Legge - 19/10/2017 - n. 155 art. 8 - EsdebitazioneEsdebitazione
1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, per la disciplina della procedura di esdebitazione all'esito della procedura di liquidazione giudiziale, il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere per il debitore la possibilità di presentare domanda di esdebitazione subito dopo la chiusura della procedura e, in ogni caso, dopo tre anni dalla sua apertura, al di fuori dei casi di frode o di malafede e purché abbia collaborato con gli organi della procedura; b) introdurre particolari forme di esdebitazione di diritto riservate alle insolvenze minori, fatta salva per i creditori la possibilità di proporre opposizione dinanzi al tribunale; c) prevedere anche per le società l'ammissione al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, previo riscontro dei presupposti di meritevolezza in capo agli amministratori e, nel caso di società di persone, in capo ai soci. InquadramentoIn data 11 ottobre 2017, è stata approvata dal Senato la legge delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza: l. n. 155 del 19 ottobre 2017, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 2017, n. 254. I principi e i criteri direttivi di cui si compone il testo normativo delineano un disegno abbastanza preciso dei cardini su cui è destinato ad articolarsi il nuovo diritto della crisi di impresa. Il carattere dettagliato del testo giustifica il tentativo di ricostruire, sin d'ora, un quadro di insieme in cui possa essere già ricompreso il diritto che verrà posto. Vorrei iniziare con il ribadire i limiti del diritto della crisi d'impresa, e quale avrebbe potuto essere la prospettiva della riforma. Più volte ho sostenuto che l'insufficienza di questo diritto, per come oggi si presenta, dipende soprattutto da alcune ragioni di fondo, trascurate nei vari tentativi di ammodernamento della legislazione di settore degli ultimi dieci anni. In primo luogo, va considerata la vetustà dell'impianto normativo del c.d. diritto comune. La legge fallimentare del 1942 (semplicemente novellata a più riprese, ma mai abrogata) risponde ad una impostazione risalente alla codificazione commerciale francese del 1807: di matrice statalista, caratterizzata da un pesante sospetto verso la figura del fallito; orientata esclusivamente all'affermazione di interessi pubblici e subordinatamente alla tutela dei creditori (specie dei creditori garantiti); scarsamente attenta alla conservazione dell'impresa. In questa ottica furono disciplinati nelle legislazioni storiche istituti quasi dovunque abbandonati, come il concordato preventivo e il fallimento. Ossia la procedura di stigmatizzazione dell'insolvenza dell'imprenditore (il fallimento) e la procedura in prevenzione della stessa e delle gravi conseguenze personali connesse (il concordato preventivo): istituti intrinsecamente inidonei a recare un diritto effettivamente nuovo. Parimenti, bisognerebbe seriamente considerare l'insuperata opinabilità del c.d. diritto amministrativo della crisi di impresa (liquidazioni coatta e soprattutto amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi): certamente preoccupato della salvaguardia dell'impresa, ma sottratto al controllo giudiziario e determinato non da logiche di mercato ma da preoccupazioni di natura amministrativa e politica (secondo una soluzione non riscontrabile negli ordinamenti di civiltà affine). Nemmeno dovrebbe sottovalutarsi l'inadeguatezza degli strumenti attualmente fruibili: concordato preventivo, fallimento, amministrazione straordinaria. È sufficiente riflettere che nessuna di queste procedure è stata effettivamente pensata per regolare strategie di corporate restructuring, bensì esclusivamente per la composizione della debitoria dell'imprenditore insolvente. Il perdurante pregiudizio verso il debitore è anche testimoniato dall'assenza – nonostante i recenti tentativi del legislatore – di efficaci strumenti di esdebitazione. Come pure dimostra il notevole insuccesso pratico della procedura di sovraindebitamento, in assenza di strumenti legislativi idonei a stabilire un confine netto tra dolo e sfortuna, c'è spazio esclusivamente per soluzioni di compromesso, che rendono difficilmente praticabile l'obiettivo dell'esdebitazione. Questo stato di cose impedisce di salvaguardare non soltanto la legittima aspettativa dei debitori onesti di avere una seconda occasione sul mercato; ma anche il fascio di interessi inglobati nel fenomeno della continuità aziendale. In primo luogo la salvaguardia dei posti di lavoro secondo compatibilità di mercato; inoltre, la tutela dalle ripercussioni della crisi aziendale di realtà come distretti, indotti e reti, in cui sono coinvolti i fornitori dell'impresa (privi di reale tutela nell'ordinamento italiano, dal che il fenomeno dei c.d. fallimenti a catena); infine, la tutela degli interessi dei finanziatori istituzionali secondo strategie non di mero recupero ma di sostegno a più solidi rapporti di credito (anche attraverso l'adozione di più efficaci protocolli di merito creditizio). Aspetto, quest'ultimo, fondamentale in sistemi incentrati sul finanziamento bancario alle imprese (tanto che in Francia è prevista al riguardo un'apposita procedura di insolvenza, mentre da noi vige esclusivamente la disciplina dell'art. 182 septies l.fall.). Si imporrebbe dunque un ripensamento generale delle strutture della decisione sulla crisi d'impresa (ancora stabilite in Italia secondo il criterio della semplice alternativa tra decisione del tribunale o della p.a. e decisione dei creditori). Potrebbe allora elaborarsi una riforma organica delle procedure concorsuali in linea con le soluzioni accolte nei paesi dell'Europa continentale: attraverso il modello della procedura unica aperta a esiti di ristrutturazione o in alternativa di liquidazione (operante in Germania dal 1996), oppure attraverso la pluralità di modelli di ristrutturazione e di liquidazione a seconda della gravità della crisi aziendale (operante in Francia, compiutamente, dal 2005). Con maggior precisione, può osservarsi che sarebbe opportuno disciplinare il fenomeno della insolvenza societaria. Mentre in altre esperienze, come quella inglese, la corporate insolvency costituisce oggetto di legislazione e studio appositi, il diritto italiano non conosce, se non per semplici norme di dettaglio o di rinvio, regole sull'insolvenza societaria. Questo fatto determina evidentemente gravi difficoltà di coordinamento tra diritto fallimentare e diritto societario. A risentirne sono le possibilità di superamento della crisi: giacché la continuità aziendale presuppone la prosecuzione dell'attività societaria in armonia con le peculiarità del diritto fallimentare e attraverso una precisa disciplina di raccordo (il c.d. diritto societario della crisi). Proseguendo su questa linea, sarebbe inoltre auspicabile considerare, per le crisi compatibili con la continuità aziendale, soluzioni operative in sistemi anglosassoni: come la figura dell'administration (istituto operante in Inghilterra), in cui l'obiettivo di corporate restructuring è perseguito secondo modelli di corporate governance: in breve, sostituendo all'organo amministrativo della società un amministratore giudiziario. Quanto a interventi di minor raggio, sarebbero da rimeditare in radice: il sistema revocatorio (eccessivamente ridimensionato, con grave danno per la distribuzione equa delle perdite nel ceto creditorio); il sistema dei finanziamenti all'impresa in crisi (oggetto di una disciplina alquanto disorganica); il sistema dell'esdebitazione delle persone fisiche (pregiudicato dalle inefficienze delle procedure di sovraindebitamento introdotte negli ultimi anni); il sistema dei reati fallimentari, corrispondente alla originaria struttura della legge fallimentare, ampiamente superata anche secondo la fisionomia attuale di quella legge. In funzione preventiva, dovrebbero poi essere introdotte norme sulla responsabilità degli amministratori per violazione di doveri gestori di ristrutturazione (e non semplicemente di doveri sulla conservazione dell'integrità patrimoniale). La nuova esdebitazioneQualche considerazione in più meritano i principi sulla esdebitazione. Abbiamo accennato a come fino al recente passato lo status legale del fallito era disegnato con estremo rigore nella legge. Il debitore caduto in fallimento non solo era (come ancora oggi) colpito dalla incapacità legale di agire ma per di più bersagliato da una serie di pesanti sanzioni culminate nel divieto di libera circolazione ma arricchite anche da una serie di afflizioni minori man mano decadute con il progresso della legislazione. Alla base di quelle regole vi era un preciso giudizio morale di disvalore riservato al debitore insolvente. Secondo una antica matrice culturale e religiosa che vede nel debito una vera e propria colpa da espiare, chi non adempie i propri debiti è colpito da uno stigma sociale. Più in generale, se si presta attenzione alla disposizione dell'art. 2740 c.c., si può osservare che il debitore è responsabile per le obbligazioni assunte con il proprio patrimonio non soltanto presente ma anche futuro. In altri termini, il debitore resta tale fino a quando il debito non è integralmente pagato. Se l'esecuzione individuale o collettiva a cui è sottoposto il debitore non produce il risultato dell'integrale pagamento, le acquisizioni patrimoniali che il debitore dovesse maturare in futuro sarebbero assoggettate a nuove procedure esecutive avviate contro quel debitore nei limiti dei debiti rimasti impagati. Così, nel caso di una esecuzione individuale cessata con il soddisfacimento parziale dei creditori, questi ultimi possono avviare una nuova esecuzione su altri beni del debitore; nel caso di fallimento definito per integrale esecuzione sul patrimonio del debitore, se residuano crediti insoddisfatti e sopravvengono nuovi beni nel patrimonio del debitore, la procedura può essere riaperta su richiesta dei creditori o dello stesso debitore. L'esperienza del mercato determina, peraltro, la consapevolezza dell'insuccesso economico come eventualità fisiologica dell'azione imprenditoriale. Cosicché un minimo affinamento concettuale consente da subito di distinguere l'imprenditore disonesto che vuole sottrarsi all'adempimento delle proprie obbligazioni, frodando i creditori e commettendo atti di bancarotta, da chi, tutto al contrario, rimane vittima delle circostanze e cade suo malgrado nell'insolvenza. La severità del trattamento sanzionatorio previsto per il primo caso non poteva attagliarsi al secondo. Da qui, con passaggio successivo, l'idea che l'imprenditore onesto ma sfortunato nella sua azione economica potesse anche risultare meritevole di benefici a lui riservati dalla legge. Il fondamentale beneficio per chi è schiacciato dai debiti e di essere sollevato una volta per tutte da quel peso. Il beneficio è, dunque, nell'effetto esdebitativo che, a certe condizioni, può realizzarsi a vantaggio del debitore. Le soluzioni negoziali della crisi di impresa, contratti e concordati, poiché si basano sulla adesione dei creditori - data nelle forme del consenso contrattuale o della deliberazione maggioritaria di approvazione del concordato - hanno naturalmente efficacia esdebitativa. Nella prospettiva civilistica tali soluzioni negoziali si presentano come accordi o deliberazioni di natura solutoria. Gli atti deliberativi si realizzano, peraltro, in ambienti procedurali: tali sono il concordato preventivo, l'accordo del sovraindebitato e il piano del consumatore sovraindebitato. Il beneficio della esdebitazione è attribuito, in questi casi, per l'esito positivo della procedura, largamente dipendente dalla condivisione dei creditori della soluzione prospettata. Nella iniziale versione dell'art. 160 l.fall. l'ammissione alla procedura di concordato preventivo era riservata al debitore che avesse tenuto una condotta meritevole del beneficio. Nella versione attuale, la disposizione non fa più cenno a requisiti soggettivi di meritevolezza; tuttavia, la condotta del debitore resta al centro delle valutazioni degli organi della procedura. Di essa deve trattare il commissario giudiziale nella relazione di cui all'art. 172 l.fall.; la disposizione successiva commina la inammissibilità alla proposta formulata dal debitore che, prima o durante la procedura, abbia commesso atti in frode ai creditori. Della cancellazione dei debiti può giovarsi anche chi viene dichiarato fallito, sempre che, per la condotta tenuta dal debitore e per i risultati conseguiti nella procedura, possa trovare applicazione l'istituto della esdebitazione. Il beneficio è riservato al debitore che sia una persona fisica, con esclusione, dunque, delle organizzazioni. I presupposti per accedere al beneficio sono individuati nell'art. 142 l.fall. con riguardo alla condotta del debitore sia precedente alla apertura della procedura che successiva all'apertura della procedura. Sono esclusi dal beneficio coloro che hanno compiuto reati di bancarotta o più in generale contro l'economia, che abbiano commesso manovre fraudolente sull'attivo o sul passivo patrimoniale, oppure abbiano ostacolato lo svolgersi della procedura. Il beneficio è riservato a chi abbia all'opposto cooperato fattivamente con gli organi della procedura adoperandosi per la migliora riuscita della stessa. Un limite oggettivo è dato da una apprezzabile risultato del fallimento in quanto non può concedersi esdebitazione se i creditori concorsuali non siano stati soddisfatti almeno in parte. L'esdebitazione si mostra nella disciplina legale come un vero e proprio premio di buona condotta. È preso in considerazione quasi esclusivamente il comportamento del debitore rispetto alle legittime aspettative dei creditori. Si ribadisce in questo modo la secolare distinzione tra bancarottiere ed imprenditore onesto ma sfortunato. L'art. 8, comma 1, lett. c), introduce una significativa innovazione: sulla esdebitazione delle società. Si ribadiscono i criteri di meritevolezza del debitore: da indagarsi con riguardo ai soci nelle società di persone, e agli amministratori nelle società di capitali. L'art. 8, comma 1, lett. a), pone il principio concernente la possibilità per il debitore di presentare domanda di esdebitazione subito dopo la chiusura della procedura, e comunque trascorsi tre anni dall'apertura della stessa: sempre alle condizioni sulla buona e fruttuosa condotta sopra illustrate (assenza di frode; collaborazione con gli organi della procedura). Cosicché il debitore potrà giovarsi dell'esdebitazione anche nella pendenza della liquidazione giudiziale. La qual cosa richiederà un coordinamento con il regime delle incapacità legali che colpiscono il debitore in corso di procedura (se infatti queste ultime permarrebbero, l'esdebitazione non potrebbe determinare il fondamentale vantaggio connesso: l'avvio di una nuova attività economica senza il peso dei debiti rimasti impagati). L'art. 8, comma 1, lett. b), discorre di particolari forme di esdebitazione di diritto da riservarsi alle insolvenze minori (fatta salva l'opposizione dei creditori). In tali evenienze sembra che la facilitazione per l'accesso al beneficio (assegnato “di diritto”) dipenda dal ridotto allarme sociale suscitato dall'insolvenza: infatti di piccole dimensioni. Il principio si pone in contrasto con le regole - che saranno illustrate in seguito - sulla esdebitazione del sovraindebitato. In questi casi la debitoria ha in pratica sempre dimensioni contenute e non allarmanti. La situazione ricorrente è pertanto sovrapponibile a quella delle c.d. ‘insolvenze minori'. Eppure, questo tipo di esdebitazione non opera di diritto ma all'esito di una valutazione della condotta del debitore. Ossia, secondo quanto accade per l'ipotesi generale di esdebitazione, relativa alle insolvenze non minori, e al contrario di quanto il principio in esame detta per queste ultime. BibliografiaDi Marzio, La riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2017 |