La responsabilità medica in una “equipe diacronica” e l'efficienza causale dell'errore da trasfusione

Maria Hilda Schettino
08 Gennaio 2018

Nel provvedimento in commento la Cassazione affronta tre questioni fondamentali: la prima concerne l'efficienza causale che si deve attribuire all'errore nella trasfusione di sangue rispetto all'evento consistito nel decesso del paziente; la seconda riguarda il criterio logico-giuridico che ...
Massima

L'errore nella trasfusione di sangue di gruppo diverso al paziente è un errore di gravità tale da dover essere considerato come dotato di «esclusiva forza propria nella determinazione dell'evento» anche rispetto ad un precedente errore medico, conseguendone che il processo causale innescato dalla consegna di sangue di un particolare gruppo destinato ad un paziente diverso dalla vittima è caratterizzato esclusivamente da errori che rappresentano lo sviluppo ulteriore dell'originario iter eziologico.

Il caso

Nella sentenza in commento la Sezione IV della Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla configurabilità o meno della responsabilità penale di una equipe di medici i quali, cooperando tra di loro con condotte indipendenti, avevano causato il decesso di un paziente per la somministrazione di una trasfusione di sangue diverso dal suo gruppo sanguigno.

Imputati nel processo penale quattro sanitari, un tecnico addetto al servizio di frasfusione, due medici in servizio presso il reparto di ortopedia e un medico anestesista-rianimatore, tutti chiamati a rispondere del reato di cui agli artt. 41, 110, 113, 589 c.p. per aver cagionato, mediante condotte indipendenti e/o in cooperazione colposa tra loro, la morte di un paziente a seguito di una reazione emolitica acuta post trasfusionale, dovuta alla trasfusione di due sacche di sangue non emocompatibili con il suo gruppo sanguigno e destinate ad un altro paziente.

In particolare, secondo l'impianto accusatorio, il processo causale era stato innescato nel momento in cui il tecnico aveva consegnato al reparto di ortopedia le due sacche ematiche di gruppo sanguigno diverso, omettendo di controllare l'esatta corrispondenza tra i dati anagrafici del paziente e i codici magnetici identificativi delle sacche a lui destinate e riportati sulla copia della richiesta consegnatagli dall'infermiere.

Processo causale che non era stato interrotto dai medici in quanto, il primo aveva omesso di controllare che il gruppo sanguigno del ricevente corrispondesse a quello delle sacche consegnate, il secondo aveva perpetrato l'errore disponendo la somministrazione di un'altra sacca ematica e il terzo, intervenuto per una consulenza in quanto il paziente versava in uno stato di crisi ipotensiva, non aveva approfondito le cause della crisi per la quale era stato chiesto il suo intervento.

La condanna in primo grado veniva confermata dalla Corte di appello, la quale aveva affermato che l'errore materiale in cui era incorso il tecnico era stato cronologicamente il primo della serie causale che aveva condotto al decesso del paziente, che egli aveva il dovere di controllare la corrispondenza tra i dati anagrafici del paziente e i codici magnetici identificativi delle sacche ematiche a questi destinate e che gravava sui medici una posizione di garanzia in virtù della quale avrebbero dovuto verificare tale corrispondenza e fare una diagnosi più approfondita sulle cause della crisi del paziente, poi, deceduto.

Avverso la sentenza della Corte di appello ricorrevano per Cassazione tutti e quattro gli imputati i quali contestavano, da un lato, l'equiparazione delle loro condotte senza diversificazione di ruoli, qualifiche e mansioni e, dall'altro, l'erronea applicazione dell'art. 41 c.p. (Concorso di cause) con riguardo all'interruzione del nesso di causalità.

La questione

Nel provvedimento in commento la Corte di cassazione si trova ad affrontare tre questioni fondamentali:

  • la prima concerne l'efficienza causale che si deve attribuire all'errore nella trasfusione di sangue rispetto all'evento consistito nel decesso del paziente;
  • la seconda riguarda il criterio logico-giuridico che il giudice di merito deve seguire per valutare l'efficienza causale di una condotta o di una omissione in un caso caratterizzato dall'intreccio di plurime condotte od omissioni;
  • la terza, infine, si incentra sul valore esimente o meno del principio di affidamento per i medici che operano in equipe o che cooperano tra di loro ma con condotte indipendenti e non contestuali.
Le soluzioni giuridiche

Come descritto in precedenza, l'ipotesi affrontata dalla Suprema Corte concerne il caso di un soggetto ricoverato in una struttura sanitaria e sottoposto alla trasfusione di due sacche di sangue non corrispondenti al suo gruppo sanguigno, che per effetto di ciò è deceduto.

Rispetto alla vicenda così ricostruita, è ben possibile isolare i quattro segmenti che sono stati ritenuti meritevoli di sanzione nei vari gradi di giudizio. All'uopo occorre innanzitutto ricordare come il meccanismo causale sia stato innescato da un errore del tecnico del servizio trasfusionale nel consegnare all'infermiere del reparto ove era ricoverata la persona offesa delle sacche di sangue diverse da quelle destinate alla vittima. La stessa veniva sottoposta in momenti differenti a due trasfusioni da due specialisti del reparto, anche loro condannati per non aver riscontrato lo scambio di sacche.

L'ultimo soggetto chiamato a rispondere del decesso è stato l'anestesista, reo di non aver individuato la causa dell'aggravarsi (e poi della morte del paziente) pur essendo stato chiamato quale consulente.

La soluzione fornita dalla Suprema Corte è nel senso di confermare la responsabilità di tutti i soggetti comunque intervenuti nell'iter trasfusionale che ha condotto alla morte del paziente, anche se per gli ultimi due sanitari è intervenuta la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

Il percorso argomentativo seguito dai giudici poggia sostanzialmente su tre premesse: con la prima è riconosciuta l'efficienza causale dell'errore nella trasfusione ritenuto un errore talmente grave da poter vincere un eventuale precedente errore medico; con la seconda si precisa come a fronte di un intreccio di condotte si debba valutare il rischio innescato da ciascuna condotta (o omissione) per saggiare l'eventuale presenza di fattori preponderanti o assorbenti; da ultimo, si rileva che, in caso di cause colpose indipendenti, chi lede un bene giuridico come la vita non può fare affidamento sull'intervento salvifico di terzi.

Ciò detto, nel confermare l'affermazione di responsabilità dei medici e del tecnico, la Corte specifica come anche il fatto illecito altrui, in applicazione dell'art. 41 c.p., non escluda in radice l'imputazione dell'evento rispetto a condotte precedenti se l'intervento del terzo non abbia soppiantato il rischio originario.

Nel caso in esame, quindi, l'imputazione non è esclusa poiché l'evento risultante dal fatto del terzo si colloca nel solco del rischio creato dal primo agente finendo per rappresentare una realizzazione sinergica del rischio medesimo.

D'altro canto, poi, i giudici confermano che in ogni caso la cooperazione tra più sanitari, anche se non si è estrinsecata in un intervento congiunto, deve tendere verso il fine comune della cura e della tutela del paziente.

In altri termini, ad avviso del Collegio, ogni medico deve osservare gli obblighi che derivano dalla convergenza di tutte le attività svolte dal gruppo verso l'unico e comune fine di tutelare la salute del paziente.

I giudici di legittimità sottolineano che la cooperazione tra i diversi medici e sanitari intervenuti a cura del paziente, anche se non svolta contestualmente, oltre al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, deve tendere all'osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune e unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al c.d. principio di equivalenza delle cause.

Osservazioni

La sentenza in commento, pur non presentandosi in termini innovativi rispetto alla ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, appare particolarmente rilevante per le tematiche affrontate che abbracciano tutte le problematiche che ruotano attorno all'accertamento del nesso di causalità nei reati omissivi impropri,con specifico riguardo ai casi di colpa professionale dei medici operanti in equipe.

Quello della causalità è un problema tanto dibattuto quanto controverso e che ancora oggi continua ad affaticare la dottrina e la giurisprudenza penalistica. Non appare pleonastico ribadire la rilevanza della questione, dal momento che il nesso causale tra la condotta e l'evento è una delle condizioni necessarie per l'attribuibilità di un fatto reato a un soggetto.

La ricerca dello stesso ha dunque la funzione di garantire dal rischio di responsabilità penale per fatto altrui, evitando cioè che qualcuno possa essere chiamato a rispondere di un fatto che non ha causato. Se ciò è vero, allora non sfuggirà come il nesso causale tra la condotta e l'evento sia requisito imprescindibile per soddisfare quel principio di personalità della responsabilità penale costituzionalmente garantito dall'art. 27 Cost.

Tanto premesso, deve ribadirsi come la letteratura in materia di nesso di causalità sia davvero sconfinata e pertanto qualsiasi pretesa di esaustività sarebbe del tutto vana, oltre ad esulare dalle finalità del presente contributo.

Vale peraltro la pena sottolineare che la tematica in analisi è ricorrente nelle ipotesi di responsabilità medica, anzi potremmo dire che proprio questo settore scientifico rappresenta un punto di osservazione privilegiato in materia. Basti solo pensare che la nota sentenza Franzese delle Sezioni unite della Cassazione (Cass. pen., Sez. unite, 11 settembre 2002, n. 30328) – punto fermo in tema di nesso causale – è stata resa proprio rispetto ad una ipotesi di colpa medica.

In termini generali deve premettersi che nella predetta materia è stata fondamentale l'opera di interpretazione e di razionalizzazione della giurisprudenza di legittimità.

Di talché, all'esito di un percorso che va dalla summenzionata pronuncia Franzese (Cass. pen., Sez. unite, 11 settembre 2002, n. 30328) alla sentenza resa nel caso Thyssenkrupp (Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343), la Suprema Corte ha tracciato delle vere e proprie linee guida a cui deve attenersi il giudice nell'accertamento del nesso causale nelle fattispecie omissive.

In particolare il giudice deve innanzitutto ricostruire l'evento per come si è verificato in concreto, per procedere successivamente al giudizio controfattuale innestando nel processo la condotta doverosa che non è stata posta in essere. In questa fase, facendo ricorso al sapere scientifico si deve verificare se nel caso in cui il soggetto avesse agito nel modo prescritto la condotta avrebbe evitato l'evento. Tuttavia – e questo rappresenta l'innovazione della pronuncia del 2014 – se è vero che l'accertamento può essere inficiato da eventuali incertezze della legge di copertura, in tal caso si può fare ricorso in chiave probatoria anche alla caratterizzazione del fatto storico.

In altri termini, secondo la migliore giurisprudenza di legittimità, «nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto» (Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343).

La motivazione della Corte sembra adeguarsi alle regole elaborate dal supremo organo di nomofilachia sia nella ricostruzione dell'evento, sia nella individuazione delle condotte omesse. Viceversa, ad avviso di chi scrive, qualche considerazione in più avrebbe senz'altro meritato il profilo relativo alla efficacia impeditiva dell'evento della condotta doverosa.

Uno sforzo in tal senso sarebbe stato invece necessario rispetto a condotte diverse e ben circoscritte nel tempo. Infatti, se ben si intende il dictum delle Sezioni unite, nell'eventualità che anche a fronte della realizzazione della condotta richiesta l'evento si sarebbe verificato, dovrebbe escludersi qualsiasi rilevanza della condotta stessa rispetto all'evento.

Meno problematica appare la soluzione fornita dalla Suprema Corte rispetto alla eventualità che una delle condotte successive avrebbe potuto escludere il nesso di causalità rispetto alle precedenti.

Da questo punto di vista, la disciplina è contenuta nell'art. 41 c.p., l'interpretazione di tale norma è stata da sempre molto problematica: se il primo comma, infatti, sancisce la rilevanza della teoria dell'equivalenza delle condizioni (ossia della condicio sine qua non), per contro il vero punctum dolens è rappresentato dall'interpretazione del capoverso.

Il secondo comma, da taluni invocato per escludere la teoria della equivalenza delle condizioni, sicuramente ne limita il rigore escludendo il rapporto di causalità a fronte di una causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l'evento.

A prescindere dalle critiche giustamente mosse ad un precetto dai tratti sibillini, in relazione alla vicenda che ci occupa occorre comprendere in concreto cosa si intenda per causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento.

Ebbene può ritenersi ormai pacifico che con tale locuzione non possa intendersi un processo completamente indipendente dalla condotta (c.d. serie causali autonome). Se così fosse, infatti, il risultato sarebbe una interpretazione abrogante dell'art. 41, comma 2, c.p., in quanto in tal caso il nesso causale è escluso già in base all'art. 40 c.p.

Per comprendere quanto detto è sufficiente riportare il noto esempio di un soggetto a cui viene somministrata una dose di letale di veleno ma che muore per una causa diversa prima che il veleno inizi a produrre i suoi effetti. Evidentemente in questo caso già alla stregua dell'art. 40 c.p. si esclude che la morte sia stata causata dall'avvelenamento.

Appurato ciò, deve allora convenirsi con la dottrina dominante per la quale l'art. 41, comma 2, c.p., si riferisce alle concause che – a differenza del precedente esempio – pur non troncando il nesso tra la condotta e l'evento, assumono un rilievo determinante in quanto straordinarie ed eccezionali.

Pur trattandosi, cioè, di un processo non completamente avulso dall'antecedente, deve essere caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, assolutamente «anomalo ed eccezionale, ossia si deve trattare di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta»(Cass. pen., Sez. II, 18 marzo 2015, n. 17804).

In altri termini, come è stato precisato più volte dalla Suprema Corte, «è configurabile l'interruzione del nesso causale tra condotta ed evento quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta» (Cfr. Cass. pen. Sez. IV, 2 dicembre 2016, n. 3312; Cass. pen., Sez. IV, 2 maggio 2017, n. 25560).

Se questa è la ricostruzione della giurisprudenza costante, può senz'altro osservarsi, in assenza delle pronunce di merito che hanno definito il giudizio, che la Suprema Corte si è posta nel solco della propria giurisprudenza ritenendo che per potersi invocare la non attribuibilità del fatto al soggetto occorre che l'intervento sopravvenuto «abbia soppiantato il rischio originario». Circostanza che di fatto non si verifica allorquando l'intervento ulteriore si colloca in connessione “sinergica” rispetto allo stesso.

Il provvedimento in commento rende necessaria anche una breve riflessione sull'incidenza del principio di affidamento nell'ambito dell'attività di equipe medica, fondamentale per stabilire i criteri attraverso i quali individuare il soggetto penalmente responsabile nel caso in cui il trattamento sanitario affidato ad una pluralità di medici sfoci in un esito infausto.

Quando si parla di equipe medica si fa riferimento alla cooperazione tra più operatori sanitari diretta alla realizzazione, in un contesto operativo unitario, del fine ultimo della tutela della salute del paziente. Tale cooperazione è governata dal principio della divisione del lavoro che rappresenta, da un lato, un fattore di sicurezza – consentendo ai medici di dedicarsi ai loro compiti specifici nell'ambito del trattamento curativo del paziente con la dovuta esclusività e concentrazione – ma, dall'altro un fattore di rischio – a causa dei possibili difetti di coordinamento e di informazione tra i componenti dell'equipe, degli errori nella scelta dei collaboratori, degli errori di comprensione e di quelli dovuti alla mancanza di una visione unitaria del trattamento da effettuare.

Bisogna infatti precisare che l'attività medica in equipe non è rappresentata solo dai casi in cui i sanitari cooperino sincronicamente e contestualmente per la cura di un paziente ma anche dai casi – come quello di questa sentenza – in cui il percorso diagnostico e terapeutico si sviluppa diacronicamente, attraverso una serie di attività tecnico-scientifiche di competenza di sanitari diversi, dotati di specializzazioni anche diverse e svolte in momenti cronologicamente successivi, casi in cui vi è una successione nella posizione di garanzia tra i vari medici che intervengono in sequenza, il che impone un passaggio di consegne efficiente e informato per far sì che il garante successivo sia posto nelle condizioni di intervenire.

In questi contesti ci si chiede a quali condizioni il singolo soggetto potrà rispondere delle condotte colpose poste in essere dagli altri componenti e fino a che punto si estenda il suo dovere di prudenza, diligenza e perizia quando partecipi a trattamenti terapeutici insieme ad altre persone.

La risposta a siffatto quesito è data dal ricorso al principio di affidamento che, derogando in parte ai generali criteri in materia di accertamento della colpa (non volizione dell'evento, difetto di diligenza, prudenza, perizia o inosservanza di leggi, regolamenti ordini e discipline, prevedibilità ed evitabilità dell'evento, concretizzazione del rischio, certezza che il comportamento alternativo lo avrebbe sicuramente evitato), legittima il soggetto operante in una equipe a rispettare le regole cautelari legate ai suoi specifici compiti e a confidare che anche gli altri osservino le doverose cautele, scritte e non scritte, connesse alle proprie attività, previste al fine di escludere o contenere i pericoli che da queste potrebbero derivare.

Tale principio assolve ad una funzione di perimetrazione degli obblighi di diligenza gravanti sui soggetti che agiscono in contesti interattivi. Pertanto, ciascuno sarà tenuto al rispetto dei doveri esigibili nei suoi confronti, mentre non sarà altrettanto responsabile degli eventi dannosi o pericolosi derivanti dalle inosservanze altrui.

Così strutturato il principio di affidamento rappresenta un limite all'obbligo di diligenza gravante su ogni titolare di una posizione di garanzia ma, a sua volta, dovrà essere controbilanciato con l'obbligo di garanzia verso il paziente posto a carico di ogni sanitario, per evitare che i singoli operatori sanitari si disinteressino completamente della condotta altrui.

Di conseguenza, il principio in parola trova dei vincoli, consistenti nel non poter essere invocato per sfuggire alla responsabilità penale sia da parte di quel sanitario che abbia posto in essere la condotta lesiva, confidando che altri ponga rimedio al proprio comportamento illecito, sia da parte di chi aveva l'obbligo giuridico di controllare e valutare l'operato altrui.

A tal proposito si richiama un consolidato orientamento giurisprudenziale in virtù del quale, in tema di colpa professionale nell'ambito di una equipe medica, «ogni sanitario, oltre al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto a osservare gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune e unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente e contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga rimedio a errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio» (Cass. pen., Sez. IV, 2 marzo 2004, n. 24036; in senso conforme: Cass. pen., Sez. IV, 12 luglio 2006, n. 33619 e Cass. pen., Sez. IV, 11 ottobre 2007, n. 41317).

La dottrina lo ha definito principio di affidamento c.d. temperato perché in grado di conciliare le esigenze di tutela della vita e dell'integrità fisica con il principio della personalità della responsabilità penale, quando l'errore è concretamente percepito o percepibile da un professionista impegnato nelle sue specifiche mansioni – errore evidente – e sia rilevabile in base al patrimonio di conoscenze comuni a qualsiasi sanitario, anche se privo delle specializzazioni del medico che lo ha commesso – errore non settoriale.

Pertanto, la Sezione IV bene ha fatto nel caso in commento a confermare la sentenza di condanna impugnata, giacché il principio di affidamento non è invocabile allorquando l'operatore abbia violato il dovere di coordinamento della propria con l'altrui condotta, il dovere di conoscere e valutare l'operato altrui e, infine, il dovere di controllare i rischi derivanti dal fatto stesso di operare su uno scenario terapeutico a carattere plurisoggettivo.

L'unica perplessità che, come accennato in precedenza, persiste, soprattutto con riferimento al ruolo avuto nella vicenda dal medico anestesista – per il quale, comunque, è stata annullata senza rinvio la sentenza per prescrizione del reato –, è il fatto che la Suprema Corte non si sia soffermata sulla esigibilità della condotta dei medici, nel senso di verificare se l'eventuale diagnosi corretta avrebbe potuto impedire il decesso del paziente, e sull'esatta individuazione dei poteri impeditivi che, se esercitati, avrebbero potuto evitare l'evento. Sono proprio questi poteri, infatti, a riempire di contenuto il precetto penale specificando il comando imposto, ovvero, le condotte che l'ordinamento pretende siano poste in essere dal garante per impedire il reato.

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