Quali sono i requisiti essenziali dell'atto di querela? Il busillis arrovella ancora la Cassazione

20 Dicembre 2017

La Suprema Corte ribadisce, con il recentissimo arresto n. 52538/2017, che le dichiarazioni della persona offesa dal reato, raccolte dalla polizia giudiziaria e anche in assenza di formule sacramentali, possono essere qualificate come querela laddove dal contenuto delle stesse sia inequivocabilmente deducibile la volontà della persona in tal senso.
Abstract

La Suprema Corte ribadisce, con il recentissimo arresto n. 52538/2017, che le dichiarazioni della persona offesa dal reato, raccolte dalla polizia giudiziaria e anche in assenza di formule sacramentali, possono essere qualificate come querela laddove dal contenuto delle stesse sia inequivocabilmente deducibile la volontà della persona in tal senso.

Natura giuridica e forma dell'atto di querela

Per i reati per i quali è prevista la querela di parte, non occorrono necessariamente delle formule sacramentali ai fini della procedibilità ma bastano anche le sole dichiarazioni rese dalla persona offesa alla polizia giudiziaria ove dalle stesse emerga inequivocabilmente la volontà di sporgere querela. Questo – in estrema, e forse un po' brutale, sintesi – il principio di diritto espresso dai giudici di legittimità nella recente pronuncia n. 52538/2017, depositata dalla quarta Sezione penale della Corte Suprema lo scorso 17 novembre.

Prima di analizzare in modo più approfondito la parabola motivazionale della sentenza, giova effettuare alcune brevi riflessioni in merito alla natura giuridica dell'istituto disciplinato dal combinato disposto degli artt. 336-340 c.p.p. e degli artt. 120-126 del c.p.

La querela può essere definita come un atto negoziale di diritto pubblico – riservato alla persona offesa dal reato – alla cui conforme manifestazione di volontà la legge ricollega l'effetto di rendere possibile l'esercizio dell'azione penale, con riguardo a taluni fatti criminosi, i quali in assenza di querela difetterebbero del presupposto necessario per la procedibilità (in tal senso, ex multis, Cass. pen., Sez. V, 17 aprile 2000, n. 4695).

Nel nostro sistema penale si possono individuare tre ordini di ragioni che hanno ispirato il Legislatore nell'individuazione dei reati procedibili a querela.

La prima motivazione va ravvisata nella ricorrenza del requisito della tenuità dell'interesse sociale leso, che pur ha portato all'incriminazione della condotta, rispetto al risalto che nel reato assume la lesione di un bene proprio del privato. Esempio tipico di questa categoria è il delitto di violazione di domicilio, disciplinato dall'art. 614 c.p.

Altro motivo della scelta di rendere punibile il reato a querela va poi ravvisato nella particolare relazione personale che lega soggetto attivo e passivo che “suggerisce” di far dipendere la concreta punizione dalla volontà di quest'ultimo. In questo caso il pensiero non può non andare alla previsione contenuta nel capoverso dell'art. 649, comma 2, c.p.

Last but not least, occorre far riferimento a quelle ipotesi nelle quali la ratio della procedibilità a querela va rinvenuta nella tutela della vittima del reato: è il caso dei reati di violenza sessuale di cui agli artt. 609-bis, 609-ter e 609-quater c.p.

Gli elementi costitutivi della querela sono due: la notizia di reato e la manifestazione della volontà che si proceda penalmente in ordine al reato (e proprio tale secondo elemento viene scandagliato dall'arresto n. 52538/2017, al centro di queste brevi notazioni).

La querela è un atto a forma libera, cioè un atto che non richiede l'adozione di formule particolari. Qualunque sia la formula usata, è semplicemente necessario che il querelante manifesti in modo specifico la propria volontà a che il P.M. proceda penalmente in ordine ai fatti che ha riportato in querela.

Il diritto di querela deve essere esercitato entro il termine di tre mesi dal giorno in cui la persona offesa ha avuto notizia del fatto che costituisce il reato (art. 124 c.p.). Il termine si allunga – divenendo di sei mesi – per i delitti contro la libertà sessuale.

Nel codice Rocco del 1930 il numero dei reati perseguibili a querela era piuttosto esiguo – circa 40 – e riguardava fondamentalmente ipotesi delittuose statisticamente poco frequenti ed offensive per lo più di interessi patrimoniali scriminabili ai sensi dell'art. 50 c.p.

La legge 689/1981 ha cambiato sostanzialmente questo quadro con la previsione della perseguibilità a querela anche di reati riguardanti beni indisponibili e piuttosto frequenti nella aule giudiziarie. Ci si riferisce, segnatamente, alle fattispecie di lesioni personali (anche nella forma aggravata dalla violazione della normativa sulla circolazione stradale). Questa tendenza del Legislatore ad ampliare lo spazio di operatività della querela è proseguita tramite puntuali interventi di riforma a partire dalla legge 205/1999, che ha introdotto la perseguibilità a querela del reato di furto, accentuando così la chiara funzione deflattiva dell'istituto.

Ancora più rivoluzionaria è stata la previsione contenuta dall'art. 21 del d.lgs. 274/2000 sul ricorso immediato al giudice di pace. Questo articolo ha stabilito che – per i reati procedibili a querela – è ammessa la citazione a giudizio innanzi al giudice di pace della persona alla quale il reato è attribuito su ricorso della persona offesa senza che vi sia prima il vaglio del pubblico ministero. Non v'è chi non veda l'importanza sistematica di tale novum normativo: sino all'introduzione della disposizione in questione la scelta se esercitare o meno l'azione penale era rimessa (senza alcuna eccezione) al P.M. e la presenza della querela rappresentava unicamente una conditio sine qua perché il potere del P.M. potesse liberamente esprimersi.

Il caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità

Dopo aver succintamente tratteggiato l'ubi consistam dell'istituto in questione, occorre ora analizzare i passaggi più rilevanti del recente arresto di legittimità.

La Suprema Corte è stata chiamata a giudicare un ricorso avverso una sentenza di seconde cure che confermava la condanna nei confronti di un marito per i reati di lesioni colpose (art. 590 c.p.) e di omissione di soccorso (art 593 c.p.) commessi a danno della moglie.

Il ricorrente aveva presentato ricorso innanzi ai giudici di legittimità deducendo l'erronea applicazione dell'art. 590 c.p. e un vizio di motivazione in relazione agli artt. 337, 136, 357, 373 e 347 c.p.p., sostenendo segnatamente che, contrariamente a quanto indicato nella sentenza di secondo grado, non fosse stato acquisito alcun atto dal quale emergeva la volontà della persona offesa di querelare il proprio coniuge, dandosi atto dell'asserita volontà punitiva unicamente nella comunicazione della notitia criminis.

Il ricorrente sottolineava, in particolare, nei motivi di ricorso, che la natura di atto negoziale – propria della querela – impediva che ad essa potesse essere equiparata la comunicazione della notizia di reato.

La Corte della nomofilachia si trovava così dinanzi ad una problematica ermeneutica non nuova nelle aule di giustizia e che negli ultimi anni è stata esaminata anche nella letteratura specialistica: individuare gli elementi minimi ed essenziali per poter qualificare una manifestazione di volontà della persona offesa quale querela.

Come evidenziato in precedenza, gli elementi costitutivi della figura giuridica in questione sono la notizia di reato e la volontà che si proceda penalmente in ordine allo stesso. Il primo elemento consiste nella descrizione del fatto di reato, con eventuali notizie sull'autore dello stesso o sulle prove. Tuttavia, al querelante non compete dare una qualificazione giuridica all'evento, essendo sufficiente che lo stesso esponga anche succintamente il fatto (si prenda in tal senso, ex multis, Cass. pen., n. 4043/1985).

Con riferimento al secondo elemento, la manifestazione della volontà da parte della persona offesa nel perseguire penalmente il colpevole del fatto di reato deve risultare in modo equivocabile dall'atto. L'analisi dei giudici di legittimità si è concentrata proprio sull'ubi consistam di tale secondo requisito.

La risposta data dal Supremo Consesso

I giudici della quarta Sezione della Corte di cassazione hanno in primo luogo sottolineato che, nel caso in cui l'atto venga redatto dalla polizia giudiziaria che raccoglie le dichiarazioni della parte, la volontà della persona offesa deve essere esplicita, ancorché non ritualizzata in forme sacramentali, ovvero desumibile da espressioni interpretabili quali manifestazioni di volontà di perseguire l'autore del fatto.

La Corte ha poi ricordato un suo recente arrêt nel quale è stato affermato che la dichiarazione con la quale la persona offesa, all'atto della denuncia, si costituisce o si riserva di costituirsi parte civile, deve essere qualificata come valida manifestazione del diritto di querela (Cass. pen., 15691/2013).

Anche la sollecitazione rivolta all'autorità giudiziaria di “voler prendere provvedimenti al più presto”, contenuta nell'integrazione a una precedente denuncia, costituisce – secondo la Suprema Corte – manifestazione di volontà diretta a richiedere la punizione dell'autore del reato, conferendo così all'atto valore di querela (in tal senso, si prenda Cass., 6333/2013).

Lo snodo più interessante della pronunzia è però contenuto nel passaggio successivo della sentenza, nel quale la quarta sezione sottolinea che «anche manifestazioni non esplicite, in situazioni di incertezza, devono comunque essere interpretate alla luce del favor querelae»; occorre, tuttavia, che «ci si trovi in presenza di una manifestazione lessicale proveniente inequivocabilmente dalla parte».

La Corte ha fatto così riferimento a un favor nei confronti del soggetto querelante già espresso in alcuni suoi recenti arresti (si prenda, ex plurimis, Cass. pen., 46994/2011; Cass. pen., 49379/2012; Cass. pen., 23010/2013). Giova ricordare, a ogni buon conto, come tale principio possa essere scorto anche in un alcune disposizioni normative (si pensi, agli artt. 120 e 122 c.p., in base alle quali qualsiasi situazione di incertezza va risolta in favore del querelante).

Il Supremo Collegio ribadisce – da ultimo – che la manifestazione della volontà di presentare querela può essere ritenuta esistente dal giudice del merito – con accertamento sottratto al sindacato di legittimità se rispondente alle regole della logica e del diritto – indipendentemente dalla qualifica assegnata alla dichiarazione orale dalla polizia giudiziaria che l'ha ricevuta, sempre che l'intenzione di voler perseguire l'autore dei fatti ivi denunciati emerga chiaramente dalla dichiarazione stessa ovvero da altri fatti dimostrativi del medesimo intento.

Alla luce delle suesposte coordinate interpretative, i giudici di legittimità hanno ritenuto che i magistrati della Corte d'appello di Catanzaro avessero deciso correttamente, motivando il loro giudizio alla luce del contesto in cui la manifestazione di volontà era stata raccolta, ossia presso l'ospedale di Corigliano (ove la persona offesa era stata ricoverata) e prima che la donna – arrivata in gravi condizioni e senza che il marito l'avesse accompagnata – fosse trasferita in altro nosocomio per essere operata.

In conclusione
  • Le dichiarazioni della persona offesa dal reato, raccolte dalla polizia giudiziaria e a prescindere dal ricorso a formule sacramentali, possono essere qualificate come querela laddove dal contenuto delle stesse sia inequivocabilmente deducibile la volontà della persona in tal senso.
  • Anche manifestazioni non esplicite, in situazioni di incertezza, devono comunque essere interpretate alla luce del favor querelae.
  • Occorre, tuttavia, che ci si trovi in presenza di una manifestazione lessicale proveniente inequivocabilmente dalla parte.

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