La misura di sicurezza dell'espulsione dello straniero richiedente “protezione internazionale”

22 Dicembre 2017

L'espulsione e il respingimento dello straniero per motivi di ordine e di sicurezza pubblica è applicabile al soggetto che corra il serio rischio, una volta ricondotto nel proprio Paese di origine, di essere sottoposto a pena di morte, alla tortura od altre pene o trattamenti inumani o degradanti?
Massima

In sede di apprezzamento della domanda di revoca o di ineseguibilità in via anticipata della misura di sicurezza dell'espulsione, il magistrato e il tribunale di Sorveglianza sono tenuti a esaminare i profili in fatto e in diritto introdotti dalla parte, risolvendo, ove necessario, e in via incidentale ogni questione in tema di sussistenza dei presupposti per l'ammissione allo status di rifugiato o di persone avente titolo alla protezione sussidiaria.

La disposizione di cui all'art. 20 del d.lgs 251/2007, in tema di protezione dell'espulsione, nella parte in cui consente di procedere al respingimento per motivi di ordine e sicurezza interna non è applicabile alle ipotesi in cui il soggetto istante corra, ove ricondotto nel Paese di origine, serio rischio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.

Il caso

Il 15 novembre 2016 il tribunale di sorveglianza di Venezia rigettava l'appello proposto da un cittadino nigeriano avverso il diniego della revoca anticipata della misura di sicurezza dell'espulsione dal territorio dello Stato disposta ai sensi dell'art. 86 del T.U. stupefacenti.

Lo straniero detenuto stava espiando una condanna complessiva di anni sei e mesi otto di reclusione per violazione della disciplina degli stupefacenti e per altri reati, con fine pena al 21 gennaio 2018.

La domanda di revoca della misura di sicurezza dell'espulsione avanzata in prima istanza al magistrato di sorveglianza si basava sul fatto che il cittadino nigeriano avrebbe avuto diritto alla protezione sussidiaria, per come disciplinato dal decreto legislativo 251/2007 ma tale istanza non veniva valutata in virtù del “non prossimo” fine pena.

Il tribunale di sorveglianza, nella qualità di giudice d'appello, rilevava che la domanda del detenuto, intesa a ottenere la protezione sussidiaria, poteva, invece, trovare accoglimento ma doveva essere presentata nelle forme ordinarie non ravvisando l'interesse a ottenere un immediato accertamento della condizione ostativa all'espulsione in quanto l'unica conseguenza poteva essere quella di un trattenimento presso il Cie (Centro di identificazione ed espulsione) dello straniero.

Avverso l'ordinanza di rigetto del tribunale di Sorveglianza, il detenuto proponeva ricorso in cassazione per erronea violazione delle norme regolatrici e per vizio di motivazione.

La questione

L'espulsione e il respingimento dello straniero per motivi di ordine e di sicurezza pubblica è applicabile al soggetto che corra il serio rischio, una volta ricondotto nel proprio Paese di origine, di essere sottoposto a pena di morte, alla tortura od altre pene o trattamenti inumani o degradanti?

Le soluzioni giuridiche

L'art. 86, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 (T.U. Stupefacenti) prevede che lo straniero condannato per uno dei reati previsti dagli articoli 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, d.P.R. 309/1990 a pena espiata deve essere espulso dallo Stato.

Dalla prima lettura della norma sembrerebbe che la misura di sicurezza in questione ha natura obbligatoria per i fatti di reato in materia di stupefacenti sopra indicati.

Come però precisato in più occasioni dalla giurisprudenza (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2013n. 12741 e Cass. pen.,Sez. VI, 12 giugno 2006, n. 34438, Mahboubi e altro), in tema di misure di sicurezza, qualora lo straniero sia condannato per reati di spaccio di sostanze stupefacenti, il giudice di merito ha il dovere di accertare in concreto – non sussistendo a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 58 del 1995 la presunzione assoluta di pericolosità – la sussistenza della pericolosità sociale del condannato per i suddetti reati e, alla stregua di tale accertamento, compiuto alla luce degli elementi indicati dall'art. 133 c.p. e congruamente motivato, deliberare l'applicabilità o meno dell'ordine di espulsione dello straniero dallo Stato.

Fatta tale premessa, la prima questione affrontata dalla Corte, nella motivazione della sentenza in esame, è quella relativa al profilo della rivedibilità anticipata della misura di sicurezza personale dell'espulsione.

La risposta al primo quesito è stata: «la non prossimità del fine pena del soggetto istante non è una ragione giustificatrice del diniego alla rivedibilità della misura di sicurezza dell'espulsione».

Infatti, secondo giurisprudenza consolidata, è pacifica la rivedibilità su istanza di parte, durante la fase di espiazione della pena anche con riferimento alla misura dell'espulsione (Cass. pen., Sez. I, 29 settembre 1986, Ric. Sattar).

La Corte ritiene, altresì “fallace”, l'altra questione esposta dal tribunale di sorveglianza, relativa all'interesse del detenuto intesa a ottenere un accertamento immediato e incidentale della condizione soggettiva (nello specifico della protezione sussidiaria) da risultare ostativa all'espulsione.

In particolare, il giudice di legittimità si sofferma sul compito e sulle attribuzioni del tribunale di sorveglianza, in virtù delle norme che lo disciplinano (artt. 678 e 679 c.p.p. e art. 69, commi 3, e 4 ord. penit.) nonché sulle norme generali delle regole sulla cognizione del giudice penale che risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito (art. 2 c.p.p.).

Non ritenendo, pertanto, valido il motivo di diniego in sede di merito alla deliberazione della domanda del detenuto intesa ad accertare la c.d. protezione sussidiaria.

La motivazione della sentenza, che qui si commenta, merita particolare attenzione non solo per i princìpi affermati ma, anche, perché ha il pregio di soffermarsi sulla delicata e “confusionaria” materia della protezione internazionale e sul collegato tema del divieto di respingimento in modo sintetico ma chiaro e dettagliato.

In particolare, la Corte elenca, se non tutte, le principali disposizioni sovranazionali sul divieto di respingimento: dall'art. 3 della Convenzione europea del 1950, al diritto dell'Unione europea e in particolare all'art. 19, comma 2, della Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

In tutte le norme elencate è previsto il noto principio che nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte alla tortura od altre pene che comportino trattamenti inumani o degradanti.

Oltre all'aspetto sovranazionale, il giudice di legittimità si sofferma sul tema oggetto del suo esame, ossia alle condizioni di accesso alla protezione sussidiaria, realizzando una sintesi storica e giuridica che parte dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 sullo status dei rifugiati e arriva alla recente legge 110/2017 che ha (finalmente) introdotto, nell'ordinamento italiano il delitto di tortura.

Il diritto comunitario disciplina lo status di beneficiario di protezione sussidiaria nella direttiva qualifiche, quale livello complementare e subordinato di protezione internazionale ulteriore rispetto allo status di rifugiato.

Pertanto, l'analisi sui presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria deve avvenire sempre dopo la valutazione sulla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

È persona ammissibile alla protezione sussidiaria il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine […] correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese.

Il divieto di espulsione è stato recepito, a livello nazionale, dall'art.19, comma 1, d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, ai sensi del quale «in nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione».

Nella pronuncia in esame, la Corte ha rilevato che l'art. 19 «al momento della presente decisione non conteneva riferimento alcuno alle condizioni legittimanti l'accesso alla protezione sussidiaria, ma soltanto a quelle relative all'ottenimento dello status di rifugiato».

L'art. 3 comma 1, lett. a),della legge 110/2017 sul delitto di tortura ha introdotto nell'art. 19 T.U. immigrazione, il comma 1.1. che espressamente prevede l'inammissibilità del respingimento, o espulsione ovvero estradizione, di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si dovrà tener conto dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani.

Ma la novella legislativa entrata in vigore durante la stesura della motivazione non poteva essere oggetto d'esame da parte dei giudici di legittimità.

È invece l'art. 20 del d.lgs. 251 del 2007 (Attuazione della direttiva 2004/83/Ce recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi Terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale) che trova applicazione nel caso in esame (sul punto del divieto di respingimento).

La norma prevede che, fermo il divieto di espulsione dell'art. 19 del T.U. immigrazione e in conformità degli obblighi internazionali ratificati dall'Italia, il rifugiato o lo straniero ammesso alla protezione sussidiaria è espulso quando: a) rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato; b) rappresenti un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per un reato per il quale è prevista la reclusione non inferiore nel minimo a quattro anni e nel massimo a dieci anni.

A tal riguardo la Corte ritiene che tra gli obblighi internazionali vi sia quello di non procedere in senso assoluto alla espulsione del soggetto che si trovi nella condizione descritta dall'art. 19 della Carte di Nizza e, in tal senso, deve essere orientata la lettura dell'art. 20 del D.Lgs. 251/2007.

Osservazioni

Già nel 1996 nel caso Chahal (Cedu, sent. 15 novembre 1996, Chahal c. Regno Unito) la Corte europea stabiliva che l'esecuzione di provvedimenti di espulsione o comunque di trasferimento forzoso verso un determinato Paese (nella specie, la Tunisia) integri la violazione dell'art. 3 Cedu.

Tali princìpi trovavano applicazione anche nell'ordinamento interno e la Cassazione con la sentenza n. 20514/2010 (citata come precedente nel caso in esame) prevedeva che è compito di ogni organo giurisdizionale nazionale, competente a deliberare decisioni che comportano trasferimenti di persone verso quel Paese, individuare e adottare, in caso di ritenuta pericolosità della persona, un'appropriata misura di sicurezza, diversa dall'espulsione e ciò fino a quando sopravvengano fatti innovativi idonei a mutare la suddetta situazione di allarme.

Nella sentenza in esame, la Corte ha annullato l'ordinanza impugnata, rinviando per un nuovo esame al tribunale di sorveglianza che avrà il compito di attenersi ai princìpi di diritto enunciati dalla Cassazione e valutare anche la questione sulla sussistenza dei presupposti per l'ammissione allo status di rifugiato o di persona avente diritto alla protezione sussidiaria, materia particolarmente delicata, per la quale, come noto, nel nostro ordinamento operano le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, composti da soggetti esperti, che hanno il compito di concedere o meno la tutela.

Lo scrivente, invece, concorda con quanto stabilito dal tribunale di sorveglianza di Venezia nella parte in cui riteneva che la domanda di protezione sussidiaria andava fatta nella forma ordinaria in quanto il detenuto aveva un interesse carente a ottenere un accertamento immediato e incidentale della condizione ostativa, posto che l'unica conseguenza sarebbe stata di trattenimento presso il Cie.

La pronuncia in esame, se da una parte ha il merito di far verificare il rispetto dell'art. 3 della Convenzione Edu, dall'altra potrebbe gravare ulteriormente le competenze e la materia del giudice di sorveglianza, e si potrebbe correre, inoltre, il rischio che i destinatari della misura di sicurezza dell'espulsione “abusino” dell'istituto della protezione internazionale laddove si presentassero domande che abbiano il solo fine di far ritardare l'espulsione dallo Stato di soggetti pericolosi che nel proprio paese di origine non correrebbero nessun rischio di tortura o di trattenimenti inumani o degradanti.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.