La corruzione in appalto è un reato in contratto: la confisca coinvolge solo il profitto derivante dall'attività illecita

Ciro Santoriello
05 Gennaio 2018

Nel caso in cui l'illecito sia commesso nell'ambito di un'attività d'impresa lecita, il provvedimento ablatorio deve essere circoscritto ...
Massima

Nel caso in cui l'illecito sia stato commesso nell'ambito di un'attività d'impresa lecita, il provvedimento ablatorio deve essere circoscritto al vantaggio economico tratto dall'attività illecita al netto della utilitas comunque conseguita dalla controparte dall'adempimento della prestazione oggetto del contratto, trattandosi – riguardo a quest'ultima – di vantaggio economico non direttamente né immediatamente riconducibile al reato ma soltanto all'esecuzione del rapporto obbligatorio, che, pertanto, non può andare a comporre il profitto confiscabile.

Il caso

In un procedimento penale, inerente fatti di corruzione diretti all'acquisizione da parte di un'impresa di un appalto pubblico, nei confronti della società coinvolta veniva applicato un provvedimento di confisca ai sensi del combinato disposto dell'art. 63 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 in relazione agli illeciti amministrativi derivanti dai reati di associazione per delinquere e corruzione di cui agli artt. 5, comma 1, lett. a), 10, 21, 24-ter, comma 2, 25, comma 3, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Allo scopo il giudice determinava il profitto da sottoporre a confisca ex art. 19 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in 146.751,02 euro, richiamando il calcolo operato in occasione dell'adozione del sequestro preventivo, rideterminando il valore sottraendo a quello originariamente fissato il valore delle prestazioni fornite dalla società alla pubblica amministrazione nonché i costi sopportati dalla società in relazione al prezzo di due macchinari noleggiati ed a spese generali oggetto di due fatture.

Avverso il provvedimento veniva presentato ricorso per cassazione, contestandosi non l'an bensì il quantum del profitto del reato confiscato, contestandosi che il giudice non aveva considerato che, ai fini della commisurazione del profitto tratto dall'ente, avrebbero dovuto essere detratte una serie di spese sostenute e quindi che il profitto avrebbe dovuto essere determinato al "netto", escludendo qualunque spesa legittimamente sostenuta, inclusi gli oneri fiscali.

La questione

Il tema della determinazione del profitto confiscabile nei confronti di società coinvolte in fatti di corruzione è da tempo all'attenzione della giurisprudenza, anche se può dirsi che la Cassazione ha ormai trovato una soluzione definitiva al problema.

La decisione più rilevante è rappresentata dalla sentenza Cass. pen., Sez. unite, 27 marzo 2008, n. 26654 (nello stesso senso, in seguito Cass. pen., Sez. VI, 17 giugno 2010, n. 35748; Cass., sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 9988), secondo cui, nel delineare il profitto (che va inteso come vantaggio di natura economica, come beneficio aggiunto di natura patrimoniale, come utile conseguito dall'autore del reato in seguito alla commissione del reato: Cass. pen., Sez. unite, 24 maggio 2004, n. 29951; Cass. pen., Sez. unite, 25 ottobre 2005, n. 41936) confiscabile non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico, in quanto, nell'assolvere una funzione di deterrenza, la confisca risponde ad esigenze di giustizia e nel contempo di prevenzione generale e speciale, non potendosi ammettere che il crimine possa rappresentare un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto sul bene e che il reo possa rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato.

Alla luce di queste considerazioni, la Cassazione traccia un netto discrimen fra profitto conseguente da un reato contratto e profitto derivante da un reato in contratto. Nel primo caso – in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione – si determina un'immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest'ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità (si immagini la cessione di una dose di stupefacente), con l'effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca; nel secondo caso – in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale – è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c. (come caso in cui l'illecito si inserisca nella fase della negoziazione e stipula di un contratto sinallagmatico, cui l'ente abbia poi dato regolare e lecita esecuzione, come nei casi di truffa in danno dello Stato o di corruzione, fonte di responsabilità per l'ente rispettivamente ex artt. 24 e 25 d.lgs. 231/2001), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall'agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.

Le Sezioni unite hanno quindi chiarito come, ferma l'assoggettabilità a confisca dell'intero vantaggio patrimoniale conseguito dai reati contratto, nelle ipotesi di reato in contratto è necessario distinguere il vantaggio economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) dal corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell'ambito di un affare che trova la sua genesi nell'illecito (profitto non confiscabile): in particolare, il profitto deve essere «concretamente determinato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente», evidenziando come lo stesso art. 19 d.lgs. 231/2001 impedisca l'assoggettamento a confisca della parte del profitto che può essere restituita al danneggiato.

La tesi giurisprudenziale, dunque, è ormai da tempo nel senso che l'area del profitto assoggettabile a confisca ha un'ampiezza diversa a seconda della fattispecie costituente reato presupposto. Nel caso in cui l'attività illegale non comporti lo svolgimento di nessuna controprestazione lecita, il profitto confiscabile non potrà che identificarsi con l'intero valore del negozio, in quanto integralmente frutto di un'attività illegale, facendo difetto qualunque costo scorporabile, perché intrinsecamente illecito o comunque concernente attività strumentali e/o correlative rispetto al reato presupposto. Diversamente, nel caso di truffa o di corruzione finalizzata ad ottenere l'aggiudicazione di una commessa ovvero a conseguire, nell'ambito di un rapporto negoziale a prestazioni corrispettive, un corrispettivo più elevato di quello dovuto (ad esempio in sede di remunerazione delle varianti in corso d'opera o di pagamento delle c.d. riserve), trattandosi di contratti validi inter partes e solo annullabili, il profitto dovrà essere commisurato alla differenza fra l'intero valore del contratto e l'utilità effettivamente conseguita dalla controparte (Cass. pen., Sez. VI, 26 marzo 2009, n. 17897, secondo cui in caso di appalto acquisito a seguito di corruzione, non può definirsi illecito e dunque confiscabile, il profitto conseguente da un'effettiva e corretta esecuzione delle prestazioni svolte in favore della controparte, pur in virtù di un contratto instaurato illegalmente: il profitto confiscabile non va identificato con l'intero valore del rapporto sinallagmatico instaurato con la P.A., dovendosi in proposito distinguere il profitto direttamente derivato dall'illecito penale dal corrispettivo conseguito per l'effettiva e corretta erogazione delle prestazioni svolte in favore della stessa amministrazione, le quali non possono considerarsi automaticamente illecite in ragione dell'illiceità della causa remota).

In sostanza, soltanto rispetto alla differenza fra l'intero valore del contratto e il valore della prestazione effettivamente svolta a vantaggio della controparte è possibile affermare che l'ente abbia tratto un'utilità economicamente valutabile quale frutto immediato e diretto dell'illecito, là dove la seconda voce – cioè il corrispettivo percepito dall'ente in stretta correlazione alla prestazione eseguita – rappresenta un vantaggio economico conseguenza di un'attività lecita e non trova in effetti la sua causa nel reato. Se il profitto si sostanzia nel beneficio aggiunto di natura patrimoniale tratto dalla condotta illecita, esso non può che essere pari all'intero prezzo pattuito della commessa, cioè al valore totale fatturato del contratto, al netto del valore della prestazione effettivamente garantita alla controparte, di tal che, in caso di esecuzione solo parziale o in parte non conforme a quanto convenuto o comunque non utile, si dovrà detrarre soltanto il corrispettivo pro quota o comunque stimato equo per la prestazione eseguita.

In conclusione, secondo la Cassazione, nel caso in cui il reato presupposto sia riconducibile ad un'ipotesi di c.d. reato in contratto, il profitto assoggettabile a sequestro preventivo finalizzato alla confisca dovrà, dunque, essere determinato tenendo in considerazione un duplice criterio: da un lato, potranno essere assoggettati ad ablazione tutti i vantaggi di natura economico patrimoniale che costituiscano diretta derivazione causale dell'illecito (c.d. concezione causale del profitto), di tal che la confisca potrà interessare esclusivamente l'effettivo incremento del patrimonio conseguito dall'agire illegale; dall'altro lato, non potranno essere aggrediti i "vantaggi" eventualmente conseguiti in conseguenza di prestazioni lecite effettivamente svolte a favore del contraente nell'ambito del rapporto sinallagmatico, cioè pari alla utilitas di cui si sia giovata la controparte, per cui dal prezzo indicato nel contratto (dunque al "lordo") dovranno essere defalcate le somme riscosse dall'ente pari alla "effettiva utilità conseguita dal danneggiato", id est al valore della prestazione di cui la controparte si sia effettivamente avvantaggiata in esecuzione di un contratto sinallagmatico.

La soluzione giuridica

La sentenza citata ribadisce la validità delle affermazioni rese dalle Sezioni unite nel 2008 ma al contempo formula una serie di utili precisazioni.

Sotto il primo aspetto viene ribadito che nell'ambito dei cosiddetti reato in contratto il profitto assoggettabile a sequestro preventivo finalizzato alla confisca deve essere determinato tenendo in considerazione un duplice criterio: da un lato, potranno essere assoggettati ad ablazione tutti i vantaggi di natura economico patrimoniale che costituiscano diretta derivazione causale dell'illecito (c.d. concezione causale del profitto), di tal che la confisca potrà interessare esclusivamente l'effettivo incremento del patrimonio conseguito dall'agire illegale; dall'altro lato, non potranno essere aggrediti i "vantaggi" eventualmente conseguiti in conseguenza di prestazioni lecite effettivamente svolte a favore del contraente nell'ambito del rapporto sinallagmatico, cioè pari alla utilitas di cui si sia giovata la controparte

Sotto altro profilo, però, la Cassazione – finalmente – si mostra consapevole di come il problema della risoluzione del problema attinente la definizione e determinazione dell'ammontare del profitto nei reati in contratto rimanga tuttora aperto in quanto la giurisprudenza in tema di distinzione fra reati-contratto e reati in contratto non fornisce elementi per guidare (nell'ambito della seconda categoria di illeciti) nell'attività di determinazione del valore della utilitas conseguita dalla controparte dalla esecuzione del contratto sinallagmatico, unica voce scomputabile dal complessivo valore del negozio e, quindi, sottratta all'ablazione.

Come sottolineato da più parti, è dubbio se tale utilità possa essere determinata avendo riguardo al prezzo della prestazione indicato nel contratto ovvero al valore di mercato di essa o ancora ai costi effettivamente sostenuti dall'impresa per dare esecuzione alla prestazione, ricostruibili sulla base della contabilità obbligatoria e dei bilanci oggetto di revisione contabile, ovvero dei costi medi delle imprese del medesimo settore per dare esecuzione a quella tipologia di prestazione (in proposito, sia consentito il rinvio a SANTORIELLO, Giurisprudenza commentata: la nozione di profitto del reato nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione ed i suoi riflessi in tema di confisca, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2008, 2; ID., La nozione di profitto confiscabile e la sorte dei beni immateriali, ivi, 2009, 4).

Nella sentenza in commento, la Corte di legittimità sceglie di prendere le mosse del suo ragionamento dalla considerazione che, nella commisurazione del valore della utilità conseguita dal danneggiato, non si può in alcun modo tenere conto del margine di guadagno per l'ente, dell'utile d'impresa che – almeno fisiologicamente – compone il corrispettivo pagato per la prestazione: tenuto conto della ratio dell'istituto, ispirata al principio secondo il quale crimen non lucrat, non è invero ammissibile che la persona giuridica chiamata a rispondere della responsabilità amministrativa possa trarre un qualunque vantaggio economico, un lucro, dall'agire illecito. Ne discende che l'utilitas non può essere commisurata al prezzo indicato nel contratto, in ipotesi viziato dall'attività illecita, né al valore di mercato della prestazione ivi prevista, in quanto di necessità inglobanti anche un margine di guadagno per l'ente, un utile d'impresa, un quid pluris rispetto al valore "nudo" della prestazione, che non può essere riconosciuto per le ragioni sopra esplicitate. E invero, solo impedendo che dal profitto confiscabile venga defalcato il margine di guadagno tratto dall'ente dalla commessa oggetto dell'illecito, è possibile evitare il "risultato paradossale" in evidente contrasto con la voluntas legis, secondo cui, in caso di esatto adempimento del contratto pur inquinato dall'illecito, potrebbe in concreto non configurarsi nessun profitto confiscabile, pur avendo l'ente tratto dall'attività illecita un vantaggio da un punto di vista economico, rappresentato appunto dall'utile di impresa.

Sulla scorta di tali premesse, si ritiene che il valore della prestazione svolta a vantaggio della controparte debba essere commisurato ai soli "costi vivi", concreti ed effettivi, che l'impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all'obbligazione contrattuale, non potendo computarsi nel valore della utilitas conseguita dalla controparte anche il margine di guadagno per l'ente esecutore (Cass. pen., Sez. VI, 5 novembre 2014, n. 53430; Cass. pen., Sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 9988). Inoltre, nel caso in cui l'esecuzione della prestazione sia parziale o in parte non conforme a quanto convenuto, secondo i giudici di legittimità dal valore complessivo del contratto potrà essere detratto soltanto il costo pro quota stimato equo per la prestazione in effetti eseguita e di cui la controparte si sia utilmente giovata.

Così ricostruito, il perimetro del profitto confiscabile viene dunque a comprendere esclusivamente il beneficio patrimoniale "netto" derivante dall'attività illecita e lascia fuori i vantaggi economici "netti" derivanti dall'esecuzione di un'attività di per sé lecita. Risulta di tutta evidenza come il profitto confiscabile non coincida con il "profitto netto" inteso in senso aziendalistico, là dove isola (e dunque assoggetta ad ablazione), nell'ambito dell'intero prezzo indicato nel contratto e versato dalla controparte, le somme percepite dall'agente che non siano giustificate dai costi concreti ed effettivamente sostenuti per dare esecuzione alla prestazione di cui la controparte si sia avvantaggiata: si tratta, dunque, di concetto estraneo all'utile d'impresa, costituendo - in linea con le indicazioni date dalle Sezioni unite - l'"utile netto" tratto dall'agente quale diretta ed immediata conseguenza dell'operazione criminale.

Osservazioni

Per certi aspetti, la decisione della Cassazione merita apprezzamento in quanto – come detto – cerca di dare concretezza a quella generica indicazione secondo cui dal profitto confiscabile andrebbe sottratto il valore delle utilità ricevute dalla controparte del contratto stipulato a seguito dell'attività corruttiva.

Ciò nonostante, nella decisione – o meglio nella giurisprudenza cui la stessa si richiama – c'è qualcosa che non convince. Si è detto che secondo la Cassazione va distinto il reato contratto, in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione, in relazione al quale il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, interamente assoggettabile a confisca, e reato in contratto, in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale, per il quale il corrispondente profitto tratto dall'agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.

Secondo la Cassazione, la corruzione finalizzata all'aggiudicazione di un appalto – tipica attività delittuosa posta in essere da un ente imprenditoriale – è un reato in contratto, con le conseguenze che ne derivano in ordine alla definizione del profitto da sottrarre all'ente, il cui importo va calcolato al netto della utilitas comunque conseguita dalla controparte dall'adempimento della prestazione oggetto del contratto, trattandosi – riguardo a quest'ultima – di vantaggio economico non direttamente né immediatamente riconducibile al reato ma soltanto all'esecuzione del rapporto obbligatorio, che, pertanto, non può andare a comporre il profitto confiscabile. Ma è corretta questa conclusione? Davvero è possibile parlare, rispetto alla corruzione, di un reato in contratto o non è forse la corruzione, in sé considerata, quale scambio di prestazione sinallagmatiche, un tipico reato contratto, con tutte le conseguenze che ne derivano per il tema che stiamo esaminando?

Detto altrimenti, ci pare che difficilmente con riferimento a un appalto ottenuto a mezzo di una corruzione possa sostenersi che l'illecito si colloca all'interno dell'effettuazione della prestazione contrattuale e non invece nello stesso accordo criminoso sulla base del quale viene aggiudicato l'appalto e francamente ci pare che sia proprio l'aggiudicazione dell'appalto – con tutto quelle che ne consegue in termini di ricavi ottenuti dall'ente corruttore – a rappresentare il profitto del delitto di corruzione.

Guida all'approfondimento

Sull'impossibilità di ricorrere a parametri aziendalistici per determinare il profitto confiscabile:

COMPAGNA, L'interpretazione della nozione nozione di profitto nella confisca per equivalente, in Dir. Pen. Proc., 2007, 1644;

EPIDENDIO, Cass., sez. un., 27 marzo 2008, Fisia Italimpianti s.a. ed altri, in Dir. Pen. Proc., 2008, 1267;

FORNARI, La confisca del profitto nei confronti dell'ente responsabile di corruzione: profili problematici, in Riv. Trim. dir. pen. ec., 2005, 83;

MUCCIARELLI, Le sanzioni interdittive temporanee nel d.lgs. n. 231/2001, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di DOLCINI – PALIERO, Milano 2006, III, 2509. I;

PELISSERO, La responsabilità degli enti, in ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Milano 2007, 898;

PISTORELLI, Il profitto oggetto di confisca ex art. 19 d.lgs. 231/2001 nell'interpretazione delle Sezioni unite della Cassazione, in Resp. Amm. Soc. Enti, 2008, 4, 150;

STICCHI, Strumenti di contrasto alla criminalità d'impresa e nozione di profitto confiscabile. Le indicazioni delle Sezioni Unite nel caso Impregilo, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2008, 4, 108.

In termini più sfumati, discutendosi di quali voci possono concorrere a formare il profitto, con riferimento ai diritti immateriali, il risparmio di spesa ed i diritti di credito:

GIAVAZZI, Commento all'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, in AA.VV., Responsabilità “penale” delle persone giuridiche, a cura di GIARDA –MANCUSO –SPANGHER –VARRASO, Milano 2007, 178;

LOTTINI, La nozione di profitto e la confisca per equivalente ex art. 322 ter, in Dir. Pen. Proc., 2008, 1300;

G. LUNGHINI, Profitto del reato: problematica individuazione delle spese deducibili, in Corr. Mer., 2008, 88;

PRETE, La confisca – sanzione: un difficile cammino, in Resp. Amm. Soc. Enti, 2007, 4, 110.

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