Il divieto di patti successori alla luce dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale
22 Dicembre 2017
Il caso in fatto
Il fatto portato all'attenzione della Corte è la richiesta di divisione dell'eredità del padre da parte del figlio. Nel compendio ereditario vi erano la piena proprietà di un appartamento e di un piccolo capannone e la nuda proprietà di un secondo appartamento. La sorella si opponeva alla divisione producendo una scrittura privata del 1983, con la quale i due eredi, fratello e sorella, si impegnavano a non dividere sino a quando non fossero divenuti proprietari dell'intero patrimonio. Lo scopo era precludere la divisione fino a che fosse esistente il diritto di usufrutto sul secondo appartamento, diritto costituito in precedenza nel 1976. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 19 luglio 2000, rigettava la domanda di divisione, gravando sull'appartamento in questione un diritto di usufrutto e, dunque, non essendo il bene nella piena disponibilità degli eredi, ritenendo a tale effetto validamente manifestata da costoro la volontà di cui alla scrittura privata del 1983, della quale, per il resto, dichiarava la nullità ex art. 458 c.c., nella parte in cui le parti disponevano dei diritti loro spettanti in base ad una successione non aperta. Il fratello proponeva appello, chiedendo la divisione dei beni e l'attribuzione delle quote come da progetto predisposto dal CTU nominato dal Tribunale. Con sentenza non definitiva del 20 febbraio 2005, la Corte d'Appello di Roma dichiarava la nullità della scrittura privata del 1983 anche nella parte in cui i fratelli avevano convenuto di non procedere alla divisione del patrimonio paterno sino al conseguimento della sua piena disponibilità, negando quindi qualsiasi preclusione alla domanda di divisione giudiziale e perciò disponendo per il prosieguo istruttorio. All'esito, veniva pronunciata ulteriore sentenza il 15 marzo 2011, la quale disponeva la divisione del patrimonio ereditario. Il caso in diritto
Cass. civ., n. 14566/2016 affronta per l'ennesima volta la spinosa questione dei patti successori e dei criteri per l'individuazione degli stessi. Con la declaratoria di nullità, per violazione dell'art. 458 c.c., del patto intercorso fra le parti in data 13 aprile 1983, la Suprema Corte riprende con chiarezza la normativa in oggetto, sviscerando i criteri per individuare un patto successorio, come già accaduto in più occasioni (Cass. civ., sez. II, 16 febbraio 1995, n. 1683; Cass. civ., sez. II, 9 luglio 1976, n. 2619). La Corte offre in primo luogo una definizione di patto successorio, riprendendo alcune pronunce pregresse (Cass. civ., sez. II, 19 novembre 2009, n. 24450; Cass. civ., sez. II, 6 gennaio 1981, n. 63), affermando che «sono patti successori le convenzioni che abbiano per oggetto la costituzione, trasmissione o estinzione di diritti relativi ad una successione non ancora aperta e facciano così sorgere un vinculum iuris, di cui la disposizione ereditaria rappresenti l'adempimento». Detto vinculum iuris risulta essere elemento necessario dell'accordo affinché si abbia un patto successorio vietato. Autorevole dottrina (v. L. Ferri, Disposizioni Generali sulla Successione, Bologna, 1997) ha sottolineato come l'accordo, da cui nasce il vincolo obbligatorio suddetto, non debba necessariamente essere di natura scritta, sottendendo la sufficienza di una convenzione orale. In merito la Cassazione (Cass. civ., sez. II, 3 novembre 1979, n. 5693) aveva avuto modo di affermare che per potersi concretare l'ipotesi di un patto successorio obbligatorio sarebbe stata necessaria una convenzione che, in via astratta ed in assenza del divieto di cui all'art. 458 c.c., poteva essere suscettibile di coazione giuridica. Dunque gli estremi della pattuizione vietata non sussisterebbero qualora un testamento, che si ipotizza essere atto esecutivo di un patto obbligatorio, non contenga altro che locuzioni generiche, rivelatrici di impegni di carattere affettivo e morale, in mancanza di prova concreta dell'idoneità del vincolo a limitare la volontà istitutiva del de cuius. In tal senso anche Cass. civ., 29 maggio 1972, n. 1702, che ha chiarito come sia da escludere l'esistenza di un patto successorio quando tra le parti non sia intervenuta alcuna convenzione, e il testatore abbia solo manifestato verbalmente, all'interessato o a terzi, l'intenzione di disporre dei suoi beni in un determinato modo, atteso che tale mera promessa verbale non crea alcun vincolo giuridico e non è quindi idonea a limitare la piena libertà del testatore stesso, né a costituire oggetto di tutela legislativa. La Corte (Cass. civ., sez. II, 9 maggio 2000, n. 5870 in Riv. Not., 2001, 227, con nota di Gazzoni) ha poi ribadito tale principio ritenendo che non sia possibile ravvisare la sussistenza di tale vinculum, e dunque del patto vietato, quando non sia incorsa fra le parti alcuna convenzione, ma vi sia stata una semplice manifestazione verbale dell'intento di disporre di beni facenti parte di un'asse ereditario. Sulla medesima strada si pone anche una pronuncia di merito (Trib. Gorizia, 4 Aprile 2000, in Familia, 2001, con nota di Grassi) in cui veniva ravvisata solo una scelta dettata da ragioni di natura morale e familiare, non anche da vincoli aventi presunto rilievo giuridico o suscettibili in astratto di coazione giuridica, nonché, con contenuti sostanzialmente identici, la ben più recente Cass. civ., sez. II, 8 ottobre 2008, n. 24813. I patti successori ed in particolare i patti dispositivi
Il patto preso in considerazione dalla Cassazione è di natura dispositiva e (meramente) obbligatoria. Dette convenzioni obbligano a disporre dei diritti che la parte si auspica di ricevere su una futura successione ereditaria. A tal riguardo appare sufficientemente pacifica la tesi secondo cui non solo le convenzioni con natura reale, ma anche quelle con natura esclusivamente obbligatoria sono da ritenersi nulle (fermo restando che varie sono le opinioni in merito al vizio che può inficiare l'atto esecutivo di tale obbligo, in particolare nei patti istitutivi). I patti successori di natura dispositiva vengono ricostruiti, in maniera sufficientemente pacifica in dottrina (fra tutti G. Capozzi, Successioni e Donazioni, Giuffrè, 2009) come patti aventi natura inter vivos e non mortis causa. Gli stessi infatti non regolano la chiamata ereditaria, ma presuppongono che la stessa segua il suo corso ordinario, secondo i normali criteri di orientamento della delazione (in tal senso L. Ferri, Successioni in generale, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1951). Difatti, con gli stessi, si dispone non della propria eredità o di un proprio legato, ma piuttosto si dispone di un'altrui asse ereditario, prima del decesso dell'interessato. Trattasi di ipotesi in cui, per la sua peculiare struttura, il sopra citato vinculum iuris non si concentra in capo al de cuius, bensì in capo a coloro che vorrebbero vantare diritti sull'eredità del suddetto. La ratio del divieto in parola, come meglio specificato in seguito, non è dunque da rinvenirsi nella coazione nei confronti della libertà testamentaria, quanto nel freno alla prodigalità. Nonostante il nomen "patti successori" sembri far riferimento essenzialmente ad accordi bilaterali, non è escluso che il divieto colpisca anche atti unilaterali, di cui all'art. 1324 c.c.; sul punto la dottrina indica a titolo esemplificativo le donazioni obnuziali di un'eredità futura (G. Capozzi, Op. Cit.). Il patto inoltre può prevedere una disposizione dell'altrui eredità con o senza corrispettivo. In quest'ultimo caso, qualora sia possibile ravvisare anche l'animus donandi in capo al disponente, autorevole dottrina (senso L. Ferri, Successioni in generale, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1951) ha giustamente ravvisato un duplice ordine di nullità. L'atto sarebbe nullo anche in relazione al divieto di donazione di beni futuri, ai sensi dell'art. 771, comma 1, c.c. , giacché avrebbe ad oggetto beni ancora non presenti nel proprio patrimonio. Entrambe le norme potrebbero, infatti, rappresentare forme di deroga al disposto dell'art. 1348 c.c. in tema di disposizioni aventi ad oggetto cose future (sul punto anche Cass. civ., 11 novembre 2008, n. 26946, che esclude la nullità per violazione della norma in parola, dal momento che le parti non dispongono di un diritto futuro e meramente eventuale, ma di diritti già acquisiti). In merito si può notare come le due disposizioni sarebbero accomunate anche da una parziale identità di ratio (almeno per quanto riguarda i patti successori dispositivi) poiché sottesa ad entrambe rimane la volontà legislativa di tutelare soggetti inesperti, frenare la loro prodigalità ed evitare l'anticipata dilapidazione dei beni che, essi auspicano, entreranno a far parte del proprio patrimonio. Il disponente poco avveduto, in assenza di tale divieto, potrebbe essere indotto a dismettere un diritto futuro ed incerto, oltre che nel quantum anche nell'an, in cambio di un vantaggio attuale e certo, ma che in futuro potrebbe rivelarsi insufficiente. In una pattuizione con una struttura del genere manca una forma di condizionamento della volontà del testatore, volendosi eccettuare solo quello di natura indiretta e mediata, come accade in qualsiasi ipotesi di res inter alios acta, stante il fondamentale principio secondo il quale «il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge» (ai sensi dell'art. 1372 c.c.). Si prescinde in ogni caso, ai fini della nullità in parola, dall'iniquità delle condizioni con cui il patto è convenuto, che invece è requisito essenziale per la rescindibilità. Il legislatore non si preoccuperebbe tanto di una forma di approfittamento contrattuale, quanto di evitare il votum captandae mortis, ossia l'auspicio del decesso di un soggetto, oltre alla creazione di trattative economiche sul patrimonio ereditario di soggetti ancora viventi (C. M. Bianca, Diritto civile, II. La famiglia. Le successioni, Giuffrè, 2001). Il principio di diritto espresso dalla Corte
La Suprema Corte, nella sentenza in commento, esprime un principio di diritto che sostanzialmente può scomporsi in due valide affermazioni: - la prima è la nullità, per violazione del divieto di patti successori dispositivi, della scrittura con cui i due figli pattuivano che, al momento della divisione della casa compresa nel patrimonio del genitore, vivente alla data del patto (13 aprile del 1983), ciascuno avrebbe avuto la metà dell'immobile; - la seconda è l'invalidità di detta scrittura, per violazione del medesimo divieto, nella parte in cui i contraenti si vincolavano reciprocamente a non dividere il patrimonio paterno fino al conseguimento della piena proprietà del bene (che sarebbe stato loro venduto dal genitore nei giorni a seguire) e quindi solo all'esito dell'estinzione dell'usufrutto gravante sugli immobili oggetto della scrittura privata. Anche il convenire tempi e modalità della successiva divisione ereditaria può senza dubbio farsi rientrare in tale divieto, sia nella parte in cui le parti si obbligano a dividere in parti eguali il bene, sia quando convengono l'obbligo di rimanere in comunione, ai sensi art. 1111 c.c., fino al verificarsi di un evento futuro, e dunque per una durata indeterminata (pur essendo questo secondo caso di meno immediata percezione per l'interprete). La Suprema Corte aveva già avuto modo di affrontare l'intreccio fra divisione ereditaria e patti successori, con una non recente pronuncia (Cass. civ., 7 marzo 1960, n. 418), nella quale venne sancita la nullità per violazione del divieto di patti successori dell'atto di divisione avente ad oggetto anche un bene di proprietà di una persona vivente (il genitore superstite), qualora fosse considerato come entità di una futura successione. Si tratterebbe, con evidenza, di un patto successorio dispositivo, perchè i condividenti, con l'atto di divisione, in realtà hanno disposto di diritti che auspicano gli spetteranno su una futura successione non ancora aperta. Ipotesi di sanatoria del vizio o di sua estensione a convenzione successive
La Corte, proseguendo nella sua analisi, esclude che vi sia possibilità di una "sanatoria" di tale vizio attraverso l'adesione del genitore. In data di poco successiva al patto de quo, ossia il 18 aprile 1983, il genitore si era risolto a vendere ai due figli proprio il bene oggetto della precedente pattuizione. Tale contratto, pur se consapevolmente convenuto per consentire ai figli di dare attuazione alla scrittura del 13 aprile 1983, non è utile a mutare la natura invalida di quest'ultimo. Come osservato in dottrina (L. Ferri, Disposizioni Generali sulla Successione, Bologna, 1997) il patto dispositivo rimane nullo anche in caso di adesione del genitore: in tal caso le cause di nullità si moltiplicherebbero, venendosi ad innestare un patto successorio istitutivo nell'ambito di un patto dispositivo. Interessante, anche se non vagliata nella pronuncia, in quanto motivo di impugnazione inammissibile, la contraria possibilità, ossia quella di considerare il collegamento fra le due convenzioni suddette, non salvifico per la prima delle due, ma addirittura viziante per la seconda. La compravendita, ad avviso dei ricorrenti, non solo non sarebbe valsa a rendere valido il patto pregresso, ma sarebbe stata a sua volta tacciabile di nullità, facendosi leva sul disposto dell'art. 1419 c.c., in quanto atto posto in essere in connessione funzionale essenziale con il patto successorio vietato. Anche in questo caso, per risolvere positivamente la questione, sarebbe stato necessario indagare la concreta volontà del genitore, ossia comprendere se questi avrebbe comunque posto in essere la compravendita, in mancanza del patto pregresso, o se la sua volontà fosse dettata esclusivamente dal fine di facilitare ai figli l'esecuzione del citato patto. In questo secondo caso si sarebbe potuto cercare di capire se il genitore avrebbe comunque voluto disporre del bene a mezzo compravendita anche se avesse saputo della nullità della precedente scrittura. Sul punto si rinviene anche un precedente giurisprudenziale (Cass. civ., 22 luglio 1971, n. 2404) che apre la strada all'applicazione del principio di nullità parziale di cui all'art. 1419 c.c. e cioè il principio utile per inutile non vitiatur, in base al quale la nullità del patto successorio non determina la nullità di tutto il contratto nel quale è inserito, ove non risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella clausola, confermando per converso la sanzione di nullità in caso contrario. Punto focale della sentenza attiene ai criteri per l'individuazione dei patti vietati. La Corte procede ad una chiara e valida ricognizione degli stessi (adattando al caso di specie quanto già proposto nella citata Cass. civ., sez. II, 16 febbraio 1995, n. 1683). Nelle convenzioni ricadenti nel novero dell'art. 458 c.c. occorre essenzialmente ravvisare:
1) che vi sia un vincolo giuridico che abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta;
2) che la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dalle parti come entità comprese nella futura successione. Facendo leva su tale principio, la Corte, in altre occasioni, (Cass. civ., 22 luglio 1971, n. 2404; Cass. civ., 24 ottobre 1978, n. 4801; Cass. civ., 9 luglio 1976, n. 2619; Cass. civ., 22 febbraio 1974, n. 527; Cass. civ., 18 aprile 1968, n. 1165) ha escluso l'esistenza di un patto successorio, quando l'oggetto dell'atto non era stato considerato dalle parti come entità di una futura successione, ma come autentica e genuina cosa altrui ai sensi dell'art. 1478 c.c.. In particolare venne presa in considerazione (Cass. civ., 3 giugno 1977, n. 2261) l'ipotesi di una vendita compiuta erroneamente quale cosa di terzo, nella convinzione che si trattasse di cosa propria, e dunque in uno stato soggettivo di buona fede dei contraenti; né si poté, nel caso di specie, ravvisare la comune intenzione della parti di conseguire in futuro il bene a titolo di successione. Resta inteso, in ogni caso, che spetta alla giurisdizione di merito stabilire se, in caso di vendita di quota di bene indiviso, appartenente al genitore vivente, possa individuarsi in concreto un patto successorio vietato ovvero una vendita di cosa altrui. Anche in dottrina (M. Ieva, Fenomeni a rilevanza successoria, Napoli, 2008) sono state lette alcune ipotesi negoziali di vendita di cosa altrui alla luce del divieto di patti successori dispositivi, procedendo ad una valutazione casistica per ogni singola fattispecie. Dal criterio sub 2) discende anche il corollario, elaborato in dottrina, secondo cui, quando la convenzione ha ad oggetto l'id quod superest, ossia quanto residuerà nel patrimonio del disponente al momento del suo decesso, è possibile ravvisare un patto successorio vietato;
3) che i disponenti abbiano contrattato o stipulato come aventi diritto alla successione stessa. Anche in questo caso, a supporto di tale criterio ricostruttivo, si è sostenuto che altro elemento utile per l'individuazione di un patto successorio vietato sia l'assenza di "attualità dello spoglio". Allorquando si verifichi un'attribuzione attuale, ossia con immediata produzione di effetti, mancherebbero i presupposti del patto successorio vietato, mentre sussisterebbero in caso di attribuzione in funzione di una futura successione. È questa la ragione per la quale in tema di "patto di famiglia" di cui agli art. 768-bis e ss. c.c., la dottrina (C. Di Bitonto, Patto di famiglia: un nuovo strumento per la trasmissione dei beni d'impresa, in Le società, 2006; F. Magliulo, L'apertura della successione: imputazione, collazione e riduzione, in Patti di famiglia per l'impresa, Quaderni della fondazione Italiana per il notariato, Torino, 2006) osserva che tale istituto non configurerebbe giammai una deroga al divieto di patti successori istitutivi, stante l'attualità del trasferimento dell'azienda o delle quote sociali. Al più potrebbe concretarsi una deroga al divieto di patti dispositivi o rinunziativi, nella parte in cui viene consentita la liquidazione da parte del legittimario assegnatario a favore dei legittimari non assegnatari che, secondo un orientamento, conseguendola non farebbero altro che disporre di diritti che potrebbero loro spettare solo all'apertura della successione del titolare dell'azienda (in tal senso A. Bolano, I patti successori e l'impresa alla luce di una recente proposta di legge, in I contratti, 2006; G. Petrelli, La nuova disciplina del "patto di famiglia", in Riv. Not., 2006). Tornando al caso di specie, è interessante notare che il trasferimento del bene oggetto di convenzione è avvenuto pochi giorni dopo il patto tacciato di nullità. Vi è stato prima l'accordo su modalità e tempistiche della divisione e solo successivamente il trasferimento dell'immobile dal genitore ai figli. Come già approfondito, tale trasferimento non è valso a sanare il patto: l'attualità dello spoglio era senza dubbio mancante alla data del 13 aprile 1983, essendoci stata un'inversione logica, oltre che cronologica, dell'ordine naturale delle convenzioni;
4) che l'assetto negoziale convenuto debba aver luogo mortis causa. Da non trascurare, a supporto di tale criterio ricostruttivo, anche l'ulteriore indice utile per l'individuazione ( non sempre agevole ) di un patto successorio, ossia il fatto che la morte del soggetto interessato si configuri come causa del patto e non come mera occasione. In sostanza l'atto a causa di morte è soltanto quello che sia diretto a disciplinare rapporti giuridici che vengono a formarsi in via originaria con la morte del soggetto o che dalla sua morte traggono comunque una loro autonoma qualificazione; con tali patti si intende regolare i rapporti o situazioni dell'interessato, patrimoniali e non, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di maniera tale che nessun effetto prodromico o preliminare si potrà mai produrre prima dell'evento morte (Codice delle Successioni e Donazioni, M. Sesta (a cura di), Giuffrè, 2011; G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, Napoli, 1954; M. Ieva, Fenomeni a rilevanza successoria, Napoli, 2008). La Corte fa altresì leva anche sull'interpretazione della volontà delle parti, avvalendosi di uno dei principali criteri interpretativi soggettivi offerti dal legislatore all'art. 1362 c.c., ossia la comune intenzione delle parti, a prescindere dal tenore letterale delle parole. Le parti infatti avrebbero avuto quale unica intenzione quella di disporre di un bene che alla data del contratto era ancora di proprietà del genitore, disciplinando modalità e termini della futura divisione ereditaria, e dunque agendo nell'intento di disporre, quali unici eredi, di un bene di loro futura spettanza. Risulta inevitabile, a questo punto, che la ricostruzione logica della Suprema Corte porti all'applicazione della sanzione di cui all'art. 458 c.c., nella misura in cui si riconosce nella comune intenzione dei contraenti la volontà di disporre di diritti che agli stessi non potrebbero che spettare se non sulla successione del padre, ossia su una successione ancora non aperta. Altrettanto inevitabile, valutando la comune intenzione delle parti, ritenere parimenti la seconda pattuizione un patto successorio dispositivo obbligatorio, in quanto, nel vincolarsi a non dividere i beni fino al consolidamento dell'usufrutto, le parti hanno avuto nella loro comune intenzione quella di regolamentare beni facenti parte di una futura massa ereditaria. Essi infatti intendono trattare il bene non come proprio, bensì come attualmente altrui, e del quale aspirano a divenire proprietari solo in futuro, come potenziali coeredi. La sanzione e le conseguenze
Venendo in rilievo un'ipotesi di nullità, ne viene applicata di conseguenza l'intera disciplina: sulla legittimazione ad agire (art. 1421 c.c.), sulla prescrizione dell'azione (art. 1422 c.c.) nonché sul divieto di convalida di contratti nulli (art. 1423 c.c.). Rimane da escludersi invece la convalida, giacché consentita solo per i contratti annullabili. Come non parrebbero esservi gli estremi per sanare il patto a seguito dell'adesione del genitore (come già accennato), così non potrebbe nemmeno esservi una conversione ai sensi dell'art. 1424 c.c.. In tal senso Cass.civ., sez. II, 19 novembre 2009, n. 24450, la quale illustra, pur se in un caso diverso, come il patto successorio sia in contrasto non solo con una norma imperativa ma anche con i principi fondamentali di ordine pubblico del nostro ordinamento. Ne consegue che trattasi di pattuizione non suscettibile di conversione in testamento (che nel caso di specie, ove sottoscritto dal genitore, avrebbe ipoteticamente potuto contenere una disposizione sul differimento della divisione ereditaria ai sensi dell'art. 713 c.c.). Se si consentisse la conversione si svuoterebbe di contenuti il divieto e si realizzerebbe proprio il fine che l'ordinamento intende vietare, ossia vincolare le parti al rispetto del vinculum iuris assunto con terzi, ed inerente l'altrui successione. Sul punto però si segnala come, parte della dottrina, abbia rilevato che il divieto in discussione non abbia valenza costituzionale, non venendo citato in alcuna disposizione della Carta Fondamentale, ma soltanto da una normativa di rango ordinario (P. Rescigno, Trattato breve delle successioni e donazioni, Ancona, 2010). Ciò però non dovrebbe inficiare le conclusioni sopra esposte in quanto la conversione rimane preclusa anche quando la nullità dipenda da contrasto con una norma imperativa, quale dovrebbe essere l'art. 458 c.c. (in tal senso anche Cass. civ., 14 luglio 1983, n. 4827). Infine non pare potersi dubitare che il notaio che stipuli un patto successorio contravvenga al divieto, di cui all'art. 28, l. n. 89/1913, di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge, non potendosi dubitare che detto patto rientri fra gli atti espressamente vietati, come anche agevolmente desumibile dalla rubrica dell'art. 458 c.c.. Conclusioni
La pronuncia in commento consente di effettuare una riflessione anche sull'ancora attuale rispondenza della normativa in parola alle esigenze della moderna società. Da tempo ormai la dottrina ha approfondito lo studio dei modi alternativi di regolamento della vicenda successoria, manifestando l'esigenza di regolare il fenomeno successorio con strumenti diversi rispetto a quello appositamente predisposto dal legislatore, quale è il testamento (Codice delle Successioni e Donazioni, M. Sesta -a cura di-, Giuffrè, 2011; A. Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983; P. Rescigno, Attualità e destino del divieto di patti successori. La trasmissione familiare della ricchezza, Padova, 1995). Da una parte la giurisprudenza di merito, (Trib. Napoli, sez. VI, 30 giugno 2009, in tema di accordi non vincolanti per il disponente; Trib. Torino ,sez. II, 26 febbraio 2009, in tema di patto di accrescimento stipulato fra conviventi more-uxorio; Trib. Terni, 13 Settembre 2007, n. 712, in tema di testamenti olografi redatti sul medesimo foglio uso bollo e, da ultimo, l'innovativo decreto di Trib. Torino, 26 settembre 2014, n. 2298, in materia di rinuncia all'azione di restituzione perfezionata dal legittimario quando ancora viva il donante) propende verso una restrizione dell'ambito applicativo del divieto di patti successori, dall'altra il legislatore ha introdotto alcuni istituti che permettono una lettura di più ampio respiro (fra tutti l'introduzione del citato istituto del patto di famiglia, di cui agli artt. 768-bis e ss. c.c., ma anche la possibilità di rinunciare all'opposizione alla donazione durante la vita del donante, di cui all'art. 563 c.c.). Ciò nonostante, pur non dovendo dimenticare l'importanza di una interpretazione evolutiva del diritto, che consenta un puntuale adeguamento alle mutate istanze sociali, rimane da rimarcare che, dopo tutto, il legislatore ha scelto sinora di mantenere il divieto di patti successori nel nostro ordinamento e di non perseguire l'opposta via del BGB tedesco (Il par. 1941 BGB consente infatti al disponente -Erblasse-, di ricorrere al contratto -l'Erbvertrag -, sia per istituire eredi -Erbeinsetzung-, che per disporre legati -Vermächtnisse-, che per imporre oneri -Auflagen- , mentre il secondo comma precisa che in tal modo è consentito designare erede o legatario sia la controparte sia un terzo). In tal modo, la scelta del legislatore di perseverare nell'opinione tradizionale che ricusa la delazione di matrice contrattuale, e dunque esclude dalla materia successoria altri strumenti dell'autonomia negoziale in astratto possibili (P. Rescigno, Op. Cit.), appare ancora ferma e chiara, e, probabilmente, utile alla Suprema Corte per la propria attività ermeneutica. |