui l'adozione e l'attuazione da parte dell'ente di un modello di organizzazione e gestione avente determinati requisiti. Nello specifico, l'ente non risponde se prova che: a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto illecito, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
 b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; 
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b) (art. 6, comma 1, d.lgs. 231/2001). Al successivo comma 2, viene poi specificato che, in relazione all'estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di organizzazione debbano rispondere alle seguentiesigenze: a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati; b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in relazione ai reati da prevenire; c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati; d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli; e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

Ebbene, in virtù del nuovo comma 2-bis, tali modelli devono, inoltre, prevedere:

a) uno o più canali che consentano ai soggetti indicati nell'art. 5, comma 1, lettere a) e b) – cioè a coloro che rivestano funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso e a coloro che da questi siano sottoposti a direzione o vigilanza – di presentare, a tutela dell'integrità dell'ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, rilevanti ai sensi del presente decreto e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell'ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte; tali canali garantiscono la riservatezza dell'identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione ;

b) almeno un canale alternativo di segnalazione idoneo a garantire, con modalità informatiche, la riservatezza dell'identità del segnalante;

c) il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione;

d) nel sistema disciplinare adottato ai sensi del comma 2, lettera e), sanzioni nei confronti di chi viola le misure di tutela del segnalante, nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate.

Il nuovo comma 2-ter prevede, poi, che l'adozione di misure discriminatorie nei confronti dei soggetti segnalanti possa essere oggetto di denuncia all'Ispettorato nazionale del lavoro per i provvedimenti di competenza, oltre che da parte dell'interessato, anche da parte dell'organizzazione sindacale indicata dal medesimo (non è, quindi, previsto un obbligo di denuncia); non è invece prevista la denuncia in relazione ad atti di ritorsione.

Infine, il nuovo comma 2-quater sancisce la nullità del licenziamento ritorsivo o discriminatorio del segnalante. Sono, altresì, nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell'art. 2103 c.c., nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante. Come nel settore pubblico, viene specificato che è onere del datore di lavoro – in caso di controversie legate all'irrogazione di sanzioni disciplinari o all'adozione di misure con effetti negativi sulle condizioni di lavoro (siano esse demansionamento, licenziamento, trasferimento, altra misura organizzativa), successive alla segnalazione – dimostrare che l'adozione di tali misure sia fondata su ragioni estranee alla segnalazione stessa.

La scriminante della rivelazione del segreto

Il terzo, e ultimo, articolo della novella in commento, introduce, con riguardo alle ipotesi di segnalazione o denuncia effettuate nel settore pubblico (art. 54-bis del d.lgs. 165/2001) o privato (art. 6 del d.lgs. 231/2001), come giusta causa di rivelazione del segreto d'ufficio (art. 326 c.p.), del segreto professionale (art. 622 c.p.), del segreto scientifico e industriale (art. 623 c.p.) nonché di violazione dell'obbligo di fedeltà all'imprenditore da parte del prestatore di lavoro (art. 2105 c.c.) il perseguimento, da parte del dipendente pubblico o privato che segnali illeciti, dell'interesse all'integrità delle amministrazioni (sia pubbliche che private) nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni.

La giusta causadella rivelazione sembra sostanzialmente operare come scriminante, sul presupposto che vi sia un interesse preminente (in tal caso, l'interesse all'integrità delle amministrazioni) che impone o consente tale rivelazione. Non può, infatti, trascurarsi il monito della Corte costituzionale (con sentenza n. 5 del 2004), in base al quale: «formule quali “senza giustificato motivo”, “senza giusta causa”, “senza necessità”, “arbitrariamente” e formule ad essa equivalenti od omologhe sono destinate in linea di massima a fungere da “valvola di sicurezza” del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti - in assenza di cause di giustificazione vere e proprie - allorché l'osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare gli interessi confliggenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori. Nella giurisprudenza di merito (trib. Napoli, 15 gennaio 2003) si afferma che affinché sussista la giusta causa della rivelazione di segreti professionali è necessario sussista un interesse positivamente valutato sul piano etico-sociale, proporzionato a quello posto in pericolo dalla rivelazione, e che la rivelazione costituisca l'unico mezzo per evitare il pregiudizio dell'interesse riconoscibile in capo all'autore della stessa».

La giusta causa non opera ove l'obbligo di segreto professionale gravi su chi sia venuto a conoscenza della notizia in ragione di un rapporto di consulenza professionale o di assistenza con l'ente, l'impresa o la persona fisica interessata (comma 2).

Viene, infine, previsto che, quando notizie e documenti che sono comunicati all'organo deputato a riceverli siano oggetto di segreto aziendale, professionale o d'ufficio, costituisce violazione del relativo obbligo di segreto la rivelazione con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell'eliminazione dell'illecito e, in particolare, la rivelazione al di fuori del canale di comunicazione specificamente predisposto a tal fine (comma 3).

In conclusione

Alla fine di questo rapido excursus, non possiamo esimerci dal rilevare qualche aspetto critico che si annida nell'articolazione della riforma in esame.

Anzitutto, con riguardo al settore pubblico, i dipendenti, che sono per la maggioranza dei casi pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, hanno, come abbiamo visto, già l'obbligo di denuncia nel caso in cui vengano, nell'esercizio o a causa delle loro funzioni, a conoscenza di reati. Per cui, in simili casi, appare francamente difficile, se non impossibile, mantenere l'anonimato del segnalante, che pure la riforma mira a garantire.

Vi è, difatti, da considerare che in Italia, a differenza di altri Paesi come la Gran Bretagna – dove vi è il Public Interest Disclosure Act del 1998 che offre una disciplina abbastanza completa della materia (proteggendo il whistleblower contro eventuali atti di ritorsione dei superiori e contemporaneamente incentiva le imprese ad organizzare una policy interna rapida ed efficace per prevenire la corruzione), nonché l'istituto dei c.d. testimoni occulti, la cui identità non viene rilevata né agli imputati né ai difensori –, è possibile mantenere l'anonimato, volendo prendere il considerazione il processo penale, sono nei modi e nei limiti stabiliti dall'art. 329 c.p.p.

In secondo luogo, rimane un velo d'incertezza sui destinatari della disciplina contenuta nel novellato art. 54-bis del d.lgs. 156/2001, il quale sembrerebbe non includere tra i destinatari i dipendenti di enti privati a partecipazione pubblica, nonostante l'Anac, nelle determinazione n. 6 del 28 aprile 2015, abbia manifestato anche con riferimento alle società partecipate l'opportunità che le amministrazioni partecipanti promuovino l'adozione di misure volte a incoraggiare i dipendenti degli stessi enti a segnalare eventuali condotte illecite, approntando forme di tutela della loro riservatezza, proprio in considerazione della partecipazione e tenuto conto che le società predette gestiscono risorse pubbliche. Una simile esclusione, probabilmente motivata sulla scorta della loro soggezione alle regole di diritto privato, essendo dotate di autonoma e di distinta personalità giuridica rispetto ai soci pubblici – sul punto, non si dimentichi che viene ormai affermata la natura “cangiante”della pubblica amministrazione, nel senso che un ente può essere sottoposto in alcuni contesti a una disciplina privatistica e, in altri, a una disciplina pubblicistica (v. Consiglio di Stato, sentenza 11 luglio 2016 n. 3043) –induce a ritenere che le società a partecipazione pubblica debbano essere destinatarie non tanto dell'art. 1 del provvedimento legislativo in esame, quanto piuttosto dell'art. 2 concernente la tutela del dipendente o collaboratore che segnala illeciti nel settore privato.

Pur volendo riconoscere il passo in avanti compiuto dalla recente riforma, nella misura in cui estende la disciplina del whistleblowing al settore privato, ci appare difficile il superamento di ulteriori aspetti problematici: l'adozione della nuova disciplina nel settore privato è vincolata all'adozione di un modello organizzativo, di gestione e controllo da parte dell'impresa, senza considerare che oggetto di segnalazione potrà essere soltanto uno dei reati-presupposto commessi di cui al d.lgs. 231 del 2001.

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